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Opera di Benedetto Croce pubblicata a Bari nel 1924.
Ripensare la storia del "Reame" dopo settant'anni dal suo
tramonto, non può significare altro, quando chi la ripensi
si chiama Benedetto Croce, che porre in luce quanto
dell'antica civiltà di quello contribuì alla formazione
della Nazione Italiana e in essa è visibile ancora come
forza operosa. Un'erudizione vastissima costituisce il
fondo di questo ripensamento, con tutti i problemi critici
ch'essa implica; ma circola pel libro come un sangue
generoso, dandogli quell'agilità giovanile, quell'intimo
calore suasivo ch'è così lontano dai facili compiacimenti
paesani. La storiografia giuridica napoletana, a buon
diritto aveva esaltato il Regno, sorto a opera dei
Normanni, come la formazione politica più originale e più
alta di tutto il Medioevo. Una mirabile creazione politica
che precorse i secoli e segnò la via allo sviluppo degli
Stati europei. Ma, per quanto si cerchi nelle sue memorie,
non è possibile trovarvi "i tratti ammirevoli delle
popolazioni meridionali", e non si può non rilevare il
carattere di estraneità della sua storia rispetto a quella
propria delle genti pugliesi e campane, il cui genio
politico s'espresse sé mai nella fervida vita di quelle
repubbliche marinare, che i Normanni compressero nel loro
slancio vitale. Di quel regno glorioso è giunta sino a noi
l'unità territoriale ch'egli impresse alle provincie poste
a sud del Tronto e del Garigliano e, cosa più importante,
quell'ancor valida unità civile dello "stato governato dal
centro con uguali istituzioni e leggi, magistrati e
funzionarii". Se il Regno conobbe vicende alterne di
prosperità e di decadenza, questa forma dello Stato
moderno rimase intatta per secoli e non fu senza efficacia
nella storia d'Italia e d'Europa. Se economicamente il
Regno declina, se le sue città marinare sono sopraffatte
nel Mediterraneo da Venezia e da Genova, se la separazione
della Sicilia ne ha dimezzate le forze vitali, il suo
baronaggio alimenta con le sue virtù guerriere la politica
dei primi Angiò nella penisola Balcanica e sostiene
validamente le aspirazioni di Ladislao su l'Italia
centrale e sul regno d'Ungheria. Solo dopo la scomparsa di
Ladislao, il Regno perde rapidamente la sua autonomia,
diventa aperto alle influenze catalane, sino a divenire un
membro della corona di Spagna, prima di decadere al rango
di vicereame. Parve allora a molti che l'Italia finisse al
Garigliano e che il Regno, fra il sec. XVI e il XVIII, non
avesse parte alcuna al processo di formazione della
Nazione Italiana. Ma se è vero che precedette gli altri
stati della Penisola in quel rapido declino che tutti
parimenti travolse nel sec. XVI, è vero altresì che fu il
primo a risorgere nell'età del razionalismo e delle
riforme, come in quella delle rivoluzioni, coi suoi
cartesiani e illuministi, coi suoi giacobini e patrioti.
Anzi si può ben dire che mentre ancora durava nell'Italia
tutta il torpore, esso coi suoi Bruno, con i Campanella e
con i Vico, dischiudeva al mondo intero le porte della
nuova età. Essi fecero sí che in Italia germinassero nuovi
pensieri e nuovi propositi, si rifacesse su nuovi princìpi
la cultura, si ripigliasse con nuovi ideali la politica,
affrettando per questa via la formazione dell'Italia
odierna. Tanto più mirabile questo carattere europeo e
d'avanguardia della cultura napoletana, ove si pensi
ch'essa era meno favorita dalla posizione geografica e
dalle condizioni economiche, monito a quanti ricorrono a
canoni deterministici, nell'interpretazione della storia.
Senza quel grande moto ideale non si comprenderebbe il
Risorgimento italiano, che nelle vittime della Repubblica
Partenopea ebbe il suo primo martirologio. Quel grande
moto è ancora operoso nella vita spirituale del popolo
italiano, che riconosce nel "robusto pensiero meridionale"
la forza ond'egli più efficacemente collabora al progresso
dell'umanità. |