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Lalla
Romano nata nel 1906 a Demonte (Cuneo), dopo la laurea in
Lettere ha fatto la bibliotecaria e l'insegnante e,
allieva di Felice Casorati, si è anche dedicata con
interessanti risultati alla pittura. Nel 1947 si è
trasferita a Milano e ha privilegiato l'attività
letteraria (nel 1941 aveva già pubblicato una raccolta dì
versi, intitolata Fiore), dedicandosi alla narrativa. Dopo
Le metamorfosi (1951) e L'uomo che parlava solo (1961), le
sue opere si distinguono per una sorta di vocazione
autobiografico-memoriale: in forma più o meno mediata si
collegano alla sua vicenda umana. Ricordiamo, fra l'altro,
Il tetto murato (1957), storia di due coppie sullo sfondo
della Resistenza a Milano; La penombra che abbiamo
attraversato (1964); Le parole tra noi leggere (1969), che
descrive un difficile rapporto col figlio; Una giovinezza
inventata (1979), dedicato agli anni universitari di
Torino, Nei mari estremi (1987), rievocazione di un
rapporto matrimoniale e della morte del marito.
Rilettura dell'infanzia (La penombra
che abbiamo attraversato)
Il testo che ora proponiamo è tratto da La penombra che
abbiamo attraversato, un'opera (la qualifica di "romanzo"
sarebbe impropria) di Lalla Romano che persino nel titolo
suggerisce al riferimento a Proust. Si tratta di un
"itinerario memoriale" suggerito alla scrittrice da un
ritorno nei luoghi della sua infanzia: impressioni;
ricordi; sensazioni infantili vengono così riscoperti e
riesaminati da una sensibilità adulta, in un continuo
andirivieni tra presente e passato. Il tutto in uno stile
di cristallina chiarezza.
La penombra che abbiamo attraversato è un romanzo, con
personaggi e vicende, sia pure accennati e scorciati.
Tutto naturalmente visto nella prospettiva della bambina
rinata dentro all'adulta. In sostanza abbiamo un fitto
incrociarsi e integrarsi di prospettive e di voci. C'è la
prospettiva del passato infantile, già con un suo
spessore, via via che la realtà incomincia a prendere
forma; c'è la prospettiva dei discorsi degli adulti,
allusione, per la bambina, a verità e leggi ancora tutte
da sondare; c'è la prospettiva del presente, che ora la
narratrice proietta sul passato. Una serie di piani
discorsivi che la Romano riesce ad alternare in una
composizione che ha come norma il tempo: spessore,
stratificazione del tempo. La distinzione dei piani
temporali funge anche da vaglio degli atteggiamenti verso
il mondo: quasi tutto fiabesco, incluse le paure e le
ripugnanze, nella mente della bambina, e progressivamente
proiettato verso una presa di coscienza realistica; la
narratrice per contro, necessariamente situata nella
realtà, è spinta dalla nostalgia a recuperare qualche eco
della fiaba della sua infanzia, e a riviverla. È un
continuo confronto di misure: grandezze, distanze, ma
anche valutazioni comparative tra i personaggi. Così il
viaggio è anche, per una necessità di cui è sottaciuto il
rammarico, una smitizzazione, compensata nella poesia dal
precario recupero di ciò che fu.
Uno degli indicatori fondamentali del realismo è, in
questo romanzo, la varietà sociale. La bambina possiede
delle opposizioni linguistiche chiare: ricco/povero,
signore/contadino, ecc., ma poi si trova in imbarazzo a
definire in concreto le gerarchie, da cui pure, come tutti
i bambini, è attratta; il pensiero mitico, o fiabesco,
l'aiuta a superare le incertezze, ma in modo valido solo
per la fantasia infantile. La storia dell'educazione è
anche la conquista di criteri più saldi di
classificazione; ma una conquista che porta al
dimensionamento (riscontrato ora dall'adulta) di persone e
immagini che le furono care. Così ora la narratrice prende
atto, con pietà, con rammarico, della scomparsa di un
mondo creato dalla fragile immaginazione di bimba. |