STRANEZZE
Poesie. Il volume, edito nel 1976, e
successivo alla raccolta complessiva di Tutte le poesie.
Su Penna
si sono fronteggiati, sin dai lontani anni Quaranta, due
partiti abbastanza tenaci. L'uno ha fatto della sua poesia
un "unicum" d'eccezione e controcorrente, fuori quasi
dalle più determinanti tendenze della nostra maggior
ricerca lirica e delle sue più caratterizzanti linee che
si sono potute riconoscere in esperienze fortemente
motivate da speculazioni e riflessioni estetiche e
critiche di rilievo tendenzialmente europeo, e che ha
avuto convinti assertori nel filone "antinovecentesco"
della nostra cultura poetica. Fra questi, nell'ultimo
ventennio, era stato indubbiamente un lettore fortemente
motivato e personale come Pasolini. Successivamente Cesare
Garboli, a proposito di Stranezze ha voluto ribadire
l'eccezionalità e la "diversità" della poesia di Penna,
nei confronti del panorama circostante. L'altro partito,
senza lesinare alla poesia di Penna
l'ammirazione che senza dubbio le spetta, tende invece a
leggerla in un quadro critico più sfumato e articolato. A
Penna
spetterà un luogo assai personale in quella linea che
riferendo a un grande maestro novecentesco come Saba, ha
trovato in lui la grazia eccezionale di un piccolo maestro
tanto più perfetto quanto naturale nell'occupare il
proprio spazio, che è quello dell'idillio a suo modo
teocriteo, dell'impressionismo fulmineamente figurato, di
una sorta di realismo poetico fuor d'ogni canone, guidato
infallibilmente da eros e, più di rado, da un tipo tutto
suo di mottetto e di gnomica. Il nuovo Penna
di Stranezze permette di porre l'accento sulla naturalezza
e libertà di una poesia che nelle sue riuscite spesso
felicissime è capace di raggiungere spontaneamente e senza
altre implicazioni lo scatto di un'impressione reale,
l'essenzialità di una figurazione che sa risolversi
direttamente in immagine e in musica dando infine forma a
quella poetica dell'eros greco che in lui ha avuto il suo
più autentico cantore. Il linguaggio di Penna
è di una misura e di una castità tanto più straordinarie
se poste in rapporto a una tematica che in lui non potrà
essere neutra e a una poesia che pur nascendo, a volte,
nei luoghi più squallidi dell'esistenza, ha poi la grazia
innata di saperne cogliere la più imprevedibile metafora:
"Questo corpo che stringo (e mi stringe!) / ha sapore di
fango e di stelle. / Ed io non so chi ora mi tinge /
(profondissimo giuoco) le stelle / di rosso".
Caratteristica nuova di questo libro, che segue un po'la
parabola del poeta nell'età che avanza, è il mutamento
della grazia felicemente tonale e ritmica di un tempo, in
una diversa proiezione di sé più pacatamente velata; un
diverso e quasi fisico ripiegamento del poeta in sé.
Accanto ai segni ancora nitidi dell'antica gioia di eros,
se ne colgono altri di diversa e più consunta fisicità:
"Il ciuco fisarmonica del dolore / nell'ozio, fiducioso
del sudore"; il convertirsi dell'antica grazia in
un'altrettanto personale metafora dello sfaldarsi delle
immagini in trasparenze senza più corpo: "Arso
completamente dalla vita / io vivo in essa felicemente
dissolto...". Fino a cogliere nella quasi prosa di certe
poesie una essenziale dimensione di canto senza più
musica, come nella straordinaria "Cronache di primavera"
dove, nella fissità del poeta "voyeur", sembra riemergere,
addirittura, il ricordo felicemente riassorbito di certi
memorabili idilli in prosa dello Zibaldone leopardiano.
Marco Forti
TUTTE LE POESIE
Edizione completa delle poesie
pubblicata a Milano nel 1970. Con il titolo di questa
raccolta, che reca una nota dell'autore, si è inteso
indicare l'inserimento di quelle liriche che in precedenza
(Poesie, 1957) erano state accantonate perché giudicate
inopportune per motivi moralistici. Oltre infatti alle
poesie pubblicate nel 1957 (Poesie (1927-38), Poesie
inedite (1927-'55), Appunti (1938-49), Una strana gioia di
vivere (1949-55), questa edizione comprende Croce e
delizia pubblicata nel 1958 e le pressoché inedite
Giovanili ritrovate (1927-1936) e Altre (1936-1957). La
censura esercitata sull'opera di Penna
è indicativa della particolare posizione in cui egli si
trovò nell'ambito della cultura italiana: benché
riconosciuta come una delle voci più felici del Novecento,
la sua poesia non cessò mai di suscitare una certa
diffidenza (dovuta alla sua musica espressiva
apparentemente grezza e al gusto per un linguaggio
innocente, disarmato e umano - definito poi "narrativo
umano" e addirittura "sociale", prefigurazione stilistica
del neo-realismo), e il poeta stesso, pur riscuotendo
favore e simpatia, venne tenuto in una posizione d'eterno
adolescente non del tutto responsabile, amato ma con
indulgenza, protetto e sottoposto a tutela. Penna
è un'isola nella poesia del Novecento; deve molto
all'ermetismo, tuttavia se ne mantiene assai lontano,
tentando piuttosto, e non sempre felicemente, la strada
difficile del realismo, che lo intimorisce ma lo
affascina. L'unico riferimento valido può essere - entro
certi limiti - il nome di Saba, cui ventiduenne Penna
inviò le proprie poesie per un giudizio. Saba fu
entusiasta di una sola lirica ("La vita... è ricordarsi di
un risveglio / triste in un treno all'alba: aver veduto /
fuori la luce incerta: aver sentito / nel corpo rotto la
malinconia / vergine e aspra dell'aria pungente. / Ma
ricordarsi la liberazione / improvvisa è più dolce: a me
vicino / un marinaio giovane: l'azzurro / e il bianco
della sua divisa, e fuori / un mare tutto fresco di
colore"), giudicò le altre, che pure erano state composte
successivamente e con maggiore tensione e approfondimento
"ancora acerbe": Penna
ne dedusse che la propria poesia doveva scaturire
all'improvviso, che "l'ispirazione è quello che conta...
che quando preme qualcosa la forma si trova sempre, viene
sempre". Effettivamente nella sua poesia non appare sforzo
(se ci sia stato nella composizione è oggetto di
contrastanti supposizioni della critica) e ciò lo
distanzia dalla cifra e dal calcolo ermetico. Si veda
qualche esempio: "Il mare è tutto azzurro. / Il mare è
tutto calmo. / Nel cuore è quasi un urlo / di gioia. E
tutto è calmo"; oppure la lirica dal titolo "Nuotatore":
"Dormiva...? / Poi si tolse e si stirò. / Guardò con occhi
lenti l'acqua. Un guizzo / il suo corpo. / Così lasciò la
terra". Si è parlato di infantile innocenza e di
abbandonata gioia, di poesia ingenua, candore sensuale, di
"fiore senza gambo visibile"; il celebre distico che
chiude la prima "plaquette" ("Io vivere vorrei
addormentato / entro il dolce rumore della vita") è stato
tradotto in prosa in "Oh avere una vita di sensazioni
anziché di pensieri", per indicare il rifiuto di una legge
morale. Ma non bisogna trascurare tutta una dimensione
della poesia di Penna,
in cui sono innegabili la riflessione e una grande
tensione morale anche se espresse nella semplicità di un
linguaggio dimesso. Per esempio: "Forse la giovinezza è
solo questo / perenne amare i sensi e poi pentirsi" oppure
"Ecco fanciullo, io ti ho portato a questo / luogo
selvaggio a notte per che fare? / Non so. Non posso
soffocare io questo / amore della vita. E sotto è il mare.
/ Lo varcherò. Conoscerò le genti / più disparate. Vedrò
quanto è bella / la vita negli occhi di chi ha / quindici
anni fanciullo, come te" o quest'altra, criticata per una
sentenziosità epigrammatica che minaccerebbe la brevità
essenziale di Penna,
altrove riconosciuta come la sua migliore misura: "Felice
chi è diverso / essendo egli diverso. / Ma guai a chi è
diverso / essendo egli comune". Pasolini, in un acuto
saggio del 1958, volle prendere posizione per rivendicare
una precisa storicità alla poesia di Penna,
che nasce da una esperienza del dolore e da un male che
non è per nulla "greco", ma è invece male del nostro
secolo. Quando gli fu conferito il premio Viareggio,
Pasolini respinse tutte le reazioni che seguirono, dal
ghigno virilista dei fascisti, all'arricciare il naso dei
benpensanti, al "prescindere" magari con illuminata
saggezza di laici o con spirito di veri cristiani. Rifiutò
la sospensione di giudizio della critica ermetica e le
conclusioni circa la cosiddetta "grazia" di Penna.
Sostenne che l'entusiasmo che inonda la vita di Penna
e rende ridenti i suoi versi è una forma della morale
religiosa rimasta schiacciata o mistificata dalla nevrosi,
che la gioia di Penna
ha come contraltare un'angoscia che serpeggia nei suoi
versi e alla fine va dilagando; che la sua morale è tra le
più esigenti, sebbene irrisolta e di necessità
intermittente, ossessiva ma squarciata dalla continua
riscoperta di un eros che rende meravigliosa l'esistenza.
Anche per le composizioni più pure e aggraziate (il limite
alto della sua poesia, opposto a un limite basso nel senso
di prosastico, crepuscolare, sabiano; ovvero i cosiddetti
talismani di cui è un esempio la summenzionata lirica: "Il
mare è tutto azzurro") Pasolini rifiutò l'etichetta di
impressionismo, riconducendoli (per eccesso di bellezza
che contraddice la non trasgredibile regolarità della
grazia) piuttosto a una sorta di espressionismo inteso
come manifestazione stilistica della moralità di Penna,
della sua dolorosa gioia. Il saggio di Pasolini rimane
insuperato, ma non per questo sono composti i contrasti
critici su questa strana figura di uomo e di poeta; egli
ci ha donato, nelle indimenticabili immagini dei suoi
angeli-giovinetti e operai, l'espressione voluttuosa e
magica di un amore che è "verità, folle, ma stupenda";
fino alla morte vide crescere intorno a sé l'amicizia e i
riconoscimenti, ma mai dissiparsi del tutto le riserve.
Umberto Mellis