LETTERE FAMILIARI IV, 1
La lettera dovrebbe essere stata
pensata o scritta (come dice
Petrarca alle righe 205-06 nelle
quali probabilmente indulge a
una finzione letteraria) subito
dopo l'ascensione (nel 1336), ma
fu in realtà, come è stato
dimostrato da G. Billanovich e
da H. Baron, stesa o rielaborata
verso il 1352-53. Anche questa,
come altre lettere dei primi
libri delle Familiari
(soprattutto lettere
consolatorie o esortatorie)
nasce da circostanze esterne o
da rapporti intrattenuti negli
anni giovanili (per questo le
lettere sono datate a quegli
anni e collocate in quel punto
della raccolta), ma esprime
pensieri e concezioni di vita di
Petrarca maturo (il Petrarca del
Secretum, della Vita solitaria,
ecc.): egli vi si presenta come
un saggio, di formazione stoica
e cristiana a un tempo, che
ormai non è più dolorosamente
colpito dall'esilio, o dalla
perdita di cose care o di amici
diletti; un saggio che può anche
non desiderare di essere nato in
questo mondo tormentato, ma che
non vuol dare importanza alla
Fortuna né lamentarsi dei suoi
rovesci, e che non vuole più
soccombere alle passioni.
- La lettera è una confessione,
ma è anche un exemplum, cioè la
narrazione di un episodio (una
storia) dalla quale si può
ricavare un insegnamento morale.
Il significato della storia è
qua e là indicato
esplicitamente; più spesso è
implicito, da cercare
allegoricamente sotto la
narrazione dei fatti (si tratta,
comunque, di un'allegoria molto
trasparente). La situazione,
come spesso nelle allegorie, si
presenta come conflitto e
alternativa morale, scelta fra
due poli di un dilemma. Due sono
i motivi principali di questa
situazione (e sono tutt'e due
ben noti, risalendo alla
tradizione di pensiero sia
classica che
cristiano-medievale):
a. l'aspirazione
dell'uomo ad ascendere, a
toccare la vetta (della gloria,
della perfezione, della
felicità), contrapposta alla
necessità invece di sprofondarsi
in se stesso, di cercare nel
profondo della propria anima la
vera beatitudine;
b. la tendenza dell'uomo,
posto di fronte a un bivio, a
scegliere la strada più agevole
e a scartare quella più ardua,
senza accorgersi che quella più
ardua porta al raggiungimento
dei suoi fini più nobili (la
virtù, il bene) e l'altra porta
invece alla perdizione.
La vera scoperta di cui parla la
lettera, quindi, non è quella
del mondo esteriore, ma quella
del mondo interiore. Risulta
perciò non del tutto
giustificato l'entusiasmo con
cui il grande storico del
Rinascimento Jakob Burckhardt,
in una pagina del suo La civiltà
del Rinascimento in Italia,
parla di questa «escursione» su
un monte come di uno dei primi
esempi di «scoperta del mondo
esteriore», e giustifica la
mancanza di una vera e ampia
descrizione del paesaggio visto
da Petrarca dalla vetta del
monte con una ragione
psicologica di tipo romantico
(il panorama era sublime e
ineffabile): «Egli è vero,
bensì, che noi, giunti a questo
punto, ci attendiamo invano una
descrizione della vista che si
apre loro innanzi; ma ciò non
accade già perché il poeta sia
rimasto insensibile, bensì
invece, perché l'impressione fu
troppo forte per lui».
- Si deve inoltre osservare, a
proposito di questa lettera, che
Petrarca indica due motivazioni
che lo spinsero a tentare
l'impresa:
a. aver avuto per tanti
anni davanti agli occhi il monte
(motivazione psicologica e
naturalistica, curiosità di
conoscere e godere della
bellezza del mondo: motivazione
per tanti anni presente in lui
ma mai attuata);
b. aver letto il passo di
Livio su un'ascesa «classica» di
un monte (motivazione filologica
e umanistica: volontà di
gareggiare con gli antichi e di
controllare la veridicità dei
loro racconti; motivazione
immediata, direttamente
collegata con la decisione
presa).
È evidente l'importanza della
seconda motivazione, che non va
dimenticata, per abbracciare
entusiasticamente l'immagine di
un Petrarca scopritore del mondo
della natura, della sublimità
delle montagne, ecc. La lettera,
del resto, è tutta intessuta di
motivi umanistici, e vi hanno
grande importanza le citazioni
classiche, ben collocate in vari
punti di essa. Questa
motivazione letteraria si attua
pienamente nell'episodio
centrale della lettura del passo
di Agostino, fatta in cima alla
montagna (la presenza del libro
è giustificata, con abile
artificio narrativo, dal fatto
che il libro era piccolo, era
dono del corrispondente e
Petrarca, che pure si era
sbarazzato di vesti e altri
oggetti inutili, l'aveva
portato, come faceva sempre, con
sé).
Si tratta di una lettura a caso,
ad apertura di libro: la voce
dell'antico maestro parla quasi
per sua decisione, si inserisce
con misterioso tempismo nella
vicenda e ne determina un nuovo
orientamento: dalla ascesa del
monte all'interrogazione della
memoria e dell'anima, dalla
narrazione di un fatto alla
confessione dei sentimenti e dei
pensieri.
- L'episodio ha un modello
preciso nelle Confessioni di
Agostino, là dove (libro VIII)
egli racconta che, durante una
profonda crisi spirituale, senti
una voce che diceva: «Prendi e
leggi!». Aperse il Vangelo e un
passo dell'Epistola ai Romani di
san Paolo gli rivelò la verità;
corse allora dalla madre Monica,
e iniziò il processo mistico
della conversione.
Accanto alle citazioni
dichiarate ci sono nella lettera
anche molte citazioni non
dichiarate; fra queste ha un
posto centrale nella meditazione
sulla vetta («niente è da
ammirare tranne l'anima, di
fronte alla cui grandezza non
c'è nulla di grande») una
citazione dell'amato filosofo
stoico Seneca, dalle lettere Ad
Lucilium, 8, 5.