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IL REALISMO
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MORTE DI MASTRO DON GESUALDO
Il
protagonista di Mastro-don
Gesualdo, il secondo romanzo
verista di Verga, è un uomo del
popolo che per tutta la vita
lavora per ammassare «roba»,
cioè terre, denari e ricchezze.
Gesualdo non è propriamente un
uomo avido e avaro: ciò che lo
spinge non è sete di ricchezza
ma semplicemente una confusa
volontà di riscatto e di
affermazione. Naturalmente, per
conseguire il suo scopo, che ben
presto è diventato per lui una
ragione di vita, Gesualdo non
solo non si risparmia fatiche e
rinunce, ma sacrifica ad esso
tutti gli affetti più cari e
strappa le sue radici dal mondo
dei suoi simili senza riuscire a
entrare nel mondo dei ricchi.
Così egli, umile «mastro»
plebeo, anche se ricco e temuto,
tenta bensì di diventare «don» e
di inserirsi tra i galantuomini,
ma finisce per trovarsi solo,
abbandonato dai suoi simili e
respinto dagli altri. Di fatto,
per elevarsi socialmente, ha
sposato una nobile decaduta,
Bianca Trao, che gli ha dato una
figlia, ma tanto l'una quanto
l'altra gli resteranno sempre
estranee e lontane: anzi, la
figlia, una debole creatura, non
solo lo disprezzerà per le sue
umili origini, ma sposerà un
uomo che, con le sue spese
pazze, dissiperà tutte le
ricchezze che egli ha
accumulato. Perciò, da ultimo,
mastro-don Gesualdo assiste al
crollo completo delle sue
aspirazioni e della sua vita e
risulta "un vinto", sconfitto da
una legge più forte di lui che
non consente a nessuno di essere
diverso da quello che è.
Verga descrive l'ultimo atto
della vicenda umana del suo
personaggio. Mastro-don
Gesualdo, stanco e malato, è
ospite nel palazzo cittadino
della figlia e del genero.
Disperatamente, ormai
consapevoli di essere vicino
alla fine, cerca di risvegliare
nella figlia l'amore per «Ia
roba» nel tentativo di salvare,
insieme alle sue ricchezze, il
senso stesso della sua vita. Ma
tutto è inutile. La figlia non
può capirlo ed egli si trova
veramente e definitivamente
solo. E solo, abbandonato da
tutti, morirà fra l'indifferenza
e, peggio, il disprezzo della
servitù del palazzo. La
conclusione del romanzo è,
quindi, quanto mai cupa e
pessimistica: se la sconfitta su
cui si chiudeva il primo
romanzo, I Malavoglia, lasciava
aperta la speranza e la fiducia
nell'esistenza di un valore
positivo come quello del
focolare domestico in cui chi
era rimasto fedele alla
religione della casa poteva
trovare rifugio e conforto, la
chiusa del secondo romanzo
verghiano non ammette né
salvezza né riscatto: mastro-don
Gesualdo finisce nel nulla come
la sua "roba".
Dal punto di vista
stilistico-espressivo,
Mastro-don Gesualdo segna una
fase nuova e diversa rispetto a
I Malavoglia e anche alle
novelle. Verga non rinuncia
certo al suo ruolo di narratore
"oggettivo", fedele come è,
anche in questo caso, alla
poetica del Verismo, ma
diversamente che ne I Malavoglia
costruisce con maggior
attenzione alle esigenze della
trama e dell'intreccio della
vicenda, di modo che il romanzo
guadagna in termini di rigore e
di coerenza narrativa, ma,
inevitabilmente, perde in
efficacia rappresentativa e in
suggestione poetica. Anche dal
punto di vista linguistico,
Mastro-don Gesualdo è diverso da
I Malavoglia: l'andamento
popolare, ritmato da squarci
lirici, scandito da massime
proverbiali e costellato di
interventi indiretti e liberi
delle voci dei vari personaggi,
con le loro espressioni gergali,
vivaci, realistiche e immediate,
lascia qui il posto a una
scrittura più elaborata, non
priva di modi espressivi e di
forme linguistiche arieggianti
il dialetto, ma meno intensa e
meno espressiva.
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