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Leonardo Sciascia è nato
a Racalmuto, in provincia di Agrigento, nel 1921. È stato
sino al 1957 insegnante elementare. Ha spesso soggiornato
a Parigi, ma contraddicendo un topos biografico degli
intellettuali siciliani, non ha abbandonato la Sicilia.
Gli interessi per la società siciliana evidenti già ne Le
parrocchie di Regalpetra (1956) assumono dimensione
narrativa nei romanzi Gli zii di Sicilia (1961), Il giorno
della civetta (1961), A ciascuno il suo (1966); alla
rievocazione di vicende siciliane del passato sono
dedicati Il Consiglio d'Egitto (1963) e Morte
dell'Inquisitore (1964). Ma con gli anni l'orizzonte
narrativo di Sciascia si allarga alla società nazionale:
Il contesto (1971), Todo modo (1974), Candido ovvero un
sogno fatto in Sicilia (1977). Frequenti, a partire dagli
anni Settanta, i suoi interventi sulla cronaca politica
(L'affaire Moro, 1978), che al di là delle specifiche
posizioni - prima "scomodo" compagno di strada dei
comunisti, poi dei radicali, poi sottile (forse troppo)
giudice delle disfunzioni dello Stato - si distinguono per
coraggiosa sincerità. É morto a Palermo nel novembre 1989.
Depurata da ingenuità stilistiche e ideologiche, la
lezione del neorealismo in Sciascia si è tradotta nella
costante attenzione a una realtà storica e umana, nella
volontà di comprenderla e farla comprendere,
nell'ampliamento, quasi, dei confini stessi della
narrativa. L'opera narrativa di Sciascia - connotata da
una scrittura limpida, di classico rigore - cioè diventa,
nelle sue prove migliori, saggio, testimonianza, o
comunque struttura narrativa polivalente che può
accogliere il dialogo filosofico, la sottile discussione
tra i protagonisti che si scontrano sul problema del male
o sull'interpretazione di un pensiero di Pascal (si pensi
a Todo modo, 1974), o può fondere assieme narrazione e
inchiesta, interpretazione di materiale d'archivio,
andamento da romanzo giallo e meditazione filosofica (si
pensi a La scomparsa di Mazórana del 1975, definito da
qualcuno «un giallo metafisico»). È questa, d'altra parte,
la sua vocazione moralistica e saggistica, che egli ha
espresso nella raccolta La corda pazza (1970) o nelle
annotazioni e "moralità" di Nero su nero (1979) e di
Cruciverba (1983).
Le parrocchie di Regalpetra: Un
giovane nel clima fascista
Le parrocchie di Regalpetra (1956) di Leonardo Sciascia
sono una sorta di cronaca-saggio che descrive ambiente,
personaggi; vicende di un paese siciliano e testimonia la
lucida e dolente denunzia, da parte dell'autore, delle
remore storiche, sociali e civili che gravano sulla sua
terra. Le pagine riportate restituiscono con vivace
immediatezza il clima di un'epoca - gli anni 1935-37,
conquista dell'Abissinia e guerra civile di Spagna - e
forniscono una preziosa testimonianza autobiografica che
può far capire al lettore di oggi quel lento processo di
maturazione, di presa di coscienza che portò tanti giovani
a scoprire la vera realtà del fascismo, a superare le
rumorose mitologie dell'epoca.
Il testo presenta parecchi motivi di interesse: offre ad
esempio illuminanti indicazioni sulle letture di un
giovane diciottenne del tempo (l'età di Sciascia nel 1939,
a conclusione della guerra civile spagnola); contiene, sia
pure in nuce, la genesi di uno dei migliori racconti di
Sciascia, L'antimonio, dedicato alla guerra di Spagna; e
altri ancora. Noi ne traiamo spunto per suggerire ricerche
e approfondimenti su uno degli eventi più importanti - sul
piano politico e su quello culturale - degli anni Trenta:
la guerra civile spagnola. Questa scoppia dopo le elezioni
del 1936, nelle quali le varie forze che si battono per
rinnovare il paese - costituite da raggruppamenti diversi:
democratici borghesi, socialisti, comunisti, anarchici -
si presentano unite in un "Fronte Popolare", ottengono la
maggioranza e formano il governo. Ma le forze della
conservazione la grande proprietà terriera appoggiata
dall'alto clero - che hanno già una loro organizzazione
squadristica, "La Falange", scatenano la guerra civile con
la complicità dell'esercito: la maggior parte degli
ufficiali, guidati dal generale Francisco Franco e circa i
due terzi delle truppe si ribellano al governo legale
repubblicano e riescono a controllare quasi metà del
paese. La guerra civile per tre anni (1936-1939) lacerò la
Spagna con eccessi di vario genere da entrambe le parti e
si concluse- grazie all'aiuto militare che Hitler e
Mussolini diedero al generale golpista - con la dittatura
di Franco, durata sino alla sua morte (1975).
È necessario ricordare - più di quanto normalmente non si
faccia - che la guerra civile spagnola fu complicata anche
da contrasti interni tra le forze repubblicane: i
conflitti maggiori si ebbero tra gli schieramenti della
sinistra nella quale gli anarchici e il POUM (Partito
comunista di ispirazione non stalinista) si scontravano
con il partito comunista per così dire "ortodosso",
ufficiale, al quale andava ovviamente l'appoggio
dell'URSS. Non si trattò solo di divergenze ideologiche,
ma di veri e propri scontri armati (i "fatti di maggio"
del 1937 a Barcellona) e della persecuzione ed
eliminazione fisica di un gran numero dì dissidenti e di
anarchici da parte comunista (una "linea politica",
questa, alla quale pare non sia stato estraneo Togliatti).
Nell'Europa fra le due guerre la guerra civile di Spagna
fu sentita come una prefigurazione, come una sorta di
prova generale di un conflitto mondiale nel quale era in
gioco il futuro dell'Europa: così si spiega l'affluenza di
volontari da ogni parte che formarono le "Brigate
internazionali" e portarono ai repubblicani in lotta la
loro concreta solidarietà. In esse militarono - solo per
limitarci ad esponenti rappresentativi della cultura e
della politica - i francesi André Malraux e Georges
Bernanos, gli inglesi George Orwell e W.H. Auden e, fra
gli italiani, Carlo Rosselli, Aldo Garosci, Umberto
Calosso del gruppo "Giustizia e Libertà", repubblicani,
anarchici guidati da Camillo Berneri, socialisti e
comunisti (Nenni, Longo, Di Vittorio).
Considerevole è stato poi l'eco che la guerra di Spagna ha
avuto nella letteratura. Solo qualche indicazione:
anzitutto la produzione dei poeti spagnoli che
parteciparono alla difesa della repubblica (un nome per
tutti: Rafael Alberti, che sceglierà l'esilio - come Pablo
Picasso, Antonio Machado, e tanti altri - dopo la vittoria
franchista); poi una ricca produzione narrativa: Per chi
suona la campana di Hemingway, La speranza di Malraux, I
grandi cimiteri sotto la luna di Bernanos, Omaggio alla
Catalogna di Orwell, e - segno di un interesse non spento
- L'antimonio (1960) di Leonardo Sciascia.
La congiura scoperta [Il Consiglio
d'Egitto]
Sciascia è generalmente noto - soprattutto al grosso
pubblico dei lettori che non abbiano specifici interessi
letterari - come autore di romanzi volti a mettere in luce
gli aspetti negativi della società contemporanea italiana,
la mafia soprattutto. Ma nei suoi romanzi lo scrittore
siciliano ha trattato anche del passato, remoto o prossimo
(dalle congiure giacobine del Settecento alla guerra di
Spagna del 1936). Del presente inoltre si è occupato non
solo come romanziere, ma anche come saggista o meglio come
moralista attento ai segni del costume pubblico e privato
e a cogliere, dietro le apparenze, la realtà.
Ci sembra utile riportare-dalle pagine successive del
Consiglio, nelle quali si descrivono le torture cui il Di
Blasi viene sottoposto - il passo che segue:
Ma nel ricordo s'insinuò, inquieto e dolente, il pensiero
che anche i giudici e gli sbirri avevano avuto
un'infanzia, [... il pensiero che tra poco il fastidio
dell'ufficio che stavano compiendo sarebbe stato sommerso
dalle dolci nebbie familiari: il fastidio, cioè, di
torturare un loro simile. Avrebbero mangiato e dormito,
avrebbero giuocato coi loro bambini e avrebbero fatto
all'amore; si sarebbero preoccupati del raffreddore del
bambino o del cimurro del cane; il tramonto del sole, il
volo delle rondini, il profumo dei giardini li avrebbe
provocati alla malinconia o alla gioia. E ora stavano
assistendo alla tortura. «Questo non deve accadere a un
uomo» pensò: e che non sarebbe più accaduto nel mondo
illuminato dalla ragione. (E la disperazione avrebbe
accompagnato le sue ultime ore di vita se soltanto avesse
avuto il presentimento che in quell'avvenire che vedeva
luminoso popoli interi si sarebbero votati a torturarne
altri; che uomini pieni di cultura e di musica, esemplari
nell'amore familiare e rispettosi degli animali, avrebbero
distrutto milioni di altri esseri umani: con implacabile
metodo, con efferata scienza della tortura; e che persino
i più diretti eredi della ragione avrebbero riportato la
questione nel mondo: e non più come elemento del diritto,
quale almeno era nel momento in cui lui la subiva, ma
addirittura come elemento dell'esistenza).
È evidente in esse un procedimento che ritornerà più volte
nelle ultime cose di questo scrittore. Sciascia parte cioè
da una vicenda del passato (o magari del passato prossimo)
o da un dato d'archivio (i verbali di un processo o una
cronaca) e li attualizza, li "fa parlare"; ma in vario
modo: o, come nelle pagine che precedono, vivendo "dal di
dentro" la vicenda del protagonista, cui lo legano l'ansia
di rinnovamento della società siciliana e la fiducia nella
ragione, o, come nelle righe citate, sovrapponendo al dato
del passato l'esperienza storica e la realtà del presente
(che, di frequente, vuol dire la delusione del
presente...).
IL GIORNO DELLA CIVETTA
Intreccio
Due colpi di lupara freddano. in un'alba grigia, Salvatore
Colasberna, un costruttore che ha
rifiutato la protezione della mafia. L'indagine è affidata
al capitano Bellodi, ex-partigiano parmense, che tenta di
incrinare la coltre di omertà del piccolo paese siciliano.
Un confidente, Calogero Di Bella, detto Parinieddu, fa più
di un nome sui possibili colpevoli e Bellodi punta sul
nome giusto: Saro Pizzuco. Un dialogo in un caffè romano e
l'intervento di un` 4 eccellenza" mostrano che l'indagine
di Bellodi è seguita con fastidio nei palazzi del potere,
ammanigliato con la mafia. Scompare intanto un potatore,
Paolo Nicolosi, colpevole solo di essersi imbattuto
casualmente nell'assassino. La consorte ricorda che il
marito, dopo i colpi di lupara, aveva visto passare di
corsa un tale Zicchinetta. soprannome di un ex-detenuto,
Diego Marchica. Due boss della mafia decidono di
sopprimere il traditore Di Bella, che però. prima di
essere ucciso, rivela in una lettera al capitano il nome
del "padrino": don Mariano Arena. Bellodi fa arrestare sia
i due sicari (Marchica e Pizzuco) sia il mandante (Arena).
Nel corso dell'interrogatorio, mediante lo stratagemma di
un falso verbale, Marchica e Pizzuco sono indotti ad
accusarsi a vicenda; viene intanto ritrovata. in una
contrada, l'arma del primo delitto e successivamente. in
fondo a un crepaccio. si rinviene anche il cadavere di
Nicolosi. Manovrata dall'alto, la stampa locale sostiene
che l'indagine ha trascurato, per il delitto Nicolosi, la
pista giusta, quella del delitto passionale. Altri
giornali, invece, ventilano gravi compromissioni
ministeriali, provocando, a Roma, una sequela di allarmate
telefonate notturne tra alti burocrati. Si arriva così
alla "scena madre" del romanzo: l'interrogatorio di don
Mariano Arena. Il capo mafia respinge ogni responsabilità,
ma sostiene con fierezza la sua visione "mafiosa` del
mondo, riconoscendo tuttavia un degno avversario in
Bellodi, che a sua volta preferisce il "padrino" a
ministri e deputati compromessi con la mafia. Un dibattito
parlamentare sui "fatti di Sicilia" conferma i sospetti
del capitano: un sottosegretario dichiara che la mafia non
esiste «se non nella fantasia dei socialcomunisti». La
conclusione è scontata: recatosi a Parma per un breve
congedo, Bellodi apprende sui giornali che la sua indagine
è stata demolita con alibi inoppugnabili e che è prevalsa
la tesi del delitto passionale. hia Bellodi non si arrende
e decide di tornare al più presto in Sicilia a "rompersi
la testa".
Personaggi e motivi dominanti
L'antagonismo tra "ordine" e mafia, tra ragione e
corruzione (tema dominante di molte opere di Sciascia) si
risolve, nel romanzo. in un duro scontro tra Bellodi,
capitano dei carabinieri, e Arena, il capo mafia. Eroe
"positivo", secondo i canoni del neorealismo, Bellodi è
sottratto tuttavia dall'autore al populismo tipico di quel
movimento: di estrazione borghese, colto (conosce bene la
produzione letteraria siciliana), cortese (si rivolge con
il "lei" alle persone più umili e ha rispetto anche dei
criminali), Bellodi si ritrova come uno straniero in mezzo
al popolo siciliano; non solo, infatti, ha bisogno di un
interprete per comprendere il significato di alcune
espressioni dialettali; ma incontra ben altre barriere
oltre il linguaggio. Uomo di legge, gli è estranea e gli
ripugna l'omertà della gente; ma quel che più lo turba è
1a collusione degli uomini politici con la mafia. Ed è
proprio questo il suo dramma: in Sicilia egli riesce a
concludere felicemente la sua indagine, ma nulla può
contro le connivenze degli ambienti politici romani e dei
"quaquaraquà" di Stato, che parlano a vanvera e insabbiano
sistematicamente la verità. Il processo di idealizzazione
che spinge il protagonista fino ai limiti della
programmaticità coinvolge anche il suo antagonista, don
Mariano Arena, sollevandolo alle dimensioni di una figura
epica, visceralmente scaturita dalla storia stessa della
Sicilia: dotato di una sapienza popolare che tocca il suo
vertice umoristico nell'immagine della diabolica danza sul
«bosco di corna» dell'umanità, il "padrino" ha una sua
spietata fierezza («né rimorso né paura, mai») e una sua
machiavellica coerenza nel male («una cieca e tragica
volontà»). che lo impongono nel romanzo come una figura di
grande rilievo. Anche se non può certo condividerne la -
'filosofia mafiosa". l'autore non gli rifiuta una vigorosa
statura umana (e su questa sua scelta si potrebbe
discutere...) ma si chiede significativamente: «E quale
altra nozione poteva avere del mondo, se intorno a lui la
voce del diritto era sempre soffocata dalla forza e il
vento degli avvenimenti aveva soltanto cangiato il colore
delle parole su una realtà immobile e putrida?». Può
destare perplessità il fatto che Bellodi, riconosciuto
come vero "uomo" dal capo mafia, gli risponda (sia pure
con disagio): «Anche lei [è un uomo]». In realtà, per
Sciascia, l'etica di don Mariano è superiore, pur nella
sua feroce primitività, a quella dei suoi protettori
politici: tanto è vero che il capitano Bellodi non è
sconfitto dal codice "culturale" mafioso, ma dal codice
"politico- dei suoi "superiori", che finiscono con
l'essere i veri "mandanti". Che lo Stato non abbia i1
diritto di proclamarsi innocente di fronte alla mafia è
dimostrato dall'incredibile dichiarazione del
sottosegretario che alla Camera nega l'esistenza stessa
del fenomeno mafioso; di questo inquietante personaggio
riusciamo solo a sapere che è un rottame della Repubblica
di Salò: né altro può dirci l'autore, che, nella nota
aggiunta al romanzo, dichiara di aver dovuto ricorrere
all'espediente dell' "anonimo" per non incorrere
nell'imputazione di oltraggio e vilipendio. Questa era
l'Italia del 1961, data di pubblicazione del romanzo; e la
più grave denuncia di tutto un sistema politico è quella
contenuta nelle ultime righe della Nota, quando l'autore è
costretto ad avvertire di non aver potuto scrivere il
proprio libro «con quella piena libertà di cui uno
scrittore [...] dovrebbe sempre godere».
Tecniche narrative e linguaggio
Il ricorso al genere "giallo" è stato giustificato
dall'autore con la ragione che quella poliziesca è la
«tecnica narrativa più sleale, perché impedisce al lettore
di lasciare a metà il libro». In realtà, lo schema del
"giallo" è ribaltato, dal momento che, alla fine del
romanzo, il colpevole si salva, grazie all'omertà del
potere. Non un "giallo", ma un "romanzo-pamphlet" è dunque
Il giorno della civetta, che con il suo titolo
shakespeariano allude non solo a quella spietata lotta per
il potere e a quella corruzione che rendono la Sicilia
della mafia molto simile all'Inghilterra dell'Enrico VI,
ma anche al contrasto tra la luce della ragione (il
"giorno") e l'ombra del delitto e della morte (la
"civetta"). Il paesaggio più emblematico è in questo senso
quello del chiarchiaro (un desolato «insieme di grotte, di
buche, di anfratti»), luogo di raduno di uccelli notturni,
che suggerisce l'idea della morte. Non meno squallida è la
descrizione del paese: «un vecchio paese di case murate in
gesso, con strade ripide e gradinate: e in cima a ogni
gradinata c'è una brutta chiesa». Entro quelle case, la
gente si trincera dietro il "muro" dell'omertà: un
comportamento secolare, dettato dalla paura, che viene
magistralmente esemplificato, fin dalla sequenza iniziale,
nella faccia «colore di zolfo» del bigliettaio e
nell'ipocrita domanda del «panellaro», davanti al quale si
è svolto il delitto: «perché [...] hanno sparato?». Sul
piano linguistico, tre sono gli elementi principali del
romanzo: i soprannomi, il gergo dei mafiosi, i proverbi.
Noti col termine dialettale di "ingiurie", i soprannomi
designano fulmineamente una personalità: Zicchinetta, ad
esempio, è il deliquente che gioca d'azzardo (non solo con
le carte da gioco, ma anche con la giustizia); e
Parrinieddu deriva la sua "ingiuria' di "piccolo prete"
dalla sua untuosa ipocrisia e dal suo facile eloquio.
Molto significativo è anche il termine di Barruggieddu,
dato a un cane la cui cattiveria ricorda quella del
"Bargello", il capo degli sbirri, visti dai contadini come
strumenti di usurpazione. "Cosca" (dal nome della corona
di foglie del carciofo), "persona di rispetto", "astutatu"
(ucciso, come si spegne una candela) sono esempi perspicui
del gergo della mafia. Quanto ai proverbi, basti ricordare
il più tremendo: «E lu cuccu ci dissi a li cuccuotti: / a
lu chiarchiaru nni vidiemmu tutti» (Ed il cuccu disse ai
propri figli: al chiarchiaro ci incontreremo tutti), ove
si allude al tragico appuntamento con la morte. Ma,
accanto ai toni "parlati" (che hanno i loro esempi
migliori nel discorso incisivo di Arena o in quello
immaginifico di Pizzuco), si collocano i toni alti,
lirici, come nel bellissimo frammento, ispirato da una
poesia di A. Bertolucci: «era l'indolente sera di Parma
toccata da una struggente luce che era già lontananza,
memoria, indicibile tenerezza».
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