Alberto
Moravia (anagraficamente Píncherle), nato a Roma nel 1907,
non ha compiuto studi regolari perché, colpito all'età di
nove anni da tubercolosi ossea, ha trascorso più di dieci
anni in sanatorio, dedicandosi ad intense letture. Dopo
qualche collaborazione (racconti in francese) alla rivista
«900» di Bontempelli pubblica nel 1929 Gli indifferenti,
che dà parecchio fastidio alla cultura ufficiale. Per
qualche tempo lavora come inviato de «La Stampa»,
soggiorna negli anni 1930-35 a Parigi e New-York, viaggia
in Grecia e in Cina. Continua intanto a dedicarsi alla
narrativa; pubblica nel 1937 cinque racconti lunghi col
titolo L'imbroglio, nel 1941 il romanzo La mascherata, una
sorta di romanzo grottesco dove la caricatura del duce é
evidente. Dopo l'8 settembre 1943 abbandona Roma e
trascorre quasi un anno a Fondi, tra sfollati e contadini,
quelli che saranno descritti ne La Ciociara (1957).
L'indagine sulla realtà borghese e sui suoi vizi, quali
l'indifferenza, il torpore, l'abulia - tema pressoché
perenne di Moravia - si arricchisce via via di nuovi
strumenti conoscitivi, di nuove acquisizioni
dell'intellettuale Moravia, e nel contempo egli estende al
mondo popolare questa diagnosi dei mali borghesi: da un
lato quindi abbiamo (fra l'altro) Agostino (1944), Il
conformista (1951), La noia (1960) e tutta una serie di
variazioni sul tema (sino a La casa, 1983; II viaggia a
Roma, 1989), dall'altro La Romana (1947), i Racconti
rimani (1954) e i Nuovi racconti romani (1959), La
Ciociara (1957). Moravia inoltre ha esercitato per decenni
un ruolo da miftre à penser intervenendo - complice
l'industria culturale - attraverso la stampa quotidiana e
settimanale sui più vari argomenti (dal costume ai
problemi della vecchiaia a quelli del Terzo Mondo.,.). I
saggi raccolti ne L'uomo come fine (1964) restano però un
testo fondamentale del dibattito culturale di questi
ultimi decenni, e di grande rilievo è la presenza di
«Nuovi Argomenti», la rivista fondata nel 1953, di cui
egli è stato condirettore. È morto a Roma il 26 settembre
1990.
[Agostino]: I turbamenti di Agostino
Nel romanzo Agostino (1944) la scoperta della realtà - che
al tredicenne protagonista eponimo si presenta nelle due
fondamentali dimensioni del denaro e del sesso - è un
evento traumatizzante, è la dolorosa perdita di un mondo,
felice perché sentito ancora senza consapevolezza. Nella
rappresentazione di questa conoscenza del reale, di questa
maturazione (col tributo di sofferenza che essa comporta)
Moravia adotta, come vedremo, modalità stilistiche e
atteggiamenti non molto frequenti nella sua produzione,
nella quale Agostino ha quindi un posto particolare.
All'inizio Agostino è ancora "inconsapevole'", non è
uscito dal mondo dell'infanzia, ma oscuramente intuisce -
attraverso il comportamento della madre col giovane
corteggiatore - l'esistenza di un mondo di rapporti dal
quale si sente escluso.
Successivamente Agostino è già un altro: dai compagni che
frequenta - di estrazione sociale diversa dalla sua,
alto-borghese - è stato "iniziato", ha appreso con un
misto di curiosità e di ribrezzo molte cose che gli fanno
guardare con occhi diversi la realtà che lo circonda e i
comportamenti della madre.
In Agostino, il protagonista eponimo, un ragazzo
tredicenne, è in vacanza al mare con la madre vedova. La
presenza di un giovane corteggiatore e i comportamenti che
la donna assume turbano Agostino e gli danno un oscuro
senso di estraneità. Frequentando una compagnia di ragazzi
di estrazione sociale inferiore alla sua, Agostino
intuisce aspetti della realtà che prima gli erano ignoti,
cerca di uscire da quello stato di "minorità" costituito
dall'età e dalla non consapevolezza, e quando uno dei suoi
amici gli indica una casa di appuntamenti decide dì
andarvi per incontrare una donna, pur senza avere precise
idee su come comportarsi. L'esperienza però gli viene
negata, perché è respinto all'ingresso. Dopo aver visto la
madre che si bacia con il corteggiatore, Agostino chiede
di non esser più considerato e trattato come un bambino:
«D'ora in poi ti tratterò come un uomo», risponde la
mamma. «Come un uomo, non poté fare a meno di pensare
prima di addormentarsi. Ma non era un uomo; e molto tempo
infelice sarebbe passato prima che lo fosse».
Dal punto di vista narratologico in Agostino abbiamo la
presenza di un narratore esterno e quindi onnisciente che
descrive i comportamenti dei personaggi, i dati esterni e
nel contempo anche la loro interiorità, i loro pensieri e
turbamenti. Questa tecnica non esclude però che, nel caso
specifico, il narratore faccia la sua "scelta di campo":
in questo romanzo Moravia abbandona o comunque attenua la
sua abituale disposizione ad una fredda analisi (ad
esempio Gli indifferenti) e si apre ad un senso di pietà o
di simpatia (nel senso etimologico del termine, nel senso
cioè di condividere un pathos, un'emozione) per il
protagonista Agostino e indugia su toni di desolata
malinconia. AI Contini sembra addirittura che in questo
romanzo la rappresentazione si ponga «in termini
lirico-narrativi di aura poetica», cioè in termini
normalmente estranei alla narrativa moraviana. Si
rileggano ad esempio le rr. 90-95, nelle quali il ricorso
ad un certo punto all'indiretto libero serve a
sottolineare la nostalgia (che il narratore condivide col
personaggio) di «un paese dove tutte quelle brutte cose
non esistevano».
GLI INDIFFERENTI
Intreccio
La famiglia romana degli Ardengo (Mariagrazia, vedova, e i
due figli, Michele e Carla), di estrazione alto-borghese,
è decaduta economicamente; ne profitta Leo Merumeci,
affarista e libertino, di cui è infatuata Mariagrazia:
dopo aver dilapidato il patrimonio dell'amante, Leo mira a
impossessarsi della villa degli Ardengo e tenta nel
contempo di sedurre Carla, che si lascia corteggiare senza
entusiasmo. Disgustato dal comportamento melenso e geloso
della madre, Michele tende ad affermare la sua personalità
mediante un gesto esemplare, che smascheri Leo davanti a
tutta la famiglia; ma la sua inettitudine gli impedisce di
prendere una qualsiasi decisione. Nel corso di una cena,
Michele provoca platealmente Leo, ma è costretto ad una
umiliante autocritica, mentre Carla decide di concedersi a
Leo, pur di "cambiar vita". Il giorno successivo si
festeggia il compleanno di Carla; ma l'insulso rituale del
pranzo è guastato da una nuova lite tra Michele e Leo:
insultato dal Merumeci, il giovane reagisce con un poco
convinto tentativo di uno schiaffo, che va a vuoto.
Riuscito è invece il tentativo di Leo di far ubriacare
Carla, per possederla nella rimessa del parco; ma, nel
momento culminante della seduzione, la fanciulla ha una
crisi di vomito provocata dalla sbornia. Nel pomeriggio,
dopo aver invano tentato di riconquistare la sua ex-amante
Lisa, Leo si intrattiene con gli Ardengo nel salotto della
loro villa: qui esplode di nuovo la rivolta di Michele,
che si risolve in un gesto velleitario e isterico (il
portacenere, da lui scagliato contro Leo, sfiora la spalla
di Mariagrazia, che inscena una commedia di vittimismo
melodrammatico). Spinta da una "volontà di distruzione",
Carla si reca di notte a casa di Leo. A sua volta, Michele
si reca da Lisa, che tenta di sedurlo, ma, respinta, si
vendica rivelando al giovane di aver sorpreso Leo e Carla
abbracciati. Michele crede che sia finalmente venuto il
momento del gesto decisivo, che lavi col sangue del
seduttore l'offesa arrecata alla sorella. In realtà la sua
è solo una fantasticheria di omicidio: tanto è vero che,
quando spara contro Leo, sorpreso in casa sua con Carla,
la rivoltella è scarica, avendo il velleitario
protagonista dimenticato i proiettili in tasca. Non è
successo nulla e tutti riprendono con "indifferenza" il
loro ruolo: Leo sposerà Carla, Michele avrà un buon posto
di lavoro e accetterà, sia pure di mala voglia, la
relazione con Lisa, Mariagrazia persisterà a vivere nella
sua fatua incoscienza; e, tutti assieme, si avvieranno
verso una festa in maschera.
Struttura e sistema dei personaggi
Intenzione dichiarata di Moravia, quando, ventiduenne, si
accingeva a scrivere Gli indifferenti, era quella di
«scrivere un romanzo che avesse al tempo stesso le qualità
di un'opera narrativa e quelle di un dramma». In effetti,
il romanzo ha la struttura di un «dramma in sedici quadri
e due atti» (R. Tessari) e ciascuno dei sedici capitoli
che lo compongono ha il taglio di una scena teatrale, che
ha inizio con l'ingresso dei personaggi e si conclude con
la loro uscita. La "quinta" di questo romanzo-commedia è
rappresentata dalla villa degli Ardengo, immersa nella
penombra di uno spazio chiuso, dove non penetra la luce
del sole: una casa-prigione, da cui i giovani
protagonisti, Carla e Michele, tentano disperatamente di
evadere. Netto è il divario tra la prima parte,
prevalentemente drammatica, e la seconda, prevalentemente
narrativa. Mentre lo scenario, man mano che si procede
dalla prima parte alla seconda, si allarga dagli "interni"
domestici alla città, l'obiettivo della narrazione si
focalizza sul singolo personaggio, con sempre maggiori
concessioni alla tecnica del discorso indiretto libero.
Possiamo fissare il momento di transizione nel cap. VIII,
quando Carla, più che mai decisa a spezzare il vincolo
claustrofobico della casa-prigione, rivolge un addio alla
vecchia dimora («Addio strade, quartiere deserto percorso
dalla pioggia come da un esercito, ville addormentate nei
loro giardini umidi...»), con evidente calco del celebre
"addio" della Lucia manzoniana.
Fin dalla cena iniziale (si delinea il sistema dei
personaggi, collegati tra di loro da un rapporto
conflittuale (Leo/Mariagrazia, Leo/Michele) o interattivo
(Leo/Carla); sistema che si completa, nel terzo capitolo,
con l'apparizione di Lisa, il cui atteggiamento è, nel
contempo, conflittuale (con Leo e con Mariagrazia) e
interattivo (con Michele). Al centro del sistema c'è Leo,
che domina tutti gli altri personaggi con la sua forza di
uomo affermato e spregiudicato. Sesso e denaro sono gli
unici valori che contano per Leo, totalmente integrato
nella realtà degli affari e cinicamente teso a soddisfare
le sue voglie sessuali con spietata sicurezza da
professionista del piacere (si veda, nella scena della
seduzione, il paragone dei suoi gesti con i «gesti di un
chirurgo durante l'operazione»). È questa, pur nella sua
negatività, la figura più compatta e a tutto tondo
dell'opera.
Molto più ambigua è la figura di Mariagrazia, la "madre"
(un appellativo ironico, dal momento che mancano al
personaggio proprio le qualità necessarie a un ruolo
materno), introdotta fin dall'inizio, come una «maschera
stupida e patetica»: con il suo disprezzo per il popolo
(che la induce a non andare a vedere i Sei personaggi di
Pirandello perché... «è una serata popolare»), con il suo
snobismo («"Parigi è molto più interessante" disse la
madre che non c'era stata»), con la sua conformistica
osservanza delle convenzioni sociali, Mariagrazia è la più
compiuta incarnazione della "madre" borghese, chiusa nel
suo miserabile egoismo e nella sua coriacea ottusità.
La sua presunta rivale, Lisa, condivide con Mariagrazia
l'ipocrisia erotica, ma, pur cadendo nel ridicolo per le
sue moine fuori età, si riscatta ai nostri occhi per la
sua situazione di donna matura, innamorata di un
adolescente come Michele (una situazione
patetico-umoristica di tipo pirandelliano). Mentre Lisa
vuole redimersi con un nuovo amore, Carla accetta con
passiva acquiescenza la relazione con Leo; il sesso è per
lei l'unica rivolta contro la madre, della quale tuttavia
imita inconsciamente la strategia erotica, sostituendo il
suo giovane corpo a quello materno nella relazione edipica
con Leo, che la considera «quasi figlia». La prima
evasione di Carla dal "carcere" della villa si verifica
con la potente scena della seduzione nella rimessa: ma
l'ossessione claustrofobica del luogo trasforma il rito
amoroso in nausea. Dopo il cedimento definitivo in casa di
Leo, Carla si adegua con "indifferenza" alla nuova
situazione e, nella scena finale, indossa, come la madre,
una maschera per la festa: apertosi sulla maschera
immobile della "madre", il romanzo si chiude con due
maschere complementari, quelle di madre e figlia, ormai
identificate nella grande mascherata della vita.
Alla vicenda di Carla, che è quella di un adattamento
accettato, si contrappone la vicenda di Michele, che,
viceversa, è quella di un adattamento mancato. A
differenza di Carla, Michele rifiuta la sessualità:
emblematica è, in proposito, la scena del ballo, dove
Carla accetta di ballare con l'uomo-padre Leo, mentre
Michele, ballando con la madre, sancisce la sua natura di
perpetuo adolescente cercando protezione nell'abbraccio
materno. Inetto e abulico, Michele sperimenta
l'impossibilità del tragico nel celebre episodio della
pistola scarica: un "lapsus" che fa del personaggio un
"eroe" dell'impotenza, nella quale tuttavia c'è un germe
di opposizione a una società giunta al culmine del suo
disfacimento negli anni del fascismo.
Tecniche narrative e linguaggio
Il lettore degli Indifferenti rimane colpito dalla
rappresentazione moraviana dello spazio. Gli interni sono
cupi, angoscianti; le finestre serrate immergono
nell'oscurità persone e oggetti, mentre l'illuminazione
"ad iceberg" (T. Wlassics) scinde l'ambiente in due zone:
una più piccola, fiocamente illuminata, e l'altra più
vasta e invisibile, che infonde lo sgomento del mistero
dell'esistenza. Le atmosfere geometrizzanti comunicano la
sensazione di «cubi compenetrantisi», di «scatole cinesi»,
di «monadi senza porte né finestre» (B. Basile); e gli
specchi moltiplicano atrocemente le figure dei personaggi
che, ridotti a fantocci, a "manichini" alla De Chirico, si
aggirano smarriti in quel chiuso labirinto. Agli interni
logori corrisponde un linguaggio altrettanto logoro,
convenzionale, infarcito di luoghi comuni, che formano,
nel loro insieme, un formidabile glossario della futile e
insulsa conversazione borghese. Anche nei soliloqui,
attraverso la già accennata tecnica del discorso indiretto
libero, i personaggi esprimono la vacuità del loro mondo
interiore, proiettando in fantasticherie e sogni i loro
impossibili desideri di evasione (si pensi alle
fantasticherie di Michele prima del delitto mancato,
descritte in ben dodici pagine. Sviluppatissima è, infine,
l'aggettivazione giudicante, che tende a degradare il
personaggio, a demolirlo con implacabile ironia.
NUOVI ARGOMENTI
Rivista di letteratura e di cultura fondata a Roma nel
1953 da Alberto Carocci e da Alberto Moravia. Dal 1972,
anno della scomparsa di Carocci, Nuovi argomenti è stata
diretta da Moravia e da Pier Paolo Pasolini (già
precedentemente cooptato alla condirezione della rivista),
poi affiancati da Enzo Siciliano; dopo la morte di
Pasolini, Attilio Bertolucci ha assunto la
corresponsabilità della direzione insieme con Moravia e
Siciliano. Il dibattito che il primo numero di Nuovi
argomenti dedica a "Comunismo e arte" indica quasi
didascalicamente come la rivista tenda a superare i limiti
di un rapporto esclusivo con il "fatto" letterario per
aprirsi a un più largo ventaglio di temi
politico-culturali in una fase storica complessa e
contraddittoria quale quella degli anni della guerra
fredda. Non è casuale che, alla luce di simili premesse
metodiche, la politica internazionale finisca per
acquistare su Nuovi argomenti, soprattutto nella seconda
metà degli anni Cinquanta, uno spazio privilegiato: dopo i
due importanti referendum sullo stalinismo e sulla crisi
dello Stato guida (1956-1957), la rivista si occuperà del
colonialismo francese in Algeria (1958), della questione
delle due Germanie (1958 e 1960-1961), della Cina (1959),
della guerra nel Vietnam (1966). Un tipico strumento di
confronto e di verifica che fin dall'inizio delle
pubblicazioni Nuovi argomenti applica a temi sociopolitici
o letterari è l'"inchiesta": si pensi solo, per il primo
ordine di problemi, alle indagini che tra il 1954 e il
1958 Franco Cagnetta, Danilo Dolci, Rocco Scotellaro,
Luciano Bianciardi e Carlo Cassola dedicano
rispettivamente a Orgosolo, a Palermo, alla Lucania, ai
minatori della Maremma; per il secondo, ad alcuni
esemplari "bilanci" che hanno per oggetto il romanzo
(1959), la critica letteraria italiana (1960), l'erotismo
in letteratura (1961), la poesia (1962), i rapporti tra
letteratura e neocapitalismo (1964), la fine
dell'avanguardia (1966). Il semplice inventario tematico
dà la misura dell'intelligenza critica e dell'apertura
interdisciplinare di cui la rivista ha dato prova negli
oltre vent'anni di pubblicazioni, ponendosi come
significativo punto di riferimento per gli intellettuali
di sinistra in Italia, particolarmente negli anni
Cinquanta o Sessanta: di rilievo è in quest'ambito la
divulgazione di testi inediti di Lukács promossa da Nuovi
argomenti in coincidenza con la crisi dello zdanovismo e,
in Italia, dell'esperienza neorealistica. Rispetto a una
così stimolante e spregiudicata capacità di "provocazione"
culturale e politica, appare sicuramente meno importante
lo spazio che soprattutto negli ultimi anni Nuovi
argomenti ha destinato a testi inventivi, in poesia e in
prosa, di giovani scrittori italiani: anche se della
sezione più propriamente antologica della rivista
occorrerà riconoscere il sottile misurato equilibrio.
Franco Contorbia