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FRANCESCO PETRARCA
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CANZONE ALLA VERGINE
È l'ultimo
componimento del Canzoniere di
Francesco e viene così a
concludere, secondo l'intenzione
del poeta, la storia di una
passione amorosa con una nota
religiosa, che già si era fatta
sentire a contrasto con gli
spiriti mondani attraverso le
rime d'amore e che qui domina
sovrana.
Non che il poeta si rappresenti
come ormai staccato dalle
passioni terrene: non un
vittorioso parla, ma un uomo che
ancora lotta e che implora,
nella sua debolezza,
l'assistenza divina; anche
l'accenno dell'ultima stanza a
un possibile radicale
rinnovamento della sua vita e
della sua arte mercé l'aiuto
della Vergine, rimane non più
che un accenno, perché non
all'avvenire guarda il poeta ma
al passato, al passato di cui è
spento, e forse non del tutto,
il fascino, ma che è tuttora
vivo in lui, come è ancora viva
quella donna, di cui pure qui si
tace il nome ("Vergine, tale è
terra e posto ha in doglia - Lo
mio cor che vivendo in pianto il
tenne... - Medusa e l'error mio
m'àn fatto un sasso - D'umo vano
stillante"). La poesia di oggi
non è diversa dalla poesia di
ieri, il poeta della Vergine dal
poeta di Laura, anche se, per
usare i termini del Carducci, la
"canzone" si innalzi a "lauda",
l'"elegia" si intrecci con
l'"inno". Il Petrarca ha dato
alla sua canzone preghiera un
andamento che potremo dire
liturgico, iniziando ognuna
delle dieci stanze con la parola
Vergine, ripetendo quel vocativo
al nono verso e rompendo
l'ultimo verso con una rima al
mezzo, che lo divide in due
membri e contribuisce in tal
modo a rendere più lenta e grave
la chiusa di ogni stanza: e del
liturgico ha tutto il discorso
coi suoi epiteti che
accompagnano l'invocazione alla
Vergine con una uniforme
costruzione sintattica ("Vergine
bella che di Sol vestita...
Vergine saggia... Vergine pura
d'ogni parte intera... Vergine
santa, d'ogni grazia piena...")
Si direbbe che il poeta,
accostandosi a Colei che sola
può aiutarlo, voglia ripetere
devotamente tutte le parole di
elogio che già a Lei innalzarono
labbra devote - e qui per vero
ha campo di spiegarsi la sua
arte raffinata di umanista che
gli permette di intarsiare le
sue stanze delle espressioni
consacrate della letteratura
mariana: ma l'"inno", di
necessità impersonale, in cui
soltanto qualche nota più
affettuosa fa sentire la voce
commossa del poeta ("Tre dolci e
santi nomi hai in te raccolti: -
Madre, figliuola e sposa …";
Vergine que'begli occhi - Che
vider tristi la spietata stampa
Ne'dolci membri del suo caro
figlio... "), lascia a poco a
poco affiorare l'"elegia",
quelle parole più sue che
tremano nel cuore del poeta e
che si fan sentire dapprima come
sommessa invocazione per
effondersi poi come confessione
aperta e piena, che si distende
per tutta la stanza. "Vergine,
quante lagrime ho già
sparte...": e in questa
contemplazione desolata di tutta
una vita è il centro ideale
della poesia, verso cui
convergono anche quegli accenti
che possono sembrare meno
personali e che pure partecipano
del tono di affettuosa intimità
proprio di tutto il
componimento. Conforme a questo
tono è anche il commiato, nel
quale il poeta, contrariamente
all'uso, non si rivolge alla
propria canzone - non era
opportuno che in una preghiera
si mostrasse l'artefice conscio
e compiaciuto dell'opera propria
- , ma continua il suo discorso
alla Vergine, accennando alla
sua morte vicina e pregandola di
raccomandarlo a Dio in quell'ora
suprema: "Raccomandami al tuo
Figliuol, verace - Omo e verace
Dio - Ch'accolga il mio spirto
ultimo in pace". Con l'immagine
sospirata della morte cristiana
si conclude la canzone: e
l'ultima parola, come l'ultima
della sua maggiore canzone
politica (v. Italia mia), è
quella che dà voce
all'ispirazione perpetua della
sua anima irrequieta, "pace,
pace".
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Mario
Fubini | |
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