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 Autore Luigi De Bellis   
     

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IL SETTECENTO

Parini: Notte


 

Nei versi 4-38 è delineata la notte degli avi: le tenebre dominano, ma sia al livello profondo delle relazioni simboliche che a quello superficiale della lettera del testo, intervengono segnali di luminosità a formare un contrappunto indispensabile alla corretta comprensione del passo:
 

  Già di tenebre involta e di perigli, ecc.  


L'idea dominante è ripetuta con insistenza - «di tenebre involta e di perigli...», «Terribil ombra giganteggiando...» , «l'aere orribilmente tacito ed opaco», «per lo vasto buio...» -: ad essa sono associate espressioni che indicano sensazioni uditive - un «silenzio» di fondo, richiamato dall'«aere orribilmente tacito» dei vv. 19-20, su cui si stagliano i «ferali stridi» di «upupe e gufi» , il «lungo acutissimo lamento» delle «pallide fantasime» a cui « i cani rispondevano ululando» - e segnali che troppo insistentemente ed esplicitamente (almeno all'apparenza) suggeriscono la reazione emotiva degli avi e quelle che, in teoria, dovrebbero suscitare nel lettore: alludo ad aggettivi, avverbi e sostantivi quali «orrori», « terribil» , «teschi», «mostri», «ferali», «orribilmente», «affanno», «lamento». Un lacerto di gusto tipicamente preromantico-ossianesco è stato detto, cogliendo solo parzialmente nel segno, che tale è solo sul recto di un discorso che prevede un parziale, ma semanticamente complesso, capovolgimento ironico.
I termini che indicano luminosità sono tutti assunti per venire in qualche misura negati: il «sole» compare solo per indicare che «avversi» ad esso sono i «mostri» che svolazzano nelle tenebre; due volte compare «fiamme», in entrambi i casi moderato in una sorta d'ossimoro dall'aggettivo «smorte» che reca in sé un cupo segnale di morte che contribuisce a suggerire immagini infernali e purgatoriali tutt'altro che infrequenti nell'iconografia del tempo, in concomitanza con il significato contestuale di quelle fiamme (fuochi fatui); compare poi un «raggio delle stelle... e de' pianeti», ma il raggio è « debil», le stelle « remote» e per di più - non senza ironia - quel « debil raggio» «rompea gli orrori tuoi sol quanto è duopo / a sentirli assai più». Tali termini sono abbastanza frequenti, come si vede, quasi a ribadire che la loro presenza è indispensabile nel contesto.
Ma l'idea della luce ritorna a conclusione del passo (e con essa una duplice antitesi: occaso/aurora, sonno/opre): la serena immagine dell'«aurora sbadigliante ancora», di garbato gusto arcadico ma qui essa pure soggetta ad un sospetto di ironia, non fa che accentuare per contrasto i notturni orrori: l'«aurora» è un altro tempo rispetto alla notte, letteralmente viene dopo la notte, ed è introdotta nel modo del congiuntivo «finché... li richiamasse»: anche quest'attesa di luce sancisce che la notte antica era dominio delle tenebre e delle fantasie funeste.
A confermare l'antitesi di fondo, l'immagine luminosa dell'aurora si associa a rasserenanti dati paesaggistici - «rivi» e «campi nascenti» - e, ancor più significativamente, ad espressioni che in crescendo indicano un attivo e produttivo operare dell'uomo: l'opre degli avi (canalizzazioni, dissodamenti) «onde poi grandi / furo i nipoti e le cittadi e i regni». Su questa affermazione di progresso (che appena pronunciata si presta però ad un ironico capovolgimento: a che ha portato questo progresso? sono poi in tutti i sensi «grandi» i nipoti? e prepara una più ampia contrapposizione) si chiude il passo.
Segnata da un'analoga ma capovolta antitesi si apre la descrizione della Notte moderna: qui tutto è tripudio e luce, ma non mancano segnali che indichino le tenebre:
 

  Ma ecco Amore, ecco la madre Venere, ecc.  


Ora sono i termini che indicano oscurità a venire introdotti per essere negati: la «notte» (minuscolo, ad indicare la dimensione temporale) vede il trionfo d'Amore, di Venere, dei Genj del gioco e del fasto che quasi magicamente irradiano» «nova luce» attorno a sé; «le inimiche tenebre fuggono riversate»; la Notte (personificata) è contrapposta ad una luminosità più forte del sole, ed è «stupefatta» come «l'eterno caos» (indistinto, oscuro) allo schiudersi della «luce». Un sistema di segnali, questo, organizzato sulla base di una somma di parallelismi e contrapposizioni, come si vede.
L'effetto luce è ottenuto, oltre che mediante le espressioni che la designano direttamente («s'irradia», «nova luce», «riverberar», «fulgide», «luce»), soprattutto analogicamente con una relazione di tipo metonimico (gli oggetti, la materia per l'effetto: sole, auree cornici, spegli, cristalli...) e grazie all'enumerazione caotica e scintillante col suo ritmo rapido (serie di sostantivi o di coppie sostantivo-aggettivo), la frequenza di liquide e il particolare timbro dato dalla predominanza di «i» ed «e» e forse grazie alla stessa perspicuità delle immagini tipica dello stile pariniano ma qui convergente a produrre un particolare effetto. Nel passo precedente, viceversa, dominavano un ritmo più lento (erano intere frasi ad essere coordinate dalle frequenti congiunzioni) e il timbro più cupo prodotto dalla frequenza di «u» ed «o» .
Assistiamo, in questa descrizione della notte moderna, ad un trionfo degli oggetti che ne ricorda altri precedenti e che a questo punto dell'opera è già di per sé altamente significativo: specchi, cristalli, ori, argenti, pietre preziose indicano un'opulenza che non è più motivata e legittimata da un contributo al vivere sociale, che addirittura si pone a tratti come negazione dell'umano, simbolo di un ozio e un'imbecillità che segnano l'irreversibile declino di un'intera classe sociale.
La contrapposizione, dunque, tra notte antica e notte moderna è fondata su una doppia antitesi luce/ombra: un tempo le tenebre popolate d'orrori e di fantasie funebri oscuravano ogni luce; ora la fastosa vita notturna della nobiltà sconfigge le tenebre, irradia il mondo di nuova luce. Ma proprio qui si rivela una nuova più ampia antitesi: le tenebre d'un tempo erano destinate quasi a tutelare il sonno ristoratore degli antichi operosi signori, in questo non diversi dai plebei (le tenebre cariche di significati negativi si oppongono a una luce simbolo di operosità); mentre la luce in qualche misura artificiale (innaturale) dei tempi presenti cela nel suo riverberare ozio e imbecillità; alla notte illuminata non si contrappone nessun giorno operoso. Ciò che ancora può, nell'ottica del Parini, caricarsi di significati positivi (uomini e fere che, dormendo come gli avi dormivano, vivranno un operoso giorno) è a sua volta celato in quelle tenebre della notte che, al presente, perdono ogni connotazione inquietante e sole possono dirsi naturali:
 

  Le inimiche tenebre
Fuggono riversate; e l'ali spandono
Sopra i covili, ove le fere e gli uomini
Da la fatica condannati dormono.
(NT vv. 44-47)
 


Il senso profondo del discorso pariniano si svela: «inimiche» nel contesto è ironico; tra le righe vibra lo sdegno pariniano per la condanna alla fatica cui sono soggetti fere ed uomini (plebei soprattutto, designati però come uomini tout court), i veri tutori del regno di natura.
Ecco dunque la vera antitesi, cui tutte le altre tendono: agli aristocratici, inetti, snaturati, si oppongono gli avi operosi d'un tempo, le fere e gli uomini di sempre. Il sistema espressivo pariniano nasce dal sovrapporsi di antitesi e parallelismi tutti allusivi e tutti finalizzati (notte antica / notte moderna; luce / tenebre; tenebre simbolo positivo / tenebre simbolo negativo; luce simbolo positivo / luce simbolo negativo; dormire degli avi - dormire dei plebei / vegliare dei nobili, etc.).
La «nova luce» che sconfigge le «inimiche tenebre» è poi un vero gioiello di ambiguità o meglio di polisemia. Tolta dal contesto, è metafora illuministica nella sua forma tipica; nel contesto, in primo luogo designa luce materiale che vanifica tenebre materiali, ma in secondo luogo, simbolicamente e ironicamente, designa la vittoria, nell'universo del giovin signore, del pregiudizio e dell'innaturalezza sulla ragione e sulla natura. Ma, ancora, per la forma stessa dell'immagine e per la carica polemica contro il capovolgimento di ragione e natura che il Parini tendeva a nascondere nei sottintesi del suo discorso, l'espressione non può non alludere, in cifra, a quell'insieme di valori in cui il Parini credeva e significare nuovamente la necessità che una «nova luce» di ragione sconfigga le « inimiche tenebre» del pregiudizio, dell'impostura e dell'ingiustizia. Con rara abilità il Parini gioca con i materiali metaforici della tradizione e dell'attualità
.

 

© 2009 - Luigi De Bellis