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IL REALISMO
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CARDUCCI: NEVICATA
Di questa ode ha dato un'attenta
lettura Walter Binni. All'inizio
egli dichiara che Nevicata è uno
dei risultati più interi ed
intensi della poesia del
Carducci, una sintesi
equilibrata ed energica delle
sue tendenze più personali, una
prova notevole delle sue
possibilità di concentrazione
lirica e di sicura realizzazione
espressiva, della sua matura
ricchezza di vibrazione e di
suggestione sentimentale e
fantastica tutta dominata in
un'articolazione scandita e
continua, in un quadro compatto,
senza incrinature e cadute di
tono.
Dopo aver documentato come sul
finire degli anni Settanta, per
vicende personali e suggestioni
culturali (letture e traduzioni
di Holderlin), si rafforzassero
nel poeta la «meditazione
cimiteriale, la suggestione, il
fascino della discesa fra i
morti sempre più intensificato
da un sentimento di precoce
vecchiaia, di crescente
solitudine e distacco, fra la
scomparsa e la perdita di vecchi
e giovani amici e la fine
dell'amore per Lidia, prima
ancora della sua morte», il
Binni continua, affermando che
queste disposizioni d'animo si
composero, presero spazio
poetico in un quadro in cui la
situazione immediata e precisa
(l'interno dello studio del
poeta, la finestra dai vetri
appannati, lo sguardo al cielo
nevoso, l'attenzione al silenzio
che nega e recupera i suoni
consueti, stimolata dal tocco
isolato delle ore della torre di
piazza) si liricizza in rapporto
all'espressione del motivo a
lungo meditato e si dispone a
prepararlo, a creargli
suggestione e realtà di scena.
Una scena, che nella energica
simmetria del componimento,
occupa con la sua più diretta
espressione tutta la prima metà
della poesia sino al trapasso ad
una scena più interiore,
precisato nel verso 6 in cui il
suono delle ore svolge la sua
allusione più segreta, il suo
intimo riferimento al misterioso
sospiro di un mondo perduto e
lontano dalla vita consueta,
alla voce prima dei morti.
E in questa prima scena che crea
l'atmosfera
realistico-suggestiva e conduce
dall'esterno all'interno, sulla
guida di una sensibilissima
disposizione progressiva pur
nell'apparente giustapporsi
staccato e pausato di
impressioni a sé stanti, e sul
filo unitario di un continuo
riferimento all'attenzione
centrale del poeta (prima lo
sguardo al cielo cinereo e alla
neve che lenta fiocca, poi la
sensazione del silenzio che
abolisce, ricordandoli e
trasferendoli in una zona di
nostalgia implicita e sommessa,
i suoni del giorno consueto, poi
l'attutito vibrare dell'unico
suono che resiste e che nella
sua unicità suggerisce l'avvio
più deciso allo sviluppo della
interpretazione più personale e
poetica di tutte queste
sensazioni e di questa
dimensione insolita fra realtà e
sogno interiore) la
realizzazione di un così
eccezionale e perfetto
equilibrio in tensione
raccoglie, come già dicevo,
parole, immagini, ritmi più
veramente carducciani nella loro
funzione più matura e originale.
Si pensi per le parole-colore e
suono al tematico «cinereo» (uno
dei colori più tipici delle
gamme carducciane nella loro
bipartita tensione e nei loro
impasti a contrasto), al «roco»,
che nell'eccellente incontro
ritmico del verso 5 («roche per
l'aere le ore») riprende la
prova di Mors più pesantemente
onomatopeica («e solo il rivo
roco s'ode gemere»). O si pensi
all'immagine del silenzio della
giornata nevosa o, nella
singolare e non più ripresa
adozione di un particolare
distico elegiaco, all'impasto di
ritmo solenne e rapido, scandito
e vibrante, di predominante
lentezza energica e pensosa con
esiti di squillo attutito e di
suono cupo nei finali dei
distici mediante un ardito
impiego (non divertimento
prezioso, ma funzione di poesia)
delle cinque vocali accentate in
fine di verso [...].
Poi, dopo il primo distico in
cui più forte domina il silenzio
e lo squallore della giornata
invernale, un movimento più
animato cresce nel secondo
distico fino al chiaro recupero
nostalgico, pur nella negazione,
di freschi elementi vitali con
il rilievo lieto di
quel1'«ilare» (vibrante incontro
di immagine e suono) e lo
squillo rapido del finale «e di
gioventù». Mentre il ritmo più
lento, monotono, scuro del terzo
distico trova un esito più
complesso nella direzione di uno
sviluppo di distanza suggestiva,
di suono che apre il passaggio
ad una zona misteriosa,
spirituale, approfondita dalla
sua stessa misteriosa
lontananza.
Proprio sull'avvio del verso 6
la poesia si svolge nella sua
parte più intensa, più lirica:
quella a cui il Carducci da
tempo soprattutto pensava, ma
che aveva bisogno, per superare
il grido autobiografico, la
notazione epistolare-diaristica,
appunto di tutta la mitizzazione
scenica, del quadro
realistico-fantastico entro cui
l'appello ai morti, l'impeto
della discesa fra loro trova la
forza di trasfigurarsi
fantasticamente, anche se nei
modi energicamente compendiosi e
concentrati che son propri del
migliore Carducci.
Con un potente passaggio, la
mitizzazione dei morti negli
«uccelli raminghi» che picchiano
ai vetri appannati, rivela il
suo significato aperto e la
forza dell'immagine iniziale, la
sua ferma violenza tempestosa
che imprime una eccezionale
pienezza alle singole parole, e
si ripercuote intera nel finale
del distico traducendosi
nell'energico riferimento
personale in cui la posizione
del dativo «a me» dopo
«chiamano» par superare la
semplice assimilazione al
reggimento del primo verbo in un
violento salire dell'onda
poetica fino all'intensissima
forma di dativo personale:
«guardano e chiamano a me», che
unifica tutto ormai nel rapporto
diretto fra il poeta e i morti.
Al loro appello e al loro
sguardo affascinante e inquieto
risponde l'ultimo distico, in
cui il motivo, maturato a
contatto di Holderlin, si svolge
e si arricchisce nella risposta
ai morti e nel brusco, patetico
invito al cuore a placarsi. Un
invito che in quella risposta si
inserisce audacissimo a
movimentare drammaticamente
questo dialogo concitato e
dolente, ricco di risonanze
elegiache e affettuose,
accelerato dalla urgenza che
proveniva dall'appello dei morti
e che si ripercuote nella
replica del rassicurante « in
breve», per concludersi nel
denso, scuro sviluppo di suoni,
di direzioni, di parole-immagini
funerarie («giù al silenzio
verrò, ne l'ombra riposerò»),
tese da un'estrema energia
volitiva, perentoria e tutta
vibrante fra un sospirato
desiderio di rifugio e di riposo
da tutto ciò che la vita
rappresenta di vile, di
deludente, di mediocre, di
malvagio e un dolente rimpianto
e una prefigurazione di
abbandono degli aspetti
consolatori della vitalità.
Aspetti negati assolutamente dai
termini estremi del loro
contrasto («giù», «silenzio»,
«ombra») e che, d'altra parte,
anche in questa poesia il
Carducci aveva trovato modo di
ricordare e vagheggiar
sobriamente pur negandoli («non
d'amor la canzon ilare e di
gioventù») nel quadro della
giornata invernale e del suo
simbolo cimiteriale secondo un
modulo di contrasto essenziale
alla sua visione poetica.
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