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Federigo Tozzi nacque a
Siena nel 1883, rimase orfano della madre a 12 anni, compì
studi irregolari perché parecchie volte espulso dalla
scuola per motivi disciplinari. Nel 1901 si iscrisse al
Partito Socialista dei Lavoratori Italiani. Col padre,
risposatosi nel 1900, ebbe rapporto molto conflittuale, al
punto che nel 1907, per i maltrattamenti subiti, giunse a
rivolgersi alla magistratura. Dopo un innamoramento per
una contadina che lavorava nella trattoria paterna, si
sposò nel 1908, con Emma Polagi, con la quale aveva avuto
un lungo rapporto epistolare, e iniziò a lavorare come
aiuto applicato alle Ferrovie dello Stato. Si dedica
intanto alla letteratura: pubblica qualche novella e, a
sue spese, nel 1911 la raccolta poetica La zampogna verde,
entra in rapporto con G.A. Borgese e con Domenico
Giuliotti, esponente di un cattolicesimo integralista e
reazionario, scrive nel 1913 Con gli occhi chiusi (Treves,
1919). Nel 1914 si trasferisce a Roma, nel 1918 scrive Tre
croci (che apparirà nel 1920) e Il podere, di cui riesce
soltanto a correggere le bozze, in quanto, colpito da
polmonite, muore nel marzo del 1920. Aveva fatto in tempo
comunque a vedere qualche riconoscimento del suo valore,
come la positiva recensione di Pirandello a Con gli occhi
chiusi.
[Con gli occhi chiusi]: Sono il segno della violenza
Tozzi viene sempre più di frequente considerato uno dei
più grandi scrittori del Novecento, anzi secondo il
Baldacci senza esitazione, «il più grande scrittore del
nostro Novecento». Indipendentemente da queste graduatorie
(di per sé discutibili), si tratta di uno scrittore
sostanzialmente ancora "non assimilato", non ancora
entrato cioè nel canone di quelli che concordemente
vengono considerati auctores. Le sue pagine mirano a
stimolare curiosità, o sollecitare la conoscenza (mediante
la lettura integrale di qualche testo) di uno scrittore
che per la scabra efficacia di rappresentazione e per la
novità delle tecniche narrative adottate si presenta come
un unicum nel panorama letterario dei primi anni Venti.
Con gli occhi chiusi è centrato sul tormentato rapporto
d'amore fra Pietro, figlio del gestore di una trattoria di
Siena, e Ghisola, una giovane contadina. Pietro è vittima
del padre "padrone" violento che lo schiaccia, lo
inibisce, lo rende abulico. Il suo rapporto con Ghisola è
all'inizio un oscuro groviglio di timidezza e di violenza,
ma quando la ragazza abbandona la campagna e va a Firenze
dove conduce una vita "libera" egli fa di tutto per
ritrovarla. Ghisola, che ha avuto varie avventure e
relazioni, - ora è l'amante di un commerciante, Alberto,
col quale mira a concludere un matrimonio vantaggioso, -
cerca di sfruttare l'amore di Pietro che con gli occhi
chiusi di fronte alla realtà nutre per lei un ingenuo
"rispetto". Guidato da una lettera anonima che lo informa
della vera vita di Ghisola, egli la scopre in una casa
malfamata e s'accorge che è incinta. «Quando si riebbe
della vertigine che l'aveva abbattuto ai piedi di Ghisola,
egli non l'amava più» (sono le ultime parole del romanzo).
La prorompente vitalità [del padre padrone] spicca nella
scena della castrazione degli animali, che simboleggia la
sua prevaricazione sugli altri maschi (a cominciare dal
figlio) che vivono nel suo podere. Proprio in questa
scena, apparentemente secondaria, Giacomo Debenedetti ha
intravisto il cardine di tutto il romanzo: ripercorriamo,
nelle sue linee essenziali, la suggestiva interpretazione
del grande critico.
Secondo Debenedetti, si ripete simbolicamente in Pietro il
gesto di Edipo, l'autoaccecamento: come è noto, nel mito
greco Edipo, figlio del re di Tebe Laio e di Giocasta, si
acceca per espiare l'uccisione del padre e il matrimonio
incestuoso con la madre; accecandosi, Edipo perpetra su se
stesso, con le proprie mani, la mutilazione inflittagli
dal padre quando lo ha destinato a vivere tra i pastori,
inconsapevole delle proprie origini regali. Nel caso di
Pietro, la mutilazione consiste nell'inettitudine, esibita
in ogni manifestazione della vita pratica come negazione
dei valori paterni: Pietro - scrive Debenedetti - «offre
al padre il triste, irritante, sconcertante spettacolo
della propria vita mutilata, incapace, impotente, proprio
per vendicarsi, per fargli scontare la mutilazione a cui è
stato sottoposto».
Pietro, dunque, punisce il padre subendo tutto «con gli
occhi chiusi»; altrettanto avviene, con involontario
sincronismo, nei romanzi e nei racconti di Franz Kafka, i
cui personaggi sono vittime di un potere prevaricante e
oscuro. Nel mondo di Kafka, l'oggetto principale delle
angosce persecutorie è la figura paterna, come è
dimostrato dalla celebre Lettera al Padre, che, secondo
Debenedetti, sta all'opera kafkiana come la scena della
castrazione al romanzo Con gli occhi chiusi,
riscontrandosi, in ciascuno dei due testi, la confessione
di un complesso edipico. Possiamo ora, con Debenedetti,
trarre le conclusioni del nostro discorso: l'episodio
della castrazione degli animali non è un pezzo di bravura
letteraria, una scena di vita rustica superflua
nell'economia del romanzo, ma, viceversa, è l'episodio
centrale, perché in esso si manifesta pienamente
l'atteggiamento castrante di Domenico (materialmente, nei
confronti degli animali, psichicamente nei confronti del
figlio). Identificandosi inconsciamente con gli animali
offesi, Pietro non apre gli occhi perché è paralizzato dal
padre: psicologicamente, ha subìto la lesione che il cane
Toppa ha subìto materialmente. L'interpretazione
psicoanalitica di Debendetti ha un grande fascino e
costituisce tuttora l'obbligatorio punto di partenza per
ogni analisi del romanzo. Non mancano però le riserve da
parte dei critici. L. Baldacci, in particolare, non
condivide la tesi dell'autolesionismo di Pietro (il quale,
secondo Debenedetti, vorrebbe far fallire con ogni mezzo
il proprio amore verso Ghìsola per punire il padre): in
realtà, secondo Baldacci, Pietro punta alla riuscita della
sua relazione, pur muovendosi dal suo livello di regredito
(«La sua sensualità è forte, ma la sessualità è inibita».
Più radicalmente, Franco Petroni rifiuta la riduzione
debenedettiana a una «grande narrazione di sintomi
nevrotici»: attendibile sul piano clinico, la diamosi di
Debenedetti non basta, secondo Petroni, a dare conto del
significato del romanzo, per cogliere il quale è
necessario non solo stabilire la causa della rivolta
psicologica che fa agire i personaggi, ma anche e
soprattutto riconoscere come tali personaggi vivano e
soffrano la loro esperienza.
TRE CROCI
L'intreccio e i personaggi
I tre fratelli Gambi (Giulio, Niccolò, Enrico),
comproprietari a Siena di una libreria antiquaria in stato
fallimentare, sono ammalati di gotta, in conseguenza degli
stravizi alimentari ai quali si abbandonano per non
pensare all'incombente catastrofe economica. Giulio è il
più intellettuale dei tre, il più consapevole della
tragedia che sta per compiersi, e anche il più buono: dopo
essersi impegolato in un giro di cambiali false, non
esita, quando tutto è perduto, ad assumere su di sé ogni
responsabilità e si impicca per salvare i fratelli.
Temperamento sanguigno e collerico, Niccolò è il più
nevropatico dei tre fratelli Gambi: dotato di un gagliardo
appetito e di una contagiosa allegria, ma soggetto a forti
sbalzi d'umore, questo personaggio fa echeggiare da un
capo all'altro del romanzo le sue clamorose risate, che
hanno talora risonanze disumane, quasi da latrato
animalesco; perfino il suo rantolo, sul letto di morte,
sembra una «risata repressa». Il più basso livello di
umanità, fino alle soglie di una turpe animalità, è
raggiunto da Enrico, il più "inetto" e abulico dei tre
fratelli, il cui tratto peculiare è un "maledettismo" da
dostoevskijano «eroe del sottosuolo» (e anche da
«giocatore», visto che sperpera i suoi pochi soldi in una
bettola). Eppure, questa figura di bestia inebetita, quale
ci appare nel capitolo conclusivo del romanzo, è
sorprendentemente capace di riscattarsi nell'affetto
viscerale che dimostra verso Chiarina e Lola: due ragazze
orfane, nipoti dei Gambi, allevate ed educate da Modesta,
moglie di Niccolò (gli altri due fratelli non sono
sposati). Quando Enrico muore in un ospizio, sono le due
nipoti a trascorrere la veglia funebre, pregando
inginocchiate accanto alla salma; e in mezzo a loro -
scrive genialmente Tozzi - il morto diventa «sempre più
buono»: con il loro gesto di pietà, le ragazze annullano,
così, la bestialità del personaggio e ne riscoprono
l'umanità segreta.
I personaggi ruotanti attorno ai tre protagonisti sono
tipici esponenti della piccola borghesia senese, delineati
dall'autore con una "cattiveria" davvero impietosa:
spiccano, tra di essi, Costanzo Nisard, critico d'arte,
incapace di comprendere la crisi dell'amico Giulio;
Vittorio Corsali, agente d'assicurazioni, bersaglio, per
la sua pettegola curiosità, delle sfuriate di Niccolò; e
il cavaliere Orazio Nicchioli, assessore comunale, ottuso
e meschino, intento solo a tutelare i propri interessi,
dopo aver concesso prestiti ai Gambi.
Romanzo dell'emarginazione sociale (della quale Tozzi fece
amara esperienza nella sua giovinezza), Tre croci svolge
fino all'esasperazione il tema del soffocante controllo
che in una piccola città di provincia l'opinione pubblica
esercita sul comportamento delle persone: emblematica è,
in questo senso, la scena dell'accorrere di tutta Siena
alla vetrina del negozio dei tre fratelli Gambi, quando si
diffonderà la notizia del loro tracollo economico. Il
senso di oppressione che scaturisce da questa asfissiante
curiosità della gente si traduce in sensazione di
claustrofobia: Siena, con le sue moli svettanti e le sue
vie strette, perde l'antico fascino di «città del
silenzio» che l'ha resa celebre, e acquista una dimensione
ostile e minacciosa («le case alte e strette insieme danno
un senso d'angustia monotona...».
Mala tematica sociale non è centrale in Tre croci. Si
tratta in realtà, più che di un romanzo sociale, di un
romanzo "religioso", che ripresenta la tematica del "capro
espiatorio", già presente nel Podere, rendendo questa
volta molto più esplicito l'archetipo cristologico. Come
accade a Cristo, abbandonato dai suoi discepoli e tradito
perfino da Pietro, Giulio è lasciato solo dai suoi
fratelli proprio quando la situazione economica sta per
precipitare: l'uno dopo l'altro, Enrico e Niccolò prendono
le distanze dal fratello, e il primo di essi ricorre
significativamente alla frase che ha reso celebre Pilato:
«Io me ne lavo le mani». Nel colloquio con il Nisard,
Giulio riferisce esplicitamente a se stesso le parole di
Gesù sul Monte degli Ulivi, riportate nell'Imitazione di
Cristo. Dopo morto, Giulio sarà rinnegato ancora una volta
dai suoi fratelli; e, ripetendo in chiave
macabro-grottesca la «resurrezione dagli inferi»,
riapparirà nell'incubo di Niccolò. Spinto a sacrificarsi
da una forza inconscia e oscura, Giulio assume su di sé
l'abiezione dei fratelli e rinnova, con la scelta
anticristiana del suicidio, lo scandalo della croce. Ma il
sacrificio di questo Cristo moderno, scandalosamente
falsario e suicida, produce frutti analoghi a quelli della
Crocefissione: anche il "maledetto" Enrico scopre alla
fine il significato della bontà. L'immagine delle «tre
croci eguali», che suggella il romanzo, richiama
suggestivamente l'evento del Golgota, con le croci dei due
ladroni intorno alla croce di colui che si è sacrificato
anche per loro.
Struttura e stile
È possibile riconoscere, nella distribuzione in quindici
capitoli, una precisa struttura, articolata in triadi
narrative, come suggerisce G. Tellini, secondo il quale
ogni capitolo ha il taglio di una «novella a sé stante».
Il capitolo 1° fissa il tema di fondo della cambiale; poi
sono introdotti i tre osservatori esterni: il Nisard, il
Corsali e il Nicchioli. La triade successiva ci introduce
nell'interno domestico di Niccolò, con la moglie Modesta,
le nipoti Chiarina e Lola e il signor Pallini, aspirante
fidanzato di Chiarina. La terza triade è centrata sui tre
fratelli Gambi, rei ma ancora incensurati: Enrico,
Niccolò, Giulio. Seguono due capitoli che, avendo come
fulcro il motivo della cambiale, si ricollegano al tema
del capitolo X (e formano, con esso, un'altra triade).
Ecco infine l'ultima triade, dedicata alle tre morti di
Giulio, di Niccolò, di Enrico.
La forma stilistica è fondata su una tecnica
aggregazionale, su quello che S. Maxia definisce il
«delirio parattatico» di Tozzi. Si veda come le scene
siano disposte in successione, siano "aggregate" l'una
all'altra in una contiguità spaziale, a detrimento della
profondità temporale del discorso narrativo. Il tempo
dominante è il passato remoto, che finisce però col
risolversi in un presente drammatico, nel quadro di
un'assoluta atemporalità. A un tempo unidimensionale si
aggiunge l'unidimensionalità modale dell'indicativo, che
domina incontrastato in tutta la vicenda (solo a Giulio,
il personaggio più intellettuale, sono concesse le
sfumature ipotetiche del congiuntivo). Su ogni altra
tecnica narrativa (dal discorso indiretto all'indiretto
libero) prevale il dialogo o il monologo dei personaggi.
Dal naturalismo all'espressionismo
Entusiasta di Tre croci, che accostò per forza drammatica
a Delitto e castigo di Dostoevskij, G.A. Borgese salutò
nel romanzo il passaggio di Tozzi da una prosa ancora
vincolata alla cultura del "frammento" (come quella di
Bestie e di Con gli occhi chiusi) al modello romanzesco
dell'oggettività e dell'impersonalità, ricalcato sulla
lezione di Verga. Nella scia del giudizio del Borgese,
Tozzi è rimasto a lungo, per definizione, l'autore di Tre
croci, e ciò fino alla svolta segnata, nella critica
tozziana, dagli studi di G. Debenedetti (1963), che,
indicando in Tozzi soprattutto l'autore di Con gli occhi
chiusi e di Ricordi di un impiegato, ha parlato, a
proposito di Tre croci, di «splendido passo indietro» e di
«regresssione naturalistica». Pur invertendo il giudizio
di valore, anche Debenedetti considera, dunque, Tre croci,
come un libro da inscrivere nell'area naturalistica. A
conclusioni diverse è pervenuto S. Maxia, che vede in Tre
croci «il romanzo più "espressionista" di Tozzi, un
romanzo, diremmo, non raccontato, ma gestito e urlato
dall'inizio alla fine». Si tratta, più precisamente, di un
espressionismo teatrale, che rinchiude pressoché per intero la vicenda tra le quattro pareti della libreria, vero
e proprio palcoscenico con la "comune", da cui entrano in
scena i vari personaggi (e sarà tra le pareti della
libreria, trasformatasi in bara, che si consumerà la
tragedia di Giulio). La tesi dell'espressionismo scenico
di Tre croci, ci sembra ancora più convincente se
ammettiamo un influsso su Tozzi dell'amico Luigi
Pirandello: si veda, in proposito, il monologo di Giulio
nel capitolo decimo, nel quale è possibile riconoscere la
tematica pirandelliana del contrasto tra l'autenticità
della persona e la "maschera" ad essa imposta dalla
società. È certamente significativo, in ogni caso, che Tre
croci sia stato dedicato da Tozzi «a Luigi Pirandello».
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