Parliamo di |
|
Autori
del Novecento italiano |
|
Guglielmino Grosser |
|
|
|
|
La
narrativa |
|
|
Aspetti del panorama
italiano
In Italia nel periodo preso in esame, nell'ambito della
narrativa, il caso più significativo è quello di
Pirandello, che col suo Il fu Mattia Pascal (1904)
realizza compiutamente un romanzo nuovo, "novecentesco" e
con la sua produzione di novelle (diventeranno poi le
Novelle per un anno) e col saggio L'umorísmo (1908) supera
le modalità narrative e la concezione stessa dell'arte che
erano state dominanti nell'Ottocento. Non si può dire
comunque che il riconoscimento della sua straordinaria
novità sia avvenuto nell'età giolittiana. Ancora nel 1914
un critico come Renato Serra lo considerava alla stregua
di tanti narratori di "intrattenimento" e di "consumo".
Intanto, mentre sull'opera di Verga era calato il
silenzio, i romanzi di Fogazzaro e più ancora quelli di
D'Annunzio godevano di ampio successo presso la borghesia
più o meno colta, che nei conflitti delle "anime belle"
fogazzariane o nelle estetisti che raffinatezze degli eroi
dannunziani poteva illudersi di riconoscersi o di trovare
suggestioni e modelli di comportamento.
Narrativa e consumo
C'era poi tutta una produzione di narratori oggi
completamente ignorati - da Luciano Zuccoli ad Ugo Ojetti,
da Antonio Beltramelli a Virgilio Brocchi, da Carola
Prosperi ad Amalia Guglielminetti, ecc. - dei quali Renato
Serra in quel suo prezioso bilancio della letteratura
dell'età giolittiana che sono Le lettere (1914) scriveva:
«Ognuno di questi [...] scrive con decoro e con qualche
facoltà non trascurabile o di sentimento o di ironia o di
realismo o di letteratura; ma tutto questo si confonde un
poco nella produzione e nel consumo di tutti i giorni: non
c'è pagina che si stacchi dalle altre, né scrittore che
spicchi dalla pagina». Purtroppo, nell'elenco degli
scrittori sopra citati, Serra includeva Pirandello... Ma a
parte questo "incidente di percorso", il critico coglieva
bene quello che stava accadendo: la letteratura diventava
"produzione" e "consumo di tutti i giorni", il pubblico
dei lettori via via si allargava, prendevano fisionomia
sempre più definita i vari fenomeni connessi alla
cosiddetta para-letteratura, che si basa fra l'altro sul
declassamento e sulla "volgarizzazione" della letteratura
alta - dei valori e dei miti che essa elabora - per
un'utenza sempre più larga. Ora, i miti del tempo sono
quelli dannunziani e in una prospettiva di
sociologia letteraria merita attenzione la loro
volgarizzazione operata con largo successo di pubblico da
GUIDO DA VERONA (1881-1939). Definito da Adriano Tilgher
il «D'Annunzio delle dattilografe e delle manicure», Guido
Da Verona mutua dal maestro alcuni temi di fondo
(l'esotismo, il disprezzo della morale borghese,
l'esaltazione del superuomo, l'erotismo), ma li "cucina"
in una prosa meno raffinata e artificiosa; si abbandona a
moduli più facili, più accattivanti, più sentimentali e
"struggenti", e si fa complice delle fantasticherie con le
quali il piccolo borghese sfoga 1e sue frustrazioni. Opere
come IL piacere o Le vergini delle rocce esigevano dal
lettore, in ultima analisi, una certa educazione
letteraria, della quale si poteva fare a meno invece per
immedesimarsi e stordirsi nelle pagine di Colei che non si
deve amare (1910) o di Mimì Bluette, fiore del mio
giardino (1916), romanzi che godettero di larghissimo
successo. Ma ebbero anche successo, in quegli anni, opere
che anziché blandire il lettore sia sul piano tematico che
su quello formale, ponevano invece problemi, costringevano
a riflettere, rappresentavano con spirito critico la
società costituita e le sue convenzioni.
È il caso di Una donna, un'avvincente narrazione della
propria vicenda biografica che SIBILLA ALERAMO (1876-1960)
pubblicava nel 1906. Oggetto di attenzione da parte di
Graf, Ojetti, Panzini, Pirandello, tradotto nel giro di
pochi anni in tutte le principali lingue europee, questo
testo, «che non può dirsi come genere letterario
un'autobiografia, ma è un vero e proprio romanzo» (Corti),
non interessa solo "il mercato delle lettere" del primo
Novecento italiano, ma anche il dibattito culturale e il
costume: i problemi della condizione femminile trovano qui
una delle prime espressioni, e con un'incisività e una
modernità che anche il lettore di oggi - dopo che in
questo ambito tanto si è detto e si è realizzato - non può
fare a meno di apprezzare.
Un caso eccentrico
e' di quegli anni - e collegabile in fondo a quel clima di
ricerche che connota l'età giolittiana - un'opera che va
ricordata e merita molta più attenzione di quanta
normalmente non gliene venga attribuita: Il codice di
Perelà (1911) di Aldo Palazzeschi. La storia del
protagonista - un "uomo di fumo" che non ha consistenza
corporea, scende fra gli uomini attraverso la cappa di un
camino, viene prima ammirato e onorato per la sua
singolarità e, dopo, condannato a reclusione perpetua, si
invola al cielo ancora una volta attraverso un camino - è
narrata in 19 agili capitoletti, molti dei quali sono
costituiti da un susseguirsi di velocissimi dialoghi, di
rapide battute: la tradizionale struttura narrativa è
sconvolta. Siamo di fronte a « un esempio precoce di
antiromanzo», osserva il De Maria, il quale fa poi notare,
oltre l'aspetto formale, che «nell'aerea favola
palazzeschiana Perelà rappresenta l'alterità, la coscienza
possibile, il simbolo di una vita libera da ceppi». Si
tratta perciò di un'opera che, come la contemporanea
produzione in versi di Palazzeschi, è sottesa da una
poetica di libertario "divertimento", che si presenta con
una molteplicità di aspetti («favola allegorica; romanzo
ermetico [...] farsa, opera buffa, romanzo aperto,
antiromanzo; opera impegnata sia pure indirettamente con
le tensioni sociali del proprio tempo; libera fantasia
poetica», suggerisce ancora il De Maria) e che nel
Novecento dà inizio a quella linea di narrativa
"fantastica" di cui in seguito parleremo.
La produzione di ALDO PALAZZESCHr (1885-1974) occupa più
di un cinquantennio e interessa sia la narrativa sia la
poesia.
Il famoso verso «E lasciatemi divertire» (che dà anche il
titolo ad un componimento poetico) si potrebbe scegliere
come sintetica indicazione della sua poetica e della sua
"cifra". Sin dalla sua prima attività, che già nel primo
decennio del Novecento dà notevoli realizzazioni,
Palazzeschi con le poesie delle raccolte I cavalli bianchi
(1905), Lanterna (1907), Poemi (1909), L'incendiario
(1910) definisce la sua fisionomia, nella quale il gusto
della dissacrazione delle forme metriche e dei valori
tradizionali si coniuga coll'irruenza iconoclasta e
polemica del futurismo (al quale per breve tempo aderì) ma
con una levità ironica, con una vocazione al divertimento,
con un'abilità funambolesca che costituiscono un unicum
nel panorama letterario del tempo. Certe sue filastrocche
cantabili, certi suoi componimenti di versicoli che
registrano la banalità del quotidiano (La passeggiata, ad
esempio) sono sottesi da una forte carica eversiva, che
trova però la sua modalità specifica nello sberleffo
monellesco, nel divertimento: l'irrisione nasce da una
crisi di valori, il grottesco da un sostrato pessimistico.
Anche Il Codice di Perelà (1911) si inserisce, col suo
umorismo fantastico e con la destrutturazione delle
tecniche narrative tradizionali, in questo orientamento e
conclude la prima fase dell'attività di Palazzeschi.
Stampe dell'Ottocento (1932) e Le sorelle Materassi
(1934), due opere che segnano un'altra fase della
produzione di Palazzeschi, sono una raccolta di
"ritratti", di "figure umane" rappresentate nell'ambiente
cui appartengono: la prima è ispirata al tradizionale
memorialismo e bozzettismo toscano, e la seconda è la
storia di due anziane ricamatrici travolte dal
condiscendente affetto per il nipote Remo, un giovane
scavezzacollo che le manda in rovina e poi le abbandona.
Nel panorama narrativo di quegli anni, oscillante tra
l'inclemente referto sulla corruzione borghese di un
Moravia o le sofisticate analisi coscienziali dei
solariani, Palazzeschi si distingue per una cordialità
narrativa in sapiente equilibrio fra dissacrante
divertimento e fascino della memoria, e per una prosa di
particolare vivacità e freschezza. È comunque «nella
misura del racconto - scrive Giorgio Luti - che lo
scrittore sembra raggiungere la concisione necessaria a
disegnare in modo mirabile le sue figure
tragico-grottesche e ad affidargli un peso simbolico
altrimenti irraggiungibile». Da questa prospettiva, i
racconti raccolti ne Il palio dei buffi (1937) «ci
consegnano il ritratto più autentico di Palazzeschi
narratore, inventore di situazioni umane in cui l'assurdo
e il grottesco assumono il significato di simboli». C'è
poi (ferma restando la relatività di queste scansioni) una
terza fase dell'attività di Palazzeschi, quella dei
romanzi I fratelli Cuccoli (1948) e Roma (1953), nella
quale sono presenti certe ambizioni ideologiche che
compromettono la felicità narrativa.
Da ultimo Palazzeschi ritorna alle sue vocazioni più vere
- l'estrosità surreale, il diverIimento grottesco - con le
novelle de Il buffo integrale (1966), con i romanzi Il
doge (1967) e Stefanino (1969) e con le poesie di Cuor
vaio (1968) e di Via delle cento stelle (1972), nelle
quali «dimostra una stupefacente vitalità espressiva,
riproponendo accanto alla fresca e polemica inventività
degli anni futuristi un'immagine di vecchio fanciullo
sensibile e indulgente» (Luci).
Ma accanto all'eccentrico romanzo di Palazzeschi un altro
testo ci sembra significativa testimonianza di questo
periodo per ragioni, oltre che letterarie, culturali: il
romanzo/autobiografia Un uomo finito di GIOVANNI PAPINI
(1881-1957), edito nel 1913. Si tratta di un'autobiografia
"letteraria'', che può considerarsi il rendiconto, il
bilancio e, per così dire, la mappa culturale di una
generazione - quella delle riviste fiorentine - con le sue
ribellioni autentiche e i suoi ribellismi in posa, con le
sue novità realizzate e con le sue "rivoluzionarie"
ricerche d'effetto. E si tratta, nel contempo, del libro
tipico di Papini, cioè di un'opera paradigma le cui
caratteristiche possiamo ritrovare in tante altre che la
precedono o la seguono. Nel ripercorrere le tappe del suo
itinerario intellettuale, in quest'opera Papini assume
toni di compiaciuto ribellismo, si atteggia in pose
titaniche, e nel descrivere la sua vicenda di moderno
Faust punta volutamente sull'eloquenza, sull'ostentazione
di tanta impresa dominare tutto quanto lo scibile,
esaurire tutte le esperienze intellettuali possibili e di
tanta sconfitta. Sia le ambizioni che le sconfitte del
protagonista sono sempre al di là della normale dimensione
umana: e da ciò l'impressione di troppo scaltrita ricerca
di effetti che dà il libro. Se ne può ammirare
l'eloquenza, ma è l'ammirazione che si può provare per
l'equilibrista, che non ci commuove quando simula di
cadere: anche questo rientra nel gioco, fa numero.
Nella raccolta Autobiografia di Saba si legge: «A Giovanni
Papini, alla famiglia / che fu poi della "Voce" io appena
o mai / non piacqui. Ero fra lor di un'altra specie». Non
è difficile comprendere questa scarsa simpatia, anzi
questa "alterità", se si pensa da un lato alla serietà
umana e intellettuale di Saba, alla stia ricerca di una
«poesia onesta» (e dall'altro al clima dei cenacoli e
delle riviste fiorentine, nel quale «si sentiva più
accaloramento che calore, più impeto iniziale che
costanza, più mobilità che movimento, più curiosità e
dilettantismo che interessamento e serietà» (Croce). In
questo contesto di per sé ricco di intellettuali "presenzialisti"
e smaniosi di novità, Giovanni Papini è una delle presenze
più rumorose e costanti. Assetato di cultura, sinceramente
bramoso di una conoscenza enciclopedica, disponibile - con
gli entusiasmi dell'autodidatta e l'ardore del neofita - a
tutte le avventure intellettuali, Papini è da considerare
il rappresentante esemplare di questo clima culturale, nel
quale già la conquista del favore del pubblico era imposta
dall'industria editoriale e l'esempio dannunziano
esercitava profonda suggestione. Papini passò attraverso
il pragmatismo, il futurismo, l'interventismo, gli studi
di religione e di teosofia, la poesia e la critica: ma di
quest'ultima scelse, come formula o come sottogenere, la
stroncatura con una frequenza e un'ostinazione che sanno
molto di partito preso: Crepuscolo dei filosofi (1906);
Stroncature (1916). Non diversamente, d'altra parte, da
quanto avviene negli scritti che in quegli anni Papini
dissemina nelle riviste: nel «Leonardo», che fonda nel
1903 (durerà sino al 1907); nel «Regno», di cui è
redattore capo; in «Lacerba», che fonda nel 1913. Nella
virulenta polemica contro la democrazia e contro il
socialismo, c'è sempre un di più e un'ostentazione che
insospettiscono.
È un atteggiamento, questo, che più o meno costantemente
sarà la "cifra" di Papini: anche quando nel primo
dopoguerra si converte clamorosamente al cattolicesimo e
pubblica una Storia di Cristo (1921) nella quale, al
solito, non rinunzia a épater les bourgeois, se non
concettualmente almeno stilisticamente. Toni meno forzati
è invece possibile trovare nelle prose poetiche di Cento
pagine di poesia (1915), nei versi di Opera prima (1917) e
nei "racconti metafisici" (qualcuno è piaciuto a Borges)
che risalgono agli inizi della sua attività (Il tragico
quotidiano, 1903; Il pilota cieco, 1907).
Col regime fascista Papini vede realizzare molte delle sue
aspirazioni e l'ex ribelle diventa un intellettuale
integrato: dedica il primo volume di una Storia della
letteratura italiana "al duce, amico della poesia e dei
poeti"; entra a far parte dell'Accademia d'Italia; nel
1939 pubblica Italia mia, un'opera nella quale la retorica
nazionalistica tocca - in linea con la propaganda
ufficiale - punte difficilmente superabili.
Negli ultimi 10-15 anni della sua vita, letterariamente è
un sopravvissuto.
La prosa non narrativa
Dopo questo panorama della narrativa del primo Novecento,
vorremmo ora prendere in esame un uso della prosa che,
esulando dal genere narrativo, si colloca in una zona non
chiaramente definibile secondo la catalogazione dei
generi, in una zona magari "ambigua" ma non per questo
meno degna di attenzione in una prospettiva di storia
letteraria.
Per impostare il problema occorre rifarsi un po' indietro
e ricordare che il canone romantico della spontaneità,
dell'originalità, della valorizzazione dell'io comportava,
a breve o a lunga scadenza, l'abbattimento delle "regole"
e innescava un processo irreversibile di destrutturazione.
Già nel nostro romanticismo, pur così "conciliativo "
rispetto a quelli d'oltralpe, un primo esempio di
destrutturazione delle forme metriche tradizionali lo si
ha con Leopardi, che abolisce le forme chiuse e la rima
regolare e costruisce i suoi Canti con estrema libertà
rispetto alle regole della tradizione. Ma c'è un altro
effetto dell' "onda lunga" romantica, che almeno per ora
ci preme maggiormente sottolineare, ed è il progressivo
superamento della distinzione tra prosa e poesia, che
nelle letterature straniere si constata prima che in
quella italiana e del quale realizzazioni esemplari sono i
poèmes en prose di Baudelaire e di Rimbaud (le
Illuminazioni). Il poema o poemetto in prosa si presenta
come un nuovo genere letterario che contamina prosa e
poesia e ha caratteristiche ben definite: è breve e
scritto in un linguaggio estremamente denso e concentrato;
ha un carattere prevalentemente lirico; valorizza le
qualità musicali della parola (eletta e calibratissima);
presenta un frequente ricorso all'iterazione; abbandona il
piano referenziale e informativo e per così dire prende
quota col ricorso alla dimensione immaginifica,
metaforica. Si tratta nel complesso di modalità espressive
che sono proprie della poesia: e il poemetto in prosa
nasce appunto come sperimentazione, come tentativo di
realizzare un discorso poetico al di fuori delle forme
metriche tradizionali. Da questo punto di vista esso si
inserisce nel processo di dissoluzione delle strutture
metriche tradizionali che si esprime anche nel verso
libero.
La presenza di questo nuovo genere o forma letteraria si
registra in Italia un po' in ritardo rispetto alle
esperienze straniere ed è particolarmente fiorente nel
primo quindicennio (circa) del Novecento. Contribuivano al
fiorire del poemetto in prosa in Italia la maggiore
conoscenza della produzione straniera collegata
all'esperienza del decadentismo, ma anche suggestioni
critiche che orientavano verso il "frammento", verso il
componimento in prosa breve e intenso (si pensi a quanto
teorizzava De Robertis sulla «Voce», nonché alle
giustificazioni che alla poetica del frammento poteva
fornire - magari al di là delle sue intenzioni - Croce con
la sua estetica, col suo ridurre l'opera d'arte ad un
nucleo lirico).
È soprattutto il gruppo degli scrittori che gravita
attorno alla «Voce» a porsi con particolare tensione
intellettuale il problema della "parola letteraria", delle
valenze e delle possibilità che essa racchiude. Alla
ricerca di uno stile capace di inglobare la totalità del
reale, i "vociani" esprimono il meglio delle loro capacità
in pagine frammentarie, dense, cariche di tensione che
parecchia critica qualifica come "espressionistiche" per
la violenza espressiva, per la vocazione a ridurre la
distanza fra prosa e poesia e a forzare l'area semantica
tradizionale caricando la parola di nuove valenze, per il
gusto della sottolineatura autobiografica che le
caratterizza. Ne Il mio Carso (1912) di SCIPIO SLATAPER
(1888-1915), nei frammenti di Giovanni BOINE (1887-1917),
in tante pagine "in prosa" di poeti come Campana e Rebora,
in Con me e con gli alpini (1919) di Piero Jahier tutto
ciò è ben visibile: siamo di fronte al poemetto in prosa,
al superamento della tradizionale distinzione fra prosa e
poesia.
|
|
|
|