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IL SETTECENTO
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Beccaria: Concezione laica e
finalità sociale della pena
Cesare Beccaria, nato a Milano
nel 1738 da una famiglia di
antica nobiltà, studiò sino a
sedici anni a Parma, presso il
Collegio farnesiano diretto dai
gesuiti, si laureò in legge a
Pavia nel 1758 e trascorse poi
tutta la vita a Milano. Qui
frequentò l'ambiente
dell'Accademia dei Trasformati,
di cui Carlo Imbonati (che
Manzoni ricorderà in una celebre
composizione) era magna pars:
non vi mancavano certo gli
interessi culturali, ma messi in
sordina dalla brillante
mondanità. È per insoddisfazione
e per un vivo desiderio di
concretezza e di azione che un
gruppo di giovani frequentatori
guidato da Pietro Verri si
stacca da quell'ambiente e fonda
l'Accademia dei Pugni. Da questo
nuovo ambiente Beccaria riceve
stimoli che gli servono a
vincere un carattere ombroso nel
quale coesistono fervida
fantasia, grandi entusiasmi e
abulie paralizzanti. Proprio in
casa di Pietro Verri - che gli é
vicino e lo sprona - scrive in
meno di un anno il suo Dei
delitti e delle pene, che viene
pubblicato nel 1764 e dà fama
europea al ventiseienne autore.
Collabora poi al «Caffè»
(1764-66) con sei articoli di
contenuto assai vario: dal
rigore scientifico del Tentativo
analitico su i contrabbandi
all'autobiografismo de I piaceri
dell'immaginazione. Invitato
insistentemente dagli
illuministi francesi, si decide
finalmente nel 1766 a recarsi a
Parigi, accompagnato da
Alessandro Verri, ma non
sopporta gli incontri e la
mondanità, é frequentemente in
preda a crisi depressive, e dopo
un paio di tmesi ritorna a
Milano con disappunto del suo
accompagnatore, che scrive al
fratello Pietro: «Mai più
viaggio con uomini di grande
immaginazione mai e poi mai».
Nel 1768 gli viene assegnata la
cattedra di scienze camerali
(l'attuale economia politica)
nelle Scuole Palatine di Milano;
nel 1770 pubblica le Ricerche
intorno alto stile; dal 1771 al
1794 lavora prima come
funzionario presso il Supremo
Consiglio di Economia, poi come
responsabile del Dipartimento di
Agricoltura, Industria e
Commercio, infine come membro
della Giunta per la riforma del
sistema giudiziario. Unicamente
preso dal suo lavoro, non
partecipa alla vita culturale e
vive in un cauteloso isolamento
(e Pietro Verri definisce
l'amico di un tempo «la statua
di se stesso»). Muore a Milano
nel 1794.
Piero Calamandrei mette a fuoco
con incisiva chiarezza una
fondamentale novità dell'opera
del Beccaria: la concezione
laica e la finalità sociale
delle pena.
Prima di lui una tradizione
millenaria, alla quale con
zelante impegno si ispiravano i
giudici nella pratica criminale,
aveva posto il fine essenziale
della pena nel far soffrire il
reo: e aveva portato logicamente
a far ritenere che, quanto più
dura fosse la sofferenza
inflitta, tanto più fosse
efficace la pena. A formar
questa tradizione, l'idea
germanica della vendetta, che
vedeva nella pena il meccanico
contraccambio del male col male,
si era incontrata coll'idea
cattolica dell'espiazione, che
vedeva nei supplizi inflitti al
peccatore il mezzo per
purificarlo dal male commesso e
per indurlo al pentimento. Tutti
gli errori del sistema
criminale, che uscito dal
Medioevo rimase in vigore fin
oltre la Controriforma, furono
la conseguenza pratica
dell'incontro di queste due
idee: dal concepirla pena come
una retribuzione del male col
male derivava naturalmente la
gara dei giudici per uguagliare
e possibilmente superare colle
sofferenze da infliggere al
deliquente quelle da lui
inflitte alle sue vittime; ma
questo zelo di ferocia era
altresì, e forse più, alimentato
dall'idea religiosa
dell'espiazione, perché, se il
supplizio doveva servire a
purgare il reo dalle colpe e a
redimerlo, pareva che quanto più
fosse acuto lo strazio
procuratogli, tanto più compiuta
e, pronta dovesse essere la sua
redenzione.
Forse non sarebbe difficile
dimostrare storicamente che la
resistenza secolare di un
sistema criminale fondato sulla
crudeltà derivò principalmente
dalla giustificazione che i
giudici credevano di trovarne,
equivocando tra delitto e
peccato, nei dogmi della
religione. Anche il Beccaria
avverte (mala sua discrezione
politica gli consiglia di non
insistervi troppo) le terribili
responsabilità di questo
equivoco, là dove, parlando
della tortura, denuncia le
conseguenze derivate nella
pratica giudiziaria dall'aver
trasportato dal piano spirituale
a quello della giustizia terrena
il «dogma infallibile» secondo
il quale «le macchie contratte
dall'umana debolezza... debbono
da un fuoco incomprensibile
essere purgate». Così poterono
esservi giudici coscienziosi che
in buona fede credettero debito
di carità prolungare sotto i
tormenti la vita del giustiziato
per dargli più agio di pentirsi.
E la crudeltà delle pene umane,
per quanto acuita a forza di
studio, parve sempre troppo
indulgente a paragone della
immaginata inesorabilità delle
pene eterne dell'Inferno: in
tutta la prima cantica dantesca
e specialmente in certi canti
più cupi (si pensi alla
raccapricciante carneficina dei
seminatori di scandalo e di
scismi nella nona bolgia) vive
la terrificante sublimazione
poetica di un sistema criminale
basato sul «contrappasso», che
nello studio di inventare per
nuove colpe «nuovi tormenti»
doveva necessariamente rimaner
chiuso ad ogni pietà.
Di questa spietata concezione
medievale della pena il Beccaria
si sbarazza con una frase: «...
egli è evidente che il fine
delle pene non è di tormentare
ed affliggere un essere
sensibile...». «l'evidente», e
altro non dice: non ragiona su
questo punto, non tenta neanche
una dimostrazione; la sua
dialettica utilitaria, che gli
serve quando si tratta di
valutare se le pene sono
adeguate al fine già fissato,
non gli serve più quando si
tratta di fissare, prima di
tutto, qual è questo fine su cui
le pene debbono orientarsi. Ma
qui, al posto della ragione
utilitaria sottentra
l'imperativo della coscienza:
«non vi è libertà ogni qual
volta le leggi permettono che,
in alcuni eventi, l'uomo cessi
di esser persona e diventi
cosa...». Ecco l'argomento
etico, di origine
giusnaturalistica, che,
precorrendo l'imperativo
kantiano, impone in ogni caso il
rispetto della persona umana
nella sua insopprimibile dignità
morale; ecco la religione della
libertà, che respinge in blocco,
senza bisogno di dimostrazioni
dialettiche, un sistema
criminale che abbandona l'uomo
alla forza bruta del carnefice
come una cosa senz'anima, come
un pezzo di povera carne
corruttibile, destinata ad esser
macerata ed incenerita.
Lo stesso argomento, che scorre
sotterraneo in tutto il libro,
riaffiora in altri punti di
questi capitoli a rafforzar,
dove occorre, la dialettica
utilitaria. Dopo aver respinto,
nel modo sbrigativo che si è
visto, la concezione della pena
come retribuzione e come
espiazione, il Beccaria afferma
che il fine delle pene «non è
altro che d'impedire il reo dal
far nuovi danni ai suoi
cittadini e di rimuovere gli
altri dal farne uguali». In
queste poche parole è segnata
una svolta decisiva del diritto
penale: la pena non è più
considerata come un mezzo per
raddoppiare con altro male il
male prodotto dal delitto
commesso, ma come un mezzo per
evitare che al male irreparabile
arrecato dal primo delitto altro
si aggiunga per opera dello
stesso delinquente o di chi
dalla sua impunità potrebbe
essere incoraggiato ad imitarlo.
Il fine della pena da
individuale diventa sociale, da
repressivo preventivo (non più «punitur
quia peccatum est», ma « punitur
ne peccetur»). Ecco sorto così
quel concetto della pena come
mezzo di difesa e di prevenzione
sociale, che nel secolo
successivo doveva essere l'idea
ispiratrice della scuola
positiva italiana.
Fissato così, secondo i dettami
della sua coscienza morale, il
fine delle pene, il Beccaria può
agevolmente dare alla sua
polemica contro le efferatezze
dei supplizi il tono di una
fredda valutazione utilitaria
dei mezzi meglio idonei al
raggiungimento di quel fine; e
gli è facile dimostrare che per
impedire al reo di commettere
altri delitti non c'è bisogno di
martoriarlo, e che l'effetto
intimidatore della punizione
concepita come pubblico esempio
non dipende necessariamente
dalla sua atrocità. La
moderazione (o, com'egli dice,
la «dolcezza») è più adatta
della crudeltà a conseguire i
fini sociali della pena.
Ragionamento analogo vale per la
pena di morte, della quale, in
quel capitolo che è il più
celebre dell'opera, egli si
industria di dimostrare, più che
l'ingiustizia assoluta sotto
l'aspetto morale, la inutilità
relativa sotto l'aspetto
politico.
Questo modo di argomentare, che
nega la legittimità della pena
di morte solo perché la società
non ha interesse ad infliggerla,
non è senza pericoli: porta
infatti per coerenza a
concludere che là dove
l'interesse, pubblico lo esige
(e anche il Beccaria è costretto
ad ammettere per coerenza che in
certi casi la pena di morte sia
una necessità) sia legittimo per
questa sola ragione il
mantenerla; il che
significherebbe negar che la
vita umana abbia di per sé un
valore morale assoluto e
abbandonarla senza scampo alla
mercé degli umori dei
governanti. La valutazione
dell'interesse pubblico è
infatti eminentemente variabile
e relativa: non solo la pena di
morte, ma i più feroci modi di
inasprirla potranno domani esser
proclamati di autorità come
utili e quindi come legittimi,
quando i tiranni del tempo
avranno l'accortezza di
presentare i loro gusti
sanguinari sotto il solenne
pretesto della ragione di stato.
Così avvenne durante il regime
fascista in Italia, dove
l'argomento invocato per
ristabilir la pena di morte fu
il medesimo, se pur con
conclusione opposta, che era
stato addotto due secoli prima
dal Beccaria per abolirla: cioè
l'interesse pubblico
(l'apprezzamento del quale,
com'è risaputo, varia col
variare della moralità
individuale dei governanti che
si arrogano il potere di parlare
in nome del popolo).
La verità è che il solo calcolo
dell'utile sociale non è
sufficiente argomento a far
scomparire dai codici la pena di
morte e la crudeltà delle pene,
se in faccia alla ragione di
stato non si ponga, come
barriera non valicabile, il
rispetto della persona umana,
considerata come fine a sé
stessa e non come strumento
dell'interesse pubblico, persona
e non cosa: se di fronte alla
esigenza dell'autorità non si
afferma la esigenza, altrettanto
sacra, della libertà. Tutti gli
argomenti utilitari che il
Beccaria porta contro la pena di
morte non hanno, messi insieme,
il peso di un'osservazione che
sembra sfuggita alla sua
prudenza, e che apre uno
spiraglio sul suo pensiero più
profondo: «... gli uomini, nel
più segreto dei loro animi...
hanno sempre creduto non essere
la vita propria in potestà di
alcuno, fuor che della
necessità, che col suo scettro
di ferro regge l'universo».
Questa era, anche, nel
sentimento più intimo del
Beccaria, la vera ragione per
cui la pena di morte non può mai
esser giusta, neanche se lo
stato la proclami necessaria per
i suoi fini. «Non uccidere»,
imperativo categorico che non
può venir meno per calcoli di
utilità: poiché la soppressione
violenta di una vita umana, pur
se ordinata di autorità, è in
ogni caso infrazione di quella
legge morale per la quale
l'uomo, anche nei confronti
dello stato, è sempre un prius,
non mezzo ma fine. Il che porta
logicamente ad assegnare alla
pena, insieme collo scopo di
difesa sociale, quello di emenda
e di rieducazione individuale,
che non può certo raggiungersi
colla violenta soppressione del
colpevole da rieducare.
Qui sta, a ben guardare, la vera
novità del Beccarla: in questa
rivendicazione, di fronte agli
spietati rigori della giustizia
punitiva, della inviolabilità
morale dell'uomo, il quale,
anche sul patibolo, rimane
persona non cosa .
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