Nei versi 4-38 è delineata la
notte degli avi: le tenebre
dominano, ma sia al livello
profondo delle relazioni
simboliche che a quello
superficiale della lettera del
testo, intervengono segnali di
luminosità a formare un
contrappunto indispensabile alla
corretta comprensione del passo:
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Già di tenebre involta e
di perigli, ecc. |
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L'idea dominante è ripetuta con
insistenza - «di tenebre involta
e di perigli...», «Terribil
ombra giganteggiando...» ,
«l'aere orribilmente tacito ed
opaco», «per lo vasto buio...»
-: ad essa sono associate
espressioni che indicano
sensazioni uditive - un
«silenzio» di fondo, richiamato
dall'«aere orribilmente tacito»
dei vv. 19-20, su cui si
stagliano i «ferali stridi» di
«upupe e gufi» , il «lungo
acutissimo lamento» delle
«pallide fantasime» a cui « i
cani rispondevano ululando» - e
segnali che troppo
insistentemente ed
esplicitamente (almeno
all'apparenza) suggeriscono la
reazione emotiva degli avi e
quelle che, in teoria,
dovrebbero suscitare nel
lettore: alludo ad aggettivi,
avverbi e sostantivi quali
«orrori», « terribil» ,
«teschi», «mostri», «ferali»,
«orribilmente», «affanno»,
«lamento». Un lacerto di gusto
tipicamente
preromantico-ossianesco è stato
detto, cogliendo solo
parzialmente nel segno, che tale
è solo sul recto di un discorso
che prevede un parziale, ma
semanticamente complesso,
capovolgimento ironico.
I termini che indicano
luminosità sono tutti assunti
per venire in qualche misura
negati: il «sole» compare solo
per indicare che «avversi» ad
esso sono i «mostri» che
svolazzano nelle tenebre; due
volte compare «fiamme», in
entrambi i casi moderato in una
sorta d'ossimoro dall'aggettivo
«smorte» che reca in sé un cupo
segnale di morte che
contribuisce a suggerire
immagini infernali e
purgatoriali tutt'altro che
infrequenti nell'iconografia del
tempo, in concomitanza con il
significato contestuale di
quelle fiamme (fuochi fatui);
compare poi un «raggio delle
stelle... e de' pianeti», ma il
raggio è « debil», le stelle «
remote» e per di più - non senza
ironia - quel « debil raggio» «rompea
gli orrori tuoi sol quanto è
duopo / a sentirli assai più».
Tali termini sono abbastanza
frequenti, come si vede, quasi a
ribadire che la loro presenza è
indispensabile nel contesto.
Ma l'idea della luce ritorna a
conclusione del passo (e con
essa una duplice antitesi:
occaso/aurora, sonno/opre): la
serena immagine dell'«aurora
sbadigliante ancora», di garbato
gusto arcadico ma qui essa pure
soggetta ad un sospetto di
ironia, non fa che accentuare
per contrasto i notturni orrori:
l'«aurora» è un altro tempo
rispetto alla notte,
letteralmente viene dopo la
notte, ed è introdotta nel modo
del congiuntivo «finché... li
richiamasse»: anche quest'attesa
di luce sancisce che la notte
antica era dominio delle tenebre
e delle fantasie funeste.
A confermare l'antitesi di
fondo, l'immagine luminosa
dell'aurora si associa a
rasserenanti dati paesaggistici
- «rivi» e «campi nascenti» - e,
ancor più significativamente, ad
espressioni che in crescendo
indicano un attivo e produttivo
operare dell'uomo: l'opre degli
avi (canalizzazioni,
dissodamenti) «onde poi grandi /
furo i nipoti e le cittadi e i
regni». Su questa affermazione
di progresso (che appena
pronunciata si presta però ad un
ironico capovolgimento: a che ha
portato questo progresso? sono
poi in tutti i sensi «grandi» i
nipoti? e prepara una più ampia
contrapposizione) si chiude il
passo.
Segnata da un'analoga ma
capovolta antitesi si apre la
descrizione della Notte moderna:
qui tutto è tripudio e luce, ma
non mancano segnali che
indichino le tenebre:
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Ma ecco Amore, ecco la
madre Venere, ecc. |
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Ora sono i termini che indicano
oscurità a venire introdotti per
essere negati: la «notte»
(minuscolo, ad indicare la
dimensione temporale) vede il
trionfo d'Amore, di Venere, dei
Genj del gioco e del fasto che
quasi magicamente irradiano»
«nova luce» attorno a sé; «le
inimiche tenebre fuggono
riversate»; la Notte
(personificata) è contrapposta
ad una luminosità più forte del
sole, ed è «stupefatta» come
«l'eterno caos» (indistinto,
oscuro) allo schiudersi della
«luce». Un sistema di segnali,
questo, organizzato sulla base
di una somma di parallelismi e
contrapposizioni, come si vede.
L'effetto luce è ottenuto, oltre
che mediante le espressioni che
la designano direttamente
(«s'irradia», «nova luce»,
«riverberar», «fulgide»,
«luce»), soprattutto
analogicamente con una relazione
di tipo metonimico (gli oggetti,
la materia per l'effetto: sole,
auree cornici, spegli,
cristalli...) e grazie
all'enumerazione caotica e
scintillante col suo ritmo
rapido (serie di sostantivi o di
coppie sostantivo-aggettivo), la
frequenza di liquide e il
particolare timbro dato dalla
predominanza di «i» ed «e» e
forse grazie alla stessa
perspicuità delle immagini
tipica dello stile pariniano ma
qui convergente a produrre un
particolare effetto. Nel passo
precedente, viceversa,
dominavano un ritmo più lento
(erano intere frasi ad essere
coordinate dalle frequenti
congiunzioni) e il timbro più
cupo prodotto dalla frequenza di
«u» ed «o» .
Assistiamo, in questa
descrizione della notte moderna,
ad un trionfo degli oggetti che
ne ricorda altri precedenti e
che a questo punto dell'opera è
già di per sé altamente
significativo: specchi,
cristalli, ori, argenti, pietre
preziose indicano un'opulenza
che non è più motivata e
legittimata da un contributo al
vivere sociale, che addirittura
si pone a tratti come negazione
dell'umano, simbolo di un ozio e
un'imbecillità che segnano
l'irreversibile declino di
un'intera classe sociale.
La contrapposizione, dunque, tra
notte antica e notte moderna è
fondata su una doppia antitesi
luce/ombra: un tempo le tenebre
popolate d'orrori e di fantasie
funebri oscuravano ogni luce;
ora la fastosa vita notturna
della nobiltà sconfigge le
tenebre, irradia il mondo di
nuova luce. Ma proprio qui si
rivela una nuova più ampia
antitesi: le tenebre d'un tempo
erano destinate quasi a tutelare
il sonno ristoratore degli
antichi operosi signori, in
questo non diversi dai plebei
(le tenebre cariche di
significati negativi si
oppongono a una luce simbolo di
operosità); mentre la luce in
qualche misura artificiale
(innaturale) dei tempi presenti
cela nel suo riverberare ozio e
imbecillità; alla notte
illuminata non si contrappone
nessun giorno operoso. Ciò che
ancora può, nell'ottica del
Parini, caricarsi di significati
positivi (uomini e fere che,
dormendo come gli avi dormivano,
vivranno un operoso giorno) è a
sua volta celato in quelle
tenebre della notte che, al
presente, perdono ogni
connotazione inquietante e sole
possono dirsi naturali:
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Le inimiche tenebre
Fuggono riversate; e
l'ali spandono
Sopra i covili, ove le
fere e gli uomini
Da la fatica condannati
dormono.
(NT vv. 44-47) |
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Il senso profondo del discorso
pariniano si svela: «inimiche»
nel contesto è ironico; tra le
righe vibra lo sdegno pariniano
per la condanna alla fatica cui
sono soggetti fere ed uomini
(plebei soprattutto, designati
però come uomini tout court), i
veri tutori del regno di natura.
Ecco dunque la vera antitesi,
cui tutte le altre tendono: agli
aristocratici, inetti,
snaturati, si oppongono gli avi
operosi d'un tempo, le fere e
gli uomini di sempre. Il sistema
espressivo pariniano nasce dal
sovrapporsi di antitesi e
parallelismi tutti allusivi e
tutti finalizzati (notte antica
/ notte moderna; luce / tenebre;
tenebre simbolo positivo /
tenebre simbolo negativo; luce
simbolo positivo / luce simbolo
negativo; dormire degli avi -
dormire dei plebei / vegliare
dei nobili, etc.).
La «nova luce» che sconfigge le
«inimiche tenebre» è poi un vero
gioiello di ambiguità o meglio
di polisemia. Tolta dal
contesto, è metafora
illuministica nella sua forma
tipica; nel contesto, in primo
luogo designa luce materiale che
vanifica tenebre materiali, ma
in secondo luogo, simbolicamente
e ironicamente, designa la
vittoria, nell'universo del
giovin signore, del pregiudizio
e dell'innaturalezza sulla
ragione e sulla natura. Ma,
ancora, per la forma stessa
dell'immagine e per la carica
polemica contro il
capovolgimento di ragione e
natura che il Parini tendeva a
nascondere nei sottintesi del
suo discorso, l'espressione non
può non alludere, in cifra, a
quell'insieme di valori in cui
il Parini credeva e significare
nuovamente la necessità che una
«nova luce» di ragione sconfigga
le « inimiche tenebre» del
pregiudizio, dell'impostura e
dell'ingiustizia. Con rara
abilità il Parini gioca con i
materiali metaforici della
tradizione e dell'attualità