Matteo Maria Boiardo: Orlando
(personaggio)
La vita
letteraria di Orlando, il conte
palatino nipote di re Carlo, di
cui la storia tramandò soltanto
la valorosa morte nella
battaglia di Roncisvalle l'anno
778 durante il ritorno dello zio
da una spedizione in Spagna,
comincia con la Canzone di
Orlando, che fa di lui la più
grandiosa figura epica del
Medioevo. Orlando appare in tale
poema un guerriero giovane
d'anni, di indiscusso valore, di
forze quasi sovrumane (quella
che diverrà la sua leggendaria
invulnerabilità, a fare di lui
quasi un Achille, cristiano, non
è affermata ma forse appena
sottintesa in quel primo poema).
Il suo valore, la sua
irresistibile bravura,
l'ascendente che egli esercita
sui suoi compagni (i dodici
"Pari") e su tutti i soldati
dell'imperatore, gli assegnano
una posizione preminente tra i
capi che circondano Carlo (il
quale, a dispetto della leggenda
che lo raffigura come un
maestoso sire più che
centenario, già canuto e
barbogio, era allora un giovane
re all'alba della sua gloria e
nel pieno vigore delle forze);
senza che tuttavia nessuno di
questi tratti concorra a dare a
Orlando la vera e propria figura
di un "capitano": figura che
sembrerebbe un anacronismo a
quei tempi, giacché la fantasia
del poeta e la nostra fantasia
di lettori, interpretando a loro
modo il silenzio della storia,
non ci lasciano vedere attorno a
Carlo Magno se non uno stuolo di
brillanti capi in sott'ordine,
modelli e trascinatori di un
esercito la cui sola tattica
doveva essere l'urto diretto o
le zuffe tra singoli gruppi che
si riducevano a una più o meno
ordinata serie di duelli.
Nient'altro che guerriero e capo
di guerrieri è dunque il giovane
Orlando; uomo tutto d'un pezzo,
senza dubbi né cedimenti, un
"fedele" al suo Signore, alla
sua patria e al suo Dio; un uomo
il cui unico pensiero è la
guerra, ma che non sa
immaginarla disgiunta dai nobili
ideali che devono animare
l'azione e caratterizzare ogni
gesto di un combattente
cristiano. Tutto ciò non
conferisce a Orlando un
carattere molto riflessivo: il
proprio del suo valore è una
giovanile poetica spavalderia.
Un bel mattino egli si presenta
al suo signore e zio offrendogli
un rosso melograno e dichiarando
di voler deporre ai suoi piedi,
con tale atto, le corone di
tutti i re della terra. A
Roncisvalle, dove Orlando è
destinato a proteggere la
ritirata dell'esercito con
ventimila prodi, ventimila
Franchi di Francia, quand'egli
scopre il tradimento di Gano di
Maganza e l'imboscata dei
nemici, sa che potrebbe sonando
il corno avvisar subito
l'Imperatore, ma non vuol dare
ascolto a Turpino che a ciò lo
consiglia; alla sua mentalità
questa precauzione si presenta
anzi come un atto di debolezza;
essi sono davanti al nemico, e
non hanno che un solo dovere:
perire da prodi, acciocché "mala
canzone non si possa cantare di
loro". Questo Orlando è dunque
il più perfetto simbolo della
generosa follìa guerriera di
un'Europa barbarica che sta per
diventare l'Europa feudale. Ma
eroiche e nobilissime qualità lo
fanno anche simbolo di un ideale
ben più alto: il suo valore si
fonda sulla perfetta convinzione
di difendere la vera Fede, la
patria, il diritto, la civiltà,
né egli può immaginare che un
prode possa impugnare le armi
per altro scopo. Guerriero di
lealtà ineccepibile, fedele agli
amici, spietato solo verso i
nemici sleali, la vita è per lui
una dura milizia, la quale
assorbe ogni altro interesse
terreno. E la sua morte è una
delle pagine più commoventi che
si possano leggere in tutti i
libri di poesia della nostra
tradizione. Orlando sa di essere
un peccatore, e invoca
naturalmente la divina clemenza;
ma egli è anche conscio di
essere sempre stato un uomo di
buona volontà, di non aver nulla
risparmiato per rendersi degno
del proprio ideale, e confida
nella divina giustizia. Egli
parla a Dio, devoto e pio, con
la franchezza del giusto: gli
angeli gli stanno attorno
compagni alla sua morte, quasi
come i suoi Pari
lo hanno circondato in vita. E
Orlando riassume così nel modo
più alto quell'ideale
cavalleresco che era allora sul
nascere. La buona e leale
compagnia che lo lega a Turpino,
agli altri paladini, e
soprattutto al fido Oliviero,
sarà destinata a restare nei
secoli come un modello di
perfetta amicizia: con una linea
di commovente dignità pur nel
traboccar della tenerezza, che è
la sua caratteristica più
preziosa.
Orlando non è uomo di molte
passioni amorose: una sola donna
intravediamo nello sfondo del
quadro che ci presenta in uno
scorcio così possente tutta la
sua figura e la sua vita: sua
cugina Alda la bella, che
attende in Aquisgrana il suo
ritorno. Quando l'imperatore le
annuncia la morte di Orlando,
Alda non regge al dolore e cade
fulminata. E questo primo
Orlando, l'eroe più puro della
leggenda carolingia, passa dalla
Canzone di Orlando ad altri
poemi del tempo quasi senza
variare: nella nordica
Karlomagnussaga, come nei poemi
germanici di Karl e Karlemeinet
(Carlo Magno e Ciclo carolingio);
solo il Ruolandes Liet di Konrad
accentua il carattere religioso
del personaggio, ne fa il vero e
proprio medievale "campione di
Dio" e gli contrappone la
demoniaca figura di Gano.
Cosicché Orlando e Gano stanno
fra loro sul piano del
cristianesimo romanzo come
Sigfrido e Hagen sul piano del
paganesimo naturalistico
germanico: cielo e terra, Dio e
Diavolo, essere e parere,
bellezza vera e bellezza
apparente; e Orlando, come del
resto il suo parallelo germanico
Sigfrido, soccombe perché egli
non è di questo mondo e deve
subire il martirio terreno per
tornare nella sua vera patria,
che è l'al di là: il suo compito
è appunto di superare in sé il
mondo per mostrare la via del
cielo. Ma già nei poemi
posteriori, del XIV secolo e
oltre (Girardo di Vienne,
Pellegrinaggio di Carlomagno,
Aspromonte,
Entrata in Spagna, Presa di
Pamplona, La Spagna, e anche la
favolosa Cronaca apocrifa di
Turpino), la figura dell'eroe
tende a entrare in un clima
sempre più romanzesco. La
leggenda popolare francese e
italiana si è impadronita di
lui, gli ha dato una patria ben
precisata, e una condegna
nascita avventurosa. Orlando
sarebbe dunque figlio della
sorella di Carlo Magno, Berta
dal gran piè, e di Milone
(secondo alcuni un oscuro
soldato, secondo altri patrizio
romano) di cui la fanciulla si
era innamorata e col quale era
fuggita in Italia. Dopo molti
anni, l'Imperatore, tornando da
Roma dov'è stato incoronato, si
sofferma a Sutri, dove avviene
il riconoscimento di Berta e
anche la riconciliazione. E così
Orlando, che già durante
l'infanzia si era distinto con
atti di coraggio e lampi di
nobiltà in contrasto con
l'apparente oscurità della sua
condizione, riprende il suo vero
posto alla Corte
dell'Imperatore, e inizia la
mirabile serie delle sue
imprese. Nelle quali la morte a
Roncisvalle tende a diventare
sempre più un presupposto e
quasi una garanzia di eroismo,
anziché l'episodio più reale
della sua vita: si trova a
essere veramente il principio
ideale della storia di Orlando,
e non soltanto la sua
conclusione. Ma divenuto così un
eroe popolare, trasformandosi
dal favoloso Rolando nel troppo
reale Orlando, egli non poteva
sottrarsi a interpretazioni
sempre più realistiche, delle
quali troviamo abbondanti
testimonianze ancora nel
Morgante del Pulci e
nell'Orlando innamorato del
Boiardo, per quel tanto di
popolaresco che essi serbano nei
loro atteggiamenti. Così, se
Orlando resta il cavaliere senza
macchia e senza paura, l'uomo
che non conta i nemici quando è
sicuro del suo diritto, l'amico
più fedele, il raddrizzatore di
torti, il protettore dei deboli,
il flagello dei prepotenti,
sempre pronto a purgare la terra
dai mostri e dai giganti malvagi
e a sfidare i più pericolosi
incantesimi, d'altra parte
quella certa semplicità d'animo
che sembra, specie alla
mentalità popolare, non poter
andar disgiunta dalla perfetta
virtù, vale a conferirgli in più
di un caso una certa
dabbenaggine. E la sua castità,
la sua ingenuità nelle cose
d'amore, lo dispone troppo bene
a diventar lo zimbello di
Angelica, cuore spietato e animo
freddamente calcolatore dietro
parvenze di celeste bellezza. Di
fronte ad Angelica, Orlando, che
la ama troppo puramente e
profondamente, "col cuore rotto
e con lo sguardo pio", che ha
per lei una devozione illimitata
e delicatezze rispettose,
squisite, che ignora gli
espedienti e le bruscherie del
conquistatore, è come un
ragazzo: il nobile conte Matteo
Maria Boiardo non esita anzi a
chiamarlo, in una certa
occasione, addirittura un "babbione"!...
E tale storia minacciava di
trasfigurare in modo non degno
l'eroe, se il pensoso genio di
Ludovico Ariosto non si fosse
impadronito della sua figura per
elevarla una seconda volta nei
cieli della più grande poesia.
L'Ariosto sembra anch'egli poco
rispettare la dignità di
Orlando, giacché si appresta a
cantare come il suo eroe "per
amor venne in furore e matto, -
d'uom che sì saggio era stimato
prima". Ma in realtà egli lo
umanizza, facendo della sua
storia quello che può essere il
dramma di tutti gli uomini cui
la vita troppo votata a una
attività puramente ideale può
rendere inetti in una cosa
fatalmente terrena qual è pur
l'amore: che hanno quasi l'aria
di meravigliarsi che quella
forza così divinamente
capricciosa e così fatalmente
irrazionale come è l'amore, non
tenga conto dei loro meriti: che
hanno abbastanza intelligenza
per rendersi conto
dell'assurdità delle proprie
pretese e della vanità dei loro
tormenti, e pur fatalmente ne
soffrono, e ne versano le
lagrime più amare della lor
vita. Per questo la storta di
Orlando pazzo per amore, tutta
la dolorosa e mirabile storia
dei suoi rapporti con Angelica,
diventano nel poema dell'Ariosto
un'avventura squisitamente
esemplare, assumono una portata
universale, un valore quasi
bonariamente filosofico nella
divina ironia di quelle limpide
e sorridenti ottave, pur senza
nulla perdere della loro
palpitante umanità.
Umanità che d'altra parte
l'Orlando ariostesco ritrova
anche in altre supreme occasioni
della sua vita: basti ricordare
la sua orazione funebre sul
morto compagno. Brandimarte,
dopo il terribile duello
nell'isoletta di Lipadusa; o
ripensare lo stupor doloroso di
quando Astolfo aiutato dagli
amici riesce a ridargli il
senno; la soave dignità di
quelle due parole, in latino,
ond'egli prega i compagni,
trovandosi legato, di
scioglierlo ("Solvite me"), e le
lagrime mute che egli versa,
indovinando dalla situazione in
cui si ritrova tutta
l'estensione del suo passato
errore. Una dignità così
perfetta, e una passione
soggetta a tutte le debolezze
umano ma di significato così
universale, che la figura di
Orlando tende a perdere i
lineamenti suoi propri, e lo
stesso eroe (quando non
l'abbiamo più davanti vivente e
operante) a ritornarci nella
memoria, a poema ultimato, quasi
come un simbolo: carattere tutto
ideale, completamente dissolto
in una poesia la quale, a
dispetto delle apparenze, è tra
le meno realistiche di cui si
abbia esempio. Cosicché Orlando,
dopo il poema dell'Ariosto, si
direbbe aver perduto, nella
fantasia degli uomini, ogni
riferimento naturalistico (non
per nulla la tradizione non ha
mai detto che volto egli abbia,
paga di assegnargli una semplice
e maschia dignità di aspetto):
sembra ridotto puramente e
semplicemente una figura di
poesia. Bisognava che il
Romanticismo sorgesse, con la
sua sete di precisazioni
storiche, col suo amore per il
leggendario Medioevo, a
riesumare la Canzone di Rolando,
a testimoniare di una vita del
franco paladino molto più ricca
e complessa, abbondante di
riferimenti storici o
pseudostorici e di motivi
realistici di quanto non
risultasse dai poemi
cavallereschi italiani. E questo
Orlando rivendicato fornì anche
argomento all'ispirazione di
moderni poeti: dal ciclo di
romanze di Friedrich Schlegel,
alle Ballate "Piccolo Orlando" e
"Orlando scudiero" dell'Uhland,
e La morte di Orlando dello
Stöber, al bel poemetto Il suono
del corno del Vigny, ai molti
canti della Leggenda dei secoli
dell'Hugo, e alle variazioni
liriche in prosa e in versi di
molti altri: non esclusi i
critici e i filologi più austeri
(Gaston Paris, Bédier, L.F.
Benedetto), che sembrano essere
stati tentati, dalla figura del
gentil conte e dal ricordo delle
sue sventure, a improvvise
avventure di poesia. Senza però
che si possa dire che nessuna di
queste opere moderne abbia
aggiunto qualche tratto
veramente decisivo ai lineamenti
della figura di Orlando quali
sono stati fissati dalla
tradizione poetica occidentale,
tra l'XI e il XIV secolo.