IL SITO DELLA LETTERATURA

 Autore Luigi De Bellis   
     

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IL SETTECENTO

Parini: Salubrità dell'aria


 

Su quest'ode pariniana proponiamo una pagina critica di Giuseppe Petronio. Osserviamo che la lettura di quest'ode da parte del Petronio si colloca all'interno di una interpretazione globale della poesia del Parini che tende a contrapporre abbastanza nettamente il momento "positivo" di impegno civile e sociale, corrispondente alla fase delle odi illuministiche e della prima redazione del Giorno, a quello "involutivo" delle odi più tarde e della correzione e continuazione del poemetto.

Con quest'ode il Parini fa un gran passo in avanti verso la conquista di una letteratura utile, ché la lirica è ora tutta civile, nasce da concreti interessi pubblici e da una visione larga di questi interessi: l'Arcadia, nel senso che davano a questa parola gli uomini della nuova generazione, è ormai veramente lontana.
L'ode è tutta costruita su un insistito contrasto: da una parte, le «beate» campagne del lago di Pusiano, dall'altra, la città avvelenata da marcite e navazze; da una parte l'aria salubre e la «beata gente» laboriosa e sana, dall'altra una folla ambiziosa o malata, rosa dalla propria avidità o vittima dell'avidità altrui.
La campagna così - il tema dell'Arcadia - ritorna anche in quest'ode, e vi appare ancora come antitesi ideale alla città. Ma, questa volta, non è rifugio per poeti oziosi o dimora di contadini mitici, sciolti da ogni impegno, visti in una luce nostalgica da età dell'oro: gli abitanti di quelle campagne felici sono, certo, «beata gente», vegeta, robusta, serena, cui il lavoro è non fatica o maledizione, ma gioia e salute. Ma, nello stesso tempo, essi sono visti e rappresentati con una vivacità realistica che ne fa uomini vivi, non manichini convenzionali, e tanto meno gentiluomini o gentildonne giocanti ai pastorelli e alle pastorelle d'Arcadia; l'Arcadia, cioè la convenzione accademica, è qui il limite continuamente affrontato e varcato, il pericolo continuamente insidiante e quasi sempre combattuto vittoriosamente.
Ecco, allora, i «villan vispi e sciolti / sparsi per li ricolti»; ecco «i baldanzosi fianchi / de le ardite villane; / e il bel volto giocondo / fra il bruno e il rubicondo»; ecco « le villanelle / a cui sì vivo e schietto / aere ondeggiar fa il petto»; ecco, meglio ancora, i «membri non mai stanchi / dietro al crescente pane», con un'audacia espressiva che tanto piacque al Carducci; ecco, cioè, una rappresentazione di salute e di forza che non è più convenzionale, ma morde nel reale e presuppone osservazione e senso della realtà, anche se di una realtà che tende sempre a trasfigurarsi, presentandosi come l'ideale di fronte a un'altra più trista realtà. E l'Arcadia, cioè la convenzione, si insinua di straforo solo in qualche verso, nella rappresentazione, così simile ad una della Vita rustica (vv. 49 sgg.), del poeta felice tra i campi e tra i suoi contadini:

 

  Qui, con la mente sgombra,
di pure linfe asterso,
sotto ad una fresc'ombra
celebrerò col verso ecc.
 


E inutile: se stesso poeta del villaggio il Parini non riesce mai a rappresentarsi senza cadere nel manierato: Parini sa vedere se stesso solo come il severo sacerdote-vate della Caduta o come l'amabile, insinuante, ironico precettore del Giorno.
Di fronte a quella sana operosa campagna, in contrasto con essa, è Milano, la Milano delle navazze stercorarie, delle marcite condotte fin sotto la città, degli animali abbandonati insepolti per le vie, dei rifiuti rovesciati sulle strade.
Ma il distacco dalla letteratura precedente e la novità dell'ode sono ancora in altro: nel fatto che la polemica è, questa volta, non astrattamente moralistica, e né meno, direi, astrattamente civile, ma sociale. La polemica contro il malcostume imperante e la satira di difetti o di vizi del proprio tempo sono cose vecchie quanto il mondo, e non c'era bisogno del Parini o della sua generazione per introdurle nella letteratura italiana. Ma il fatto è che questa volta la polemica è precisa, in uno sforzo attento di individuare responsabilità e cause: non denunzia generica, ma analisi di una situazione sociale e di un costume morale radicati in quella determinata situazione; il moralismo si muta così in polemica sociale, e l'ode è tutta concreta o quasi: un'ode della seconda metà del Settecento, a Milano, di quell'abate Parini, uomo nuovo, schieratosi con certi individuati gruppi intellettuali e sociali.
Le tristi condizioni di Milano sono riportate, perciò, non a una generica corruzione dell'uomo, a un peccaminoso allontanamento da una edenica età dell'oro, a una mancanza astratta di senso civico, ma a interessi precisi: a un certo punto (v. 25) il poeta inveisce contro colui che espose la sua città all'acqua e al fango delle marcite, e la mossa è schiettamente letteraria e convenzionale, una fra le aperture più trite dell'ode:
 

  Pèra colui che primo ecc.;  


ma subito dopo specifica:
 

  e per lucro ebbe a vile
la salute civile;
 


e poi, immediatamente, addita le tristi conseguenze di quella cupida avidità di denaro:
 

  Ma dipinti in viso
di mortali pallori
entro al mal nato riso
i languenti cultori:
 


il contrasto così tra i «languenti cultori del riso», immersi nelle acque, tinti in viso di «mortali pallori» e i lieti sereni coltivatori del «crescente pane», mentre si lega a contrasti di idee vivacissimi in quegli anni, trova la sua giustificazione e la sua forza polemica in quell'avidità di lucro che danna (come scriverà una volta nel Mattino) tanta gente alle risaie.
Così più avanti (vv. 67 sgg.) la corruzione dell'aria a Milano, che pur aveva avuto da natura «cielo e aria pura», è di nuovo riportata alla vanità, alla cupidigia, alla smania di lusso di una concreta classe sociale:
 

  Ma chi i bei doni or serba
fra il lusso e l'avarizia
e la stolta pigrizia?
 


E subito, con versi che anticipano scopertamente uno dei passi più polemici del Mattino (vv. 1708 sgg.), contrappone questa classe o casta superba alle misere turbe cittadine:
 

  E la comun salute
sacrificossi al pasto
d'ambiziose mute,
che poi con crudo fasto
calchin per l'ampie strade
il popolo che cade.
 


E anche più avanti, quando deplora l'inanità delle leggi, riporta la loro trasgressione non a un malcostume generico, ma, ancora una volta, a interessi precisi:
 

  Ma sol di sé pensiero
ha l'inerzia privata:
 


egoismo economico, preoccuparsi solo di sé e del proprio benessere, sfuggire ai propri doveri. È cioè una polemica che si inserisce in un moto vasto di denuncia e di critica: è Pietro Verri che scrive tutto un articolo sul «Caffè» a proposito della «spensieratezza nella privata economia», e invita i ricchi ad uso saggio e civico delle proprie ricchezze (ora in Il Caffè, a cura di S. Romagnoli, Milano 1960, pag. 228 sgg.); è il Beccaria che deplora 1'«ozio politico», cioè «quello che non contribuisce alla società né col travaglio né colla ricchezza; che acquista senza giammai perdere, che, venerato dal volgo con istupida ammirazione, è risguardato dal saggio con isdegnosa compassione per quelli che ne sono le vittime» (Dei delitti e delle pene, XXXIV)
.

 

© 2009 - Luigi De Bellis