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IL REALISMO
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IL TEMA DELLA PARTENZA
La
partenza è il tema di tutti i
romanzi di Giovanni Verga
successivi alla trilogia
patriottica e precedenti I
Malavoglia: ad eccezione di
Storia di una capinera, a meno
che non si dia un significato
abusivamente metaforico al tema
della partenza. Ma è soprattutto
in Una Peccatrice e in Eva che
quel tema diventa
romanzescamente costitutivo: la
partenza, ovvero il distacco
costituisce l'evento traumatico
di cui il protagonista prende
dolorosamente coscienza e
rispetto al quale il ritorno non
può più fungere da atto
riparatore, ché anzi conferma lo
scacco. Nei Malavoglia, però, il
tema del distacco è più
strettamente vincolato ai valori
simbolici che collegano il
romanzo della «lotta pei bisogni
materiali» alla «fantasmagoria»
dei Vinti, anzi a quel mito dei
primitivi di Aci Trezza che è
diventato poi lo slogan della
più corrente critica verghiana:
la «religione della famiglia».
In questa dimensione mitica del
gruppo o nucleo familiare il
distacco è un evento più
ritualmente sofferto, in quanto
esso corrisponde nei valori
della comunità alla morte.
Proprio nel capitolo undicesimo
una serie di incisi dialogici (i
richiami di Nunziata alla
partenza senza ritorno del
padre, l'evocazione ricorrente
di compare Alfio, per ricordare
intanto i più insistenti) stanno
lì a testimoniare in modo
incontestabile che il nesso
distacco-morte è un dato che
incombe su tutti i membri della
comunità. La partenza di 'Ntoni
non è soltanto un danno per la
famiglia in quanto egli è il
primogenito della terza
generazione dei Toscano, il
braccio forte cui è delegata
dopo la morte del padre, la
tutela o comunque la
sopravvivenza della famiglia. È
un distacco più fortemente
traumatico perché gli altri lo
sentono carico dell'angoscia per
un destino di morte.
Anche a questo serve la più
vistosa digressione del
capitolo: la fiaba magica
narrata dalla cugina Anna del
«figlio di un re di corona,
bello come il sole» condotto
dalle fate alla fontana dove,
sceso dal suo cavallo bianco,
berrà nel ditale lasciato cadere
dalla figlia Mara, s'innamorerà
di lei e arrivato a Trezza dopo
un altro anno, un mese e un
giorno di cammino, prenderà Mara
al lavatoio in cui la ragazza
«starà sciorinando il bucato; e
il figlio del re la sposerà e le
metterà in dito l'anello; e poi
la farà montare in groppa al
cavallo bianco, e se la porterà
nel suo regno». La fiaba è
ascoltata «a bocca aperta». Ma
lo stupendo miraggio della
misera popolana presa in sposa
dal figlio del re è sentito
dagli astanti con apprensione.
«E dove se la porterà?, domandò
poi la Lia. Lontano lontano, nel
suo paese di là dal mare; d'onde
non si torna più». Anche la
madre, dunque, che vagheggia
quel miraggio sa che la
figlia-regina sarebbe poi colei
che non torna, ed è Lia (colei
che infatti non tornerà) a porre
quella domanda e a ricevere
ancora bambina l'avvertimento
del destino. Nel gioco delle
rispondenze tutto questo è
calcolato. Lia che come 'Ntoni
interpreta il desiderio, a lei
non ancora rivelato, del nuovo,
dell'ignoto, interroga quel
destino, mentre Nunziata,
l'altra bambina del crocchio,
che rappresenterà con Alessi la
stabilità e la durata, commenta
gravemente la risposta della
cugina Anna: «Come compar Alfio
Mosca, disse la Nunziata. Io non
vorrei andarci col figlio del
re, se non dovessi tornare più».
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