IL SITO DELLA LETTERATURA

 Autore Luigi De Bellis   
     

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IL QUATTROCENTO: POLIZIANO
Poliziano: Canzoni a ballo

Ballate. Quelle sicuramente autentiche sono quasi una trentina: su tutte emerge la cosiddetta ballata delle rose ("I' mi trovai, fanciulle, un bel mattino - Di mezzo maggio in un verde giardino"), il canto di una giovinetta che in un mattino primaverile è presa come da una ebbrezza alla visione dei fiori che la circondano e l'attirano, e sente dai più belli e più cari, le rose, venire l'invito a godere della bellezza, così preziosa e fuggitiva; una delle più belle pagine del Poliziano, nella quale immagini e ritmo intimamente compenetrati cospirano a creare una atmosfera di incanto, come nei passi più alati delle Stanze e con un'onda di musica che quelli non hanno. A tale altezza lirica non giunge nessuna delle altre ballate, nemmeno quella, che ne ripete lo schema e le movenze ("I'mi trovai un dì tutto soletto - In un bel prato, per pigliar diletto") e tende anch'essa a darci il senso di una contemplazione incantata, con immagini che hanno in qualche punto del fiabesco ("Vidi che il capo e l'aie d'oro avea: - Ogni altra penna di rubin parea, - Ma 'l becco di cristallo e 'l collo 'l petto"), ma decade per l'insistenza sul simbolo che quel fantastico uccello dovrebbe adombrare; né vi giunge la famosissima di calendimaggio ("Ben venga maggio - E 'l gonfalon selvaggio") che ben rende, col suo movimento e la sua grazia, la festosità di una maggiolata fiorentina, idealizzandola in una immaginazione tra classica e stilnovistica, ma ignora quell'intero abbandono al canto, quell'estasi trasfiguratrice del mondo reale, che fanno della ballata delle rose un capolavoro. Nella canzone a ballo "Ben venga maggio" si avverte il letterato finissimo non meno, e forse più, del poeta; ma più decisamente letterarie sono le altre ballate, nelle quali il Poliziano riprende movenze e motivi della poesia popolare come della poesia dotta e li ricanta piuttosto per compiacimento d'artefice che per l'impulso di una ispirazione originale. Soggetto ne sono, al solito, le vicende dell'amore: il poeta effonde il suo giubilo per la passione che lo possiede ("Benedetto sie 'l giorno e l'ora e 'l punto - Che dal tuo dolce amor, dama, fui punto") o celebra la bellezza della sua donna ("Chi non sa com'è fatto el paradiso - Guardi Ippolita mia negli occhi fiso"), piange per una forzata partenza ("Dolorosa e meschinella - Sento via fuggir la vita") o canta la gioia che l'ha ristorato del passato dolore ("I' ti ringrazio amore - D'ogni pena e tormento - E son contento ormai d'ogni dolore"), si lamenta con gli altri amanti della durezza della sua donna ("Deh udite un poco, amanti - S'i' son bene sventurato... Una donna el cor m'a tolto - Or no 'l vuol e non me 'l rende") e risponde per bocca di lei con promesse e inviti alla pazienza ("Io conosco il gran disio - Che ti strugge, amante, il core"). Si passa in queste ballate dall'idealismo di derivazione stilnovistica ("Io non mi vo' scusar s'i' seguo Amore - Ché gli è usanza d'ogni gentil core") all'accenno malizioso e ardito; spunti idealistici e spunti maliziosi sono però avvivati dalla medesima grazia, che è la Musa vera del Poliziano e si fa sentire anche in questa sua poesia meno profonda e meno originale: basti ricordare la graziosissima canzone a ballo "Donne di nuovo el mio cor s'è smarrito - E non posso pensar dove sie ito", invito scherzoso che il poeta rivolge alle donne di restituirgli il cuore. E questa grazia non viene meno in quelle poesie, in cui il poeta non fonde più, come nelle precedenti, elementi popolari ed elementi dotti con bella temperanza, ma, con ricerca scoperta, raccoglie immagini, modi di dire, proverbi tipicamente popolari e talora plebei e gergali, desideroso di infondere nella sua poesia qualcosa della vivacità del linguaggio popolare e pronto a far propri anche i giochi di suono privi di significato: nemmeno il doppio senso che il poeta non evita può involgarire del tutto questi componimenti, i quali pure, esercizi letterari, non riescono a essere cose artisticamente compiute e omogenee. Né questa esperienza è stata del tutto inutile al Poliziano, il quale non solo ha saputo in queste ballate tracciare alcune graziose caricature (si veda quella che è una sorta di "arte amatoria" per il pubblico femminile), ma è giunto per questa via a comporre due cosette originali e vive, la ballata del porcellino ("Donne mie, voi non sapete - Ch'io ho el mal ch'avea quel prete") e più ancora quell'altra ("E'm'interviene e parmi molto grave - Come alla moglie di Pappa-le-fave") una favoletta anche questa, anzi due favolette narrate dal poeta a illustrazione delle sue disavventure d'amore, con un gusto di narratore, con una sapiente modulazione di ritmi e di rime, che illuminano la materia popolare della luce di un'arte scaltrita e riflessa: "E come quella chioccioletta fo - Che voleva salire ad una trave. - Tre anni e più penò la poveretta - Perché la cosa riuscisse netta: - Quando fu presso cadde per la fretta". Sono scomparse le frasi gergali, i motti idiomatici, gli equivoci delle altre ballate, e si fa sentire la misura propria dell'arte del Poliziano, il quale sembrava averla smarrita per una troppo insistita ricerca dell'effetto (per esempio la ballata "Una vecchia mi vagheggia - Vizza e secca sino all'osso", che pure non manca di pregi); anche da questa materia più tenue il poeta delle Stanze e dell'Orfeo ha saputo trarre una stilla di poesia.

Francesco Pastonchi

© 2009 - Luigi De Bellis