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 Autore Luigi De Bellis   
     

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FRANCESCO PETRARCA

CANZONE ALLA VERGINE


È l'ultimo componimento del Canzoniere di Francesco e viene così a concludere, secondo l'intenzione del poeta, la storia di una passione amorosa con una nota religiosa, che già si era fatta sentire a contrasto con gli spiriti mondani attraverso le rime d'amore e che qui domina sovrana.
Non che il poeta si rappresenti come ormai staccato dalle passioni terrene: non un vittorioso parla, ma un uomo che ancora lotta e che implora, nella sua debolezza, l'assistenza divina; anche l'accenno dell'ultima stanza a un possibile radicale rinnovamento della sua vita e della sua arte mercé l'aiuto della Vergine, rimane non più che un accenno, perché non all'avvenire guarda il poeta ma al passato, al passato di cui è spento, e forse non del tutto, il fascino, ma che è tuttora vivo in lui, come è ancora viva quella donna, di cui pure qui si tace il nome ("Vergine, tale è terra e posto ha in doglia - Lo mio cor che vivendo in pianto il tenne... - Medusa e l'error mio m'àn fatto un sasso - D'umo vano stillante"). La poesia di oggi non è diversa dalla poesia di ieri, il poeta della Vergine dal poeta di Laura, anche se, per usare i termini del Carducci, la "canzone" si innalzi a "lauda", l'"elegia" si intrecci con l'"inno". Il Petrarca ha dato alla sua canzone preghiera un andamento che potremo dire liturgico, iniziando ognuna delle dieci stanze con la parola Vergine, ripetendo quel vocativo al nono verso e rompendo l'ultimo verso con una rima al mezzo, che lo divide in due membri e contribuisce in tal modo a rendere più lenta e grave la chiusa di ogni stanza: e del liturgico ha tutto il discorso coi suoi epiteti che accompagnano l'invocazione alla Vergine con una uniforme costruzione sintattica ("Vergine bella che di Sol vestita... Vergine saggia... Vergine pura d'ogni parte intera... Vergine santa, d'ogni grazia piena...") Si direbbe che il poeta, accostandosi a Colei che sola può aiutarlo, voglia ripetere devotamente tutte le parole di elogio che già a Lei innalzarono labbra devote - e qui per vero ha campo di spiegarsi la sua arte raffinata di umanista che gli permette di intarsiare le sue stanze delle espressioni consacrate della letteratura mariana: ma l'"inno", di necessità impersonale, in cui soltanto qualche nota più affettuosa fa sentire la voce commossa del poeta ("Tre dolci e santi nomi hai in te raccolti: - Madre, figliuola e sposa …"; Vergine que'begli occhi - Che vider tristi la spietata stampa Ne'dolci membri del suo caro figlio... "), lascia a poco a poco affiorare l'"elegia", quelle parole più sue che tremano nel cuore del poeta e che si fan sentire dapprima come sommessa invocazione per effondersi poi come confessione aperta e piena, che si distende per tutta la stanza. "Vergine, quante lagrime ho già sparte...": e in questa contemplazione desolata di tutta una vita è il centro ideale della poesia, verso cui convergono anche quegli accenti che possono sembrare meno personali e che pure partecipano del tono di affettuosa intimità proprio di tutto il componimento. Conforme a questo tono è anche il commiato, nel quale il poeta, contrariamente all'uso, non si rivolge alla propria canzone - non era opportuno che in una preghiera si mostrasse l'artefice conscio e compiaciuto dell'opera propria - , ma continua il suo discorso alla Vergine, accennando alla sua morte vicina e pregandola di raccomandarlo a Dio in quell'ora suprema: "Raccomandami al tuo Figliuol, verace - Omo e verace Dio - Ch'accolga il mio spirto ultimo in pace". Con l'immagine sospirata della morte cristiana si conclude la canzone: e l'ultima parola, come l'ultima della sua maggiore canzone politica (v. Italia mia), è quella che dà voce all'ispirazione perpetua della sua anima irrequieta, "pace, pace".

Mario Fubini

© 2009 - Luigi De Bellis