|
IL SETTECENTO
|
|
|
|
Parini: Dialogo sopra la nobiltà
Nel Dialogo sopra la nobiltà il
Parini mette a confronto due
diverse logiche: quella del
pregiudizio sociale e quella
dello spirito critico
illuministico. Il personaggio
del poeta plebeo incarna
l'ideale dell'intellettuale
illuminato che può farsi guida
di un rinnovamento sociale e
culturale; quello
dell'aristocratico in sostanza
rappresenta il soggetto sociale
cui si indirizza il riformismo
illuminato.
Le argomentazioni del nobile a
sostegno della propria presunta
superiorità sono: la diversa
nascita, la purezza del sangue,
l'antichità della stirpe. II
poeta le confuta rapidamente e
ironicamente: tutti dal punto di
vista biologico nasciamo nello
stesso modo (a questo tema il
Parini, nel 1759, dedicherà un
sonetto, il CXXIII, che,
descritta la gestazione e la
nascita, termina con il verso
«Così nasce il villano, il papa
e il re»); la presunta purezza
del sangue non genera virtù,
visto che molti nobili sono
viziosi (ironicamente il poeta,
per spiegare ciò, ipotizza una
commistione di sangue plebeo e
nobile, alludendo ai molti figli
illegittimi dei nobili); tutti
discendiamo da Adamo, quindi non
ha senso accampare pretese
d'antichità della stirpe (più
avanti concederà che i nobili
hanno miglior memoria dei propri
antenati di quanta non ne
abbiano i plebei).
Nel secondo frammento la
questione si sposta sugli
antenati del nobile, «celebri»,
«illustri», «grandi», secondo
lui. Nell'illustrazione di tali
caratteristiche dei propri avi
il nobile, però, mostra la
propria insufficienza dialettica
(che è poi un limite del Dialogo
stesso, solo in parte spiegabile
col richiamo al codice
comico-satirico), offrendo
palesemente argomenti alla
confutazione del poeta: «ricchi
sfondolati», «memorabile
macello», «dispotici padroni», «archibusate»
sono espressioni che rivelano
come nel discorso del nobile in
realtà si infiltri il punto di
vista del poeta (o, se vogliamo,
del Parini). Il poeta ha perciò
buon gioco a replicare che il
suo antagonista in realtà
scambia i vizi per virtù,
rincarando la dose; usurpatori,
sgherri, masnadieri, violatori,
sicari furono gli antenati del
nobile, almeno quelli celebrati
e ricordati, ché certo ve ne
furono anche di virtuosi, ma
dimenticati perché «le sociali
virtù non amano di andare in
volta a processione».
Il nobile allora abbassa la
guardia e si dichiara sconfitto,
ammettendo la propria «sciocca e
ridicola presunzione». A questo
punto il discorso si sposta sul
contributo che l'esser nobili
può dare alla felicità terrena
degli uomini. E qui cade
l'ammissione più significativa
del poeta: quando la nobiltà sia
congiunta con la virtù, col
talento e con le ricchezze, può
esser «di qualche uso e
comodità», per quanto si tratti
pur sempre di un pregiudizio. La
« vera nobiltà» è quella
dell'animo. Senza ricchezze,
senza virtù e senza talento il
nobile è il più infelice degli
uomini, come è illustrato
dall'eloquente finale.
La critica illuministica del
Parini, tramite il poeta del
Dialogo, si appunta in sostanza
contro l'idea, il concetto
astratto di "nobiltà", che gli
strumenti dialettici forniti
dalla nuova filosofia e dalla
nuova cultura hanno buon gioco a
mostrare un semplice
pregiudizio. Qui si arresta la
critica pariniana e si converte
in un convinto invito rivolto
alla nobiltà affinché si renda
virtuosa e meritevole di quei
privilegi di cui di fatto gode
in società. L'egualitarismo che
mostra qui il Parini non implica
adesione a prospettive politiche
eversive, ma si colloca entro il
complessivo quadro di riformismo
cui guardava la stessa società
aristocratica milanese nei suoi
elementi più avanzati (nella
fattispecie i Trasformati, ai
quali il Parini s'indirizzava) .
|
|
|
| |
|
|
|
| |