Letteratura italiana: Analisi del Novecento

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Analisi opere
 1 Autori Guglielmino e Grosser

 


Renato Serra
 

Renato Serra è uno dei maggiori critici letterari del primo Novecento. Nato a Cesena nel 1884, si formò all'università di Bologna, alla scuola dei Carducci, si perfezionò a Firenze nel 1907-1908, quindi rientrò nella città natale dove diresse la Biblioteca Malatestiana. Visse appartato, dedicandosi alle letture e agli studi (i suoi interessi spaziano dall'estetica alla letteratura greca, da quella italiana a quelle straniere contemporanee). Fra le sue opere più significative sano il Saggio sul Pascoli (1910), in cui si oppone con sensibilità ed acume alla stroncatura del poeta compiuta dal Croce, e l'Esame di coscienza di un letterato (1915), in cui esamina il problema dell'interventismo e più in generale quello dei rapporti tra letteratura e vita. Importanti anche le Lettere e vari altri fra gli Scritti letterari, morali e politici (è il titolo di una recente raccolta einaudiana, che comprende anche il saggio Le lettere). Collaborò a «La Voce» di De Robertis. Partecipò come volontario alla guerra, morendo al fronte (in trincea davanti ai Podgora, presso Gorizia) nel luglio del 1915.

Quella di Renato Serra è l'analisi, moderatamente ottimistica, di un mercato in espansione. Egli fornisce poche cifre ma descrive con efficacia il recente complessivo sviluppo dell'editoria italiana, pur non nascondendosene i limiti, che rileva paragonando la realtà italiana con quella di altri paesi europei più avanzati e che analizza sia in termini di attenzione e vastità di pubblico, sia conseguentemente di tirature (a significare che l'incremento dei titoli pubblicati non è dato sufficiente per un'analisi esauriente). Comunque, appare forse sin troppo ottimistica - se intesa letteralmente - l'affermazione che «oggi come oggi, anche le lettere dànno di che vivere».

La tiratura media - osserva poi il Serra - è dì poche centinaia di copie, ma le opere migliori raggiungono spesso le «molte migliaia». Egli trascura la narrativa d'appendice paraletteraria e in genere la produzione "popolare", che da un punto di vista di mercato era già allora in grado di raggiungere tirature ancor oggi significative (si pensi a Guido Da Verona, che in quegli anni e soprattutto in quelli immediatamente successivi raggiungeva e superava le centomila copie a volume; ma si potrebbe citare anche la Serao, per non parlare di Mastriani o della Invernizio). Mala prospettiva paraletteraria non interessa il Serra, attento viceversa soprattutto alla produzione di qualità.

Significativa, infine, è l'attenzione dedicata, anche in prospettiva, ai rapporti tra la letteratura e i media vecchi e nuovi (giornali, riviste, cinematografo, teatro).

SCRITTI LETTERARI

I primi lavori di Renato Serra sono poco più che la testimonianza di una diligente applicazione: intendiamo il breve studio "Su la pena dei dissipatori (Inf. c. XIII, vv. 109-129)" - comparso sul "Giornale storico della Letteratura italiana" nel 1904 - e l'altro sui "Trionfi del Tetrarca" - tesi di laurea, discussa a Bologna il 28 novembre dello stesso 1904. C'è, si, da notare il fervore del giovane studioso, e, qua e là, specialmente nello scritto sul Petrarca, talune suggestive illuminazioni che dànno ai problemi soluzioni estrose e intelligenti: ma siamo in periodo di noviziato, e la personalità del Serra è ancora lontana dai suoi più maturi sviluppi, tanto da adattarsi con evidente zelo ai moduli di un procedimento scolastico, seguendo, sin nei giri della scrittura, uno stile adorno e arcaicizzante, caratteristica di un'"humanitas" più ingenuamente ricercata che sinceramente acquisita per maturità di studi e di riflessioni. Si è detto: periodo di noviziato. Ma bisogna subito aggiungere che tale noviziato fu eccezionalmente breve, tanto denso di meditate esperienze che la brevità non lasciò conseguenza di dilettantismi né di altri impacci. E col 1908-1909 il Serra entrò nella sua breve stagione felice, bruscamente troncata, nel 1915, dalla morte in guerra. Furono note, articoli, saggi spesso lunghi, su argomenti di varia letteratura: tra i quali, a prima vista, chi scorra l'elenco potrebbe sospettare lo smarrimento di una produzione disordinata e addirittura estemporanea: Pascoli, Beltramelli, Severino Ferrari, Rudyard Kipling, Paul Fort, Kant, i Lirici greci...: più che al lavoro di uno studioso uscito dall'Università di Bologna - dalla scuola del Carducci e dell'Acri - si potrebbe pensare all'attività di un autodidatta. Eppure, in Serra c'è un ordine interiore provveduto di chiare e umanissime ragioni: quanto, nell'opera sua, sembra più casuale e gratuito, risponde invece a una necessità di indagine profonda, vorremmo dire di chiarimento che lo studioso tenta di raggiungere sperimentando la propria sensibilità e la propria intelligenza sui testi che occasioni diverse gli spingono tra le mani. Pochi del primo Novecento, come lui, ebbero una così alta e totale fiducia nella professione del letterato. Ed è forse il caso unico, nella storia contemporanea, di una creatura che cerca - e spesso trova - nella propria e nell'altrui pagina una completa corrispondenza ai motivi più liberi del cuore e del cervello. Per questo, gli Scritti letterari di R. Serra possono essere considerati opera critica solo con molte riserve: troppo spesso, nella sua adesione totale, egli oltrepassa i già dubbiosi limiti dell'obiettività e si effonde nei toni della confessione privata, del "fatto personale". Comunque, guardandola con una conveniente distanza che permetta e giustifichi la comodità di certe classificazioni, diremo che l'opera letteraria del Serra appare dominata soprattutto da due motivi: dal motivo etico-intellettuale e da quello lirico-descrittivo: due elementi ora opposti e ora tanto vicini da apparire confusi. Il motivo etico-intellettuale è quello che, attraverso la memoria dell'insegnamento carducciano, riallaccia lo scrittore alla tradizione umanistica. È il vagheggiamento di una società letteraria vista con gli occhi nostalgici di un contemporaneo dei crepuscolari: i saggi sul Pascoli (1909), sul Panzini (1910), sul Ferrari (1910-1911) e, soprattutto, quello "Per un catalogo" (1910), altrimenti intitolato "Carducci-Croce" - dove il parallelo fra i due uomini si risolve con un'aperta dichiarazione di simpatia per il primo - appartengono tutti a una sola corrente, e - al di là di ogni particolare resultato dell'indagine critica - valgono come testimonianza di un caro ambiente, sostenuto da forti e generosi sentimenti, provvisto di solida cultura e, magari. odorante sottilmente di casalingo e di provinciale. Carducciano, il Serra non lo fu mai, tranne che ai primissimi tempi, ma - e questo è, forse, il più importante dei suoi segreti - carducciano avrebbe voluto essere, per ragioni di natura etica più che strettamente letteraria. Un carduccianesimo che non conosce deliri per la poesia del Maestro né rapimenti per il suo valore di critico e di storico, ma che nasce da uno spirito intimamente conservatore, secondo il quale il Carducci sarebbe l'ultimo rappresentante dell'ordine, della probità, dell'operosa disciplina. Quanto al mondo lirico-descrittivo, di esso abbiamo segni anche più frequenti ed evidenti, essendo certe effusioni, oltre che in relazione al temperamento, rese facili dalla giovane età nella quale lo scrittore poté svolgere la propria opera. Testo esemplare di questa maniera, è il famoso saggio "Ringraziamento a una ballata di Paul Fort" (1911), che - direttamente o indirettamente - ha avuto tanta influenza sulle esercitazioni critiche delle generazioni successive. La figura e l'opera del poeta francese, in questo saggio, sono come un pretesto, un'occasione: al centro dell'interesse che ha dettato il breve lavoro sta lui, il Serra, coi suoi umori di una piovosa mattina domenicale. Il testo del Fort è visto, quindi, per via indiretta, nelle conseguenze che una lettura di esso ha avuto sui sentimenti dello scrittore. Il quale, pertanto, si compiace sottilmente nella descrizione di se stesso e soprattutto dell'ambiente, adattandosi senza riserve - e con gran lusso di indugi e di preziosità - alla parte del "criticus ut puer", senza memorie né altri strumenti che la propria sensibilità aperta alle cose della natura e insieme a quelle della poesia. E tracce di una simile disposizione al giuoco dei sentimenti, che spingono lo scrittore molto vicino all'esercizio della poesia, si trovano un po'dovunque. Sì che il Serra può dirsi perennemente oscillante tra i due poli della libera scrittura - confessione sentimentale, da diario - e della critica vera e propria, quale si poteva attendere da uno scolaro del Carducci. Né, per sua natura, parve mai che riuscisse a trarsi fuori da questa sempre aperta contraddizione dei suoi impulsi: in che consiste il suo limite e anche il suo fascino e la ragione più vera che rende la sua figura una delle più umanamente complesse delle nostre lettere contemporanee. In lui, senza dubbio, influì moltissimo il peso dell'epoca in cui visse: che fu epoca di crisi e di transizione, fra ideali abbattuti o vacillanti, e attesa di nuovi e più saldi entusiasmi: situazione alla quale non poteva mancare il tenue sollievo dell'autocontemplazione e della ritrosa gelosia di se medesimo. Ma un giudizio sugli scritti letterari di R. Serra è reso ancor più difficile dalla immaturità della sua morte, che lo colse in età di trentun anni. Quanti suoi vizi, quante debolezze erano caratteristiche di gioventù e quante il segno di una personalità definita? Forse, le pagine alle quali egli affidò una implicita risposta a tali domande, sono le pagine de Le lettere, breve panorama della letteratura italiana alla fine del primo decennio di questo secolo (Roma, 1914): capitoli pieni di osservazioni acute, dove i passati grumi di sentimentalismo si sciolgono in ironia, in umanissima penetrazione dei diversi personaggi. È un ragionato catalogo di giudizi, quasi tutti validi anche oggi che gran parte dei giudicati ci è nota per il suo lavoro posteriore all'epoca del Serra: una chiaroveggenza, insomma, che non sapremmo dire se prodotta più da acutezza di ingegno o da finezza di sensibilità. Di lì, forse, sarebbe cominciata per il Serra la stagione della grandezza e del pieno magistero.
Ferdinando Giannessi
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Luigi De Bellis