Poliziano: Canzoni a ballo
Ballate. Quelle sicuramente
autentiche sono quasi una
trentina: su tutte emerge la
cosiddetta ballata delle rose ("I'
mi trovai, fanciulle, un bel
mattino - Di mezzo maggio in un
verde giardino"), il canto di
una giovinetta che in un mattino
primaverile è presa come da una
ebbrezza alla visione dei fiori
che la circondano e l'attirano,
e sente dai più belli e più
cari, le rose, venire l'invito a
godere della bellezza, così
preziosa e fuggitiva; una delle
più belle pagine del Poliziano,
nella quale immagini e ritmo
intimamente compenetrati
cospirano a creare una atmosfera
di incanto, come nei passi più
alati delle Stanze e con un'onda
di musica che quelli non hanno.
A tale altezza lirica non giunge
nessuna delle altre ballate,
nemmeno quella, che ne ripete lo
schema e le movenze ("I'mi
trovai un dì tutto soletto - In
un bel prato, per pigliar
diletto") e tende anch'essa a
darci il senso di una
contemplazione incantata, con
immagini che hanno in qualche
punto del fiabesco ("Vidi che il
capo e l'aie d'oro avea: - Ogni
altra penna di rubin parea, - Ma
'l becco di cristallo e 'l collo
'l petto"), ma decade per
l'insistenza sul simbolo che
quel fantastico uccello dovrebbe
adombrare; né vi giunge la
famosissima di calendimaggio
("Ben venga maggio - E 'l
gonfalon selvaggio") che ben
rende, col suo movimento e la
sua grazia, la festosità di una
maggiolata fiorentina,
idealizzandola in una
immaginazione tra classica e
stilnovistica, ma ignora quell'intero
abbandono al canto, quell'estasi
trasfiguratrice del mondo reale,
che fanno della ballata delle
rose un capolavoro. Nella
canzone a ballo "Ben venga
maggio" si avverte il letterato
finissimo non meno, e forse più,
del poeta; ma più decisamente
letterarie sono le altre
ballate, nelle quali il
Poliziano riprende movenze e
motivi della poesia popolare
come della poesia dotta e li
ricanta piuttosto per
compiacimento d'artefice che per
l'impulso di una ispirazione
originale. Soggetto ne sono, al
solito, le vicende dell'amore:
il poeta effonde il suo giubilo
per la passione che lo possiede
("Benedetto sie 'l giorno e
l'ora e 'l punto - Che dal tuo
dolce amor, dama, fui punto") o
celebra la bellezza della sua
donna ("Chi non sa com'è fatto
el paradiso - Guardi Ippolita
mia negli occhi fiso"), piange
per una forzata partenza
("Dolorosa e meschinella - Sento
via fuggir la vita") o canta la
gioia che l'ha ristorato del
passato dolore ("I' ti ringrazio
amore - D'ogni pena e tormento -
E son contento ormai d'ogni
dolore"), si lamenta con gli
altri amanti della durezza della
sua donna ("Deh udite un poco,
amanti - S'i' son bene
sventurato... Una donna el cor
m'a tolto - Or no 'l vuol e non
me 'l rende") e risponde per
bocca di lei con promesse e
inviti alla pazienza ("Io
conosco il gran disio - Che ti
strugge, amante, il core"). Si
passa in queste ballate
dall'idealismo di derivazione
stilnovistica ("Io non mi vo'
scusar s'i' seguo Amore - Ché
gli è usanza d'ogni gentil
core") all'accenno malizioso e
ardito; spunti idealistici e
spunti maliziosi sono però
avvivati dalla medesima grazia,
che è la Musa vera del Poliziano
e si fa sentire anche in questa
sua poesia meno profonda e meno
originale: basti ricordare la
graziosissima canzone a ballo
"Donne di nuovo el mio cor s'è
smarrito - E non posso pensar
dove sie ito", invito scherzoso
che il poeta rivolge alle donne
di restituirgli il cuore. E
questa grazia non viene meno in
quelle poesie, in cui il poeta
non fonde più, come nelle
precedenti, elementi popolari ed
elementi dotti con bella
temperanza, ma, con ricerca
scoperta, raccoglie immagini,
modi di dire, proverbi
tipicamente popolari e talora
plebei e gergali, desideroso di
infondere nella sua poesia
qualcosa della vivacità del
linguaggio popolare e pronto a
far propri anche i giochi di
suono privi di significato:
nemmeno il doppio senso che il
poeta non evita può involgarire
del tutto questi componimenti, i
quali pure, esercizi letterari,
non riescono a essere cose
artisticamente compiute e
omogenee. Né questa esperienza è
stata del tutto inutile al
Poliziano, il quale non solo ha
saputo in queste ballate
tracciare alcune graziose
caricature (si veda quella che è
una sorta di "arte amatoria" per
il pubblico femminile), ma è
giunto per questa via a comporre
due cosette originali e vive, la
ballata del porcellino ("Donne
mie, voi non sapete - Ch'io ho
el mal ch'avea quel prete") e
più ancora quell'altra
("E'm'interviene e parmi molto
grave - Come alla moglie di
Pappa-le-fave") una favoletta
anche questa, anzi due favolette
narrate dal poeta a
illustrazione delle sue
disavventure d'amore, con un
gusto di narratore, con una
sapiente modulazione di ritmi e
di rime, che illuminano la
materia popolare della luce di
un'arte scaltrita e riflessa: "E
come quella chioccioletta fo -
Che voleva salire ad una trave.
- Tre anni e più penò la
poveretta - Perché la cosa
riuscisse netta: - Quando fu
presso cadde per la fretta".
Sono scomparse le frasi gergali,
i motti idiomatici, gli equivoci
delle altre ballate, e si fa
sentire la misura propria
dell'arte del Poliziano, il
quale sembrava averla smarrita
per una troppo insistita ricerca
dell'effetto (per esempio la
ballata "Una vecchia mi
vagheggia - Vizza e secca sino
all'osso", che pure non manca di
pregi); anche da questa materia
più tenue il poeta delle Stanze
e dell'Orfeo ha saputo trarre
una stilla di poesia.