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Andrea
Zanzotto é nato a Pieve di Soligo (Treviso) nel 1921. A
parte un lungo soggiorno, nel dopoguerra, in Francia e
Svizzera, non si è mai allontanato stabilmente dal paese
natale, dove tuttora vive. Avviatosi giovanissimo
all'insegnamento, si è poi laureato in Lettere a Padova
nel 1942. Ha partecipato attivamente alla Resistenza in
Veneto. Dopo la guerra ha proseguito fino ad anni
abbastanza recenti l'attività di insegnante di scuola
media, cui affianca sempre più intensamente quella di
critico letterario su quotidiani e riviste. L'esordio come
poeta avviene nel 1950 con la raccolta Dietro il
paesaggio. Seguono, fra le opere principali: Vocativo
(1957), IX Ecloghe (1962), la beltà (1958), Pasque (1973),
Filò (1976, versi in dialetto, scritti in parte per il
Casanova di Fellini) e la trilogia composta da il Galateo
in bosco (1978), Fosfeni (1983) e Idioma (1986). Del 1964
è un volume di prose, Sull'altopiano.
La poesia come sfida al labirinto
Andrea Zanzotto, che negli anni Quaranta aveva cominciato
a scrivere versi nel solco della tradizione ermetica,
sviluppa nei decenni successivi un'originalissima ricerca
poetica che lo colloca in posizione isolata nel contesto
letterario italiano. Pur condividendo alcuni presupposti
delle neoavanguardie (essenzialmente il giudizio circa l'inautenticità
del linguaggio della norma) e certi esiti informali, egli
se ne distanzia profondamente. Al programmatico rifiuto di
una poesia che significhi, compiuto per motivazioni
ideologiche, egli oppone una strenua ricerca, che ha
motivazioni in primo luogo esistenziali (cioè soggettive),
dei barlumi di significato che possono ancora darsi nel
campo che va dal balbettio prelinguistico dell'infanzia
(il petèl) al linguaggio dell'ottenebramento mentale
(esemplificato dalla poesia dell'ultimo Hólderlin, ormai
in preda alla follia), attraverso tutte le manifestazioni
linguistiche "normali" (dal linguaggio della tradizione
letteraria, al linguaggio della pubblicità). È una ricerca
che postula una volontà di «resistenza» alla perdita di
senso dell'uomo e del mondo e una
"sfida al labirinto".
Linguaggio e mondo nella poesia di
Zanzotto
La poesia di Zanzotto ha come tema ricorrente il
linguaggio, il mezzo che l'uomo ha per conoscere e dare
senso all'esperienza e alla realtà esterna. Mettere in
discussione la capacità di reale e autentica
significazione del linguaggio pone inquietanti
interrogativi non solo circa la comunicazione
intersoggettiva delle esperienze individuali, ma anche
riguardo al senso stesso dell'esperienza e alla
conoscibilità del mondo. Zanzotto a più riprese si pone
addirittura il terribile interrogativo se il mondo esista
davvero, se tutta l'esperienza esistenziale non si riduca
a puro stato allucinatorio, a pura vita psichica
soggettiva. In termini di problematica linguistica i
significati paiono a Zanzotto scivolare perpetuamente
sotto i significanti (cioè i suoni o i segni grafici che
dovrebbero trasmettere i significati) senza possibilità di
istituire un contatto con la sfera dei referenti (gli
oggetti). «Hólderlin: "siamo un segno senza significato":
/ ma dove le due serie entrano in contatto? / Ma è vero? E
che sarà di noi? / E tu perché, perché tu? /... / E che si
dice là nella vita? / E che messaggi ha la fonte di
messaggi? / Ed esiste la fonte, o non sono / che
io-tu-questi-quaggiù / questi cloffete clocchete ch ch /
più che incomunicante scomunicato tutti scomunicati?»
scrive Zanzotto in un componimento della Beltà (Sì, ancora
la neve).
Ma, a differenza dei poeti della neoavanguardia che della
mimesi del caos del mondo moderno fanno oggetto pressoché
unico della propria poesia, Zanzotto si impegna nella
ricerca di un linguaggio autentico, è mosso da una forte
tensione dal non significato al significato, dal caos
all'ordine, dalla inconoscibilità del mondo alla
conoscibilità, anche se deve registrare più scacchi che
positive conquiste. Ma quel che vale è proprio questa
tensione, questo principio di resistenza alla
disgregazione e all'ottenebramento che sembra tutto
involgere e coinvolgere. La poesia ha allora una funzione
del tutto particolare di investigazione del caos, del
labirinto e di ricerca dei possibili barlumi di
significato che consentano l'auspicata inversione di
tendenza.
Egli scrive ad esempio, in un'intervista a Camon:
«Scommettiamo in essa [la poesia] con qualche buona fede.
Soccorre, a questo punto, ancora una volta, l'immagine
dell'infanzia, di questo grado massimo della "buona fede"
nei riguardi della vita [...]. Poesia-infanzia non più
intesa nell'accezione paradisiaco-irresponsabile [...]: ma
come tensione all'essere e allo sviluppo, all'espressione
e quindi alla responsabilità, nonostante tutto. E potrà in
un primo tempo trattarsi di qualche cosa che non riesce ad
articolare le sue giuste parole, ma che certamente avrà il
sentimento dei sì e dei no essenziali. Sarà qualche cosa
che avrà una sua balbuzie; come quasi tutto oggi, se non
pontifica fanaticamente e se non tace in perfidia,
balbetta: ma sarà questo un balbettare non da vecchiaia,
da malafede, da paralisi, bensì da lavorio non ancora
pervenuto al successo, eppure incoercibile, lucente e
insieme stupito del suo scattare dal no che ci sta ora
soffocando... ». E ancora, riprendendo la metafora di
Calvino (che è del 1962, mentre le affermazioni di
Zanzotto sono anteriori al 1965): «Si è nel labirinto, si
é "qui" per tentare di sapere da che parte si entra e si
esce o si vola fuori. Per creare una prospettiva. Ciò
avviene appunto nella tensione al linguaggio, nella
poesia, nell'espressione [...]. È il "sublime" e ridicolo
destino (pendolarmente e reversibilmente) di Munchhausen
che si toglie dalla palude tirandosi per i capelli. Noi
siamo Munchhausen, lo è la realtà...».
Ecloga IX o la pedagogia
In Ecloga IX il soggetto, che si è scoperto alienato,
inautentico, minacciato dal baratro della nevrosi, è posto
di fronte al problema dell'impegno civile, della
possibilità e del senso di una pedagogia: in tale
condizione personale e storica, con un linguaggio
degradato e non significante che cosa si potrà mai
insegnare? Esplicitamente Zanzotto si pone
l'interrogativo: «Ma che dirai a queste anime di
brina...?» (v. 33). Su questo sfondo problematico si
innesta il confronto tra l'incertezza del soggetto (a) e
la sicurezza della figura paterna (e, relativamente,
dell'interlocutrice b), che rimanda a diversi altri
personaggi della poesia di Zanzotto, depositari della
saggezza, della capacità di affrontare positivamente la
vita (almeno nelle sue funzioni elementari) e, ancora, al
mondo rurale arcaico, opposto, implicitamente qui ed
esplicitamente altrove, all'alienazione della società
tecnologico-consumistica. La disposizione elegiaca nei
confronti di un mondo in estinzione (malinconicamente e
dolcemente rappresentato) si riscatta dall'astrattezza e
improponibilità del mito e si tramuta in positiva volontà
di resistenza e di impegno esistenziale (e in definitiva
anche civile), proprio attraverso la mediazione simbolica
della figura paterna (modello di vita: vv. 77-88).
Il senso ultimo di questa lirica è, dunque, una personale
"sfida al labirinto" sia pur dolorosamente condotta a
partire dall'impossibilità di sicuro e razionale controllo
della realtà, della condizione esistenziale e del
linguaggio che ha perso la propria capacità di presa sul
reale. Se ne considerino attentamente le fasi nella parte
terminale del componimento: dall'invito a resistere
(durare fra le albe) confortato dall'esempio paterno (vv.
77-88), alla necessità di affrontare rabbiosamente la
menzogna (vv. 95-96), di aggredire l'oscurità, l'ombra (v.
84) e rifiutare paura e silenzio (vv. 104-105).
La resistenza attorno ai residui dell'umano, ai livelli
minimi di parola e consapevolezza (vv. 108113) si apre ad
un momento di minima ma chiara fiducia-speranza nel
difficile processo di liberazione (lo stacco/
d'invischiato volo, vv. 118-119) dalla somma dei
condizionamenti biologico-naturali, ambientali,
storico-culturali. Tale processo, estendibile ad altri
attraverso un impegno pedagogico in continua verifica e
recupero (il soffio sugli occhi - anche dei bimbi...),
eppure sempre precario in difficile equilibrio tra i poli
della necessità e della menzogna, è considerato anche nei
suoi fondamentali riflessi linguistici: la volontà, il
bisogno di "costruire" un linguaggio autentico (v. 1 14
segg.).
Mondo, per favore, esisti e sii
buono
Nei due componimenti che seguono, tratti da La beltà, la
raccolta forse più importante di Zanzotto, è direttamente
affrontato il problema dell'inconoscibilità del mondo
esterno. In Oltranza oltraggio, caratterizzato
dall'estrema disgregazione (informale?) degli enunciati,
l'io si rivolge a un'alterità non meglio individuata, che
il confronto col testo successivo suggerisce di
identificare (almeno in prima istanza) con la realtà o,
appunto, il mondo.
Questa alterità compie un moto di fuga nel vuoto,
sottraendosi al soggetto che cerca di afferrarla o
istituire un contatto. Il soggetto stesso è incerto circa
l'identità di questo altro da sé che gli sfugge (ti
identifico... ti disidentifico). II testo si conclude con
l'avvenuto allontanamento, che si risolve forse in
annullamento dell'alterità-mondo (il mondo non esiste o
almeno non si è fatto riconoscere: e non si sente / nulla
non si sente / no sei saltata più in là / ... là).
Nel testo seguente, viceversa, al mondo si chiede, per
favore, di esistere, di vanificare il terrore dell'io che
nulla esista al di fuori dei fantasmi della psiche. Per
pregare il mondo di esistere e manifestarsi, il poeta deve
rivolgersi a esso come ad altro da sé e con ciò stesso
presupporre (almeno linguisticamente) che esso esista
davvero. Di qui anche il tono ironico, da captatio
benevolentiae, dell'invocazione, che ben si accorda con il
paradossale conclusivo riferimento a Munchhausen.
Per I'alterità di Oltranza oltraggio sono possibili altre
interpretazioni, suggerite dalle molte interrelazioni
testuali: potrebbe essere la vera-vita che sfugge
lasciando l'angoscia, o I'infanzia-origine, irrecuperabile
eppure sempre ricercata (poiché tutto potrebbe chiarire, a
tutto dare un senso), o la poesia verso cui la tensione
del poeta è sempre viva, e altro ancora. Qui importa
notare che la poesia di Zanzotto opera (salvo casi
particolari) al livello della polivalenza semantica
proprio della tradizione simbolista e non a quello dell'asemanticità
proprio della tradizione dell'avanguardia, anche quando i
termini paiono raggrumarsi in aggregati caotici per sola
forza di relazioni foniche. L'oscurità che ne deriva non
ha nulla di gratuito, perché la poesia per Zanzotto è un
viaggio nell'oscurità alla ricerca dell'illuminazione, è
un aggirarsi nei vari labirinti dell'esistenza (labirinti
psichici, linguistici, storici, culturali, ecc.) alla
ricerca di scoprire come se ne possa uscire, che è poi
anche uno dei sensi che si possono attribuire
all'opposizione qui/là, centrale in Oltranza oltraggio e
in molti altri testi zanzottiani. |