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Nacque a Pescara da
famiglia medio-borghese nel 1863, ma a soli 18 anni, dopo
aver conseguito la licenza liceale presso il collegio
Cicognini e già noto per la pubblicazione di una prima
raccolta di versi (“Primo vere”), si trasferì a
Roma e iniziò la sua turbinosa avventura esistenziale
fatta di amori, di duelli, ma anche di intense letture e
di proficua attività giornalistica e letteraria. Compì
numerosi viaggi, fra cui una crociera nell’Adriatico
abbastanza avventurosa (1887) e un viaggio in Grecia
(1895) con l’amico Edoardo Scarfoglio (fondatore de “Il
Mattino” di Napoli e marito della celebre scrittrice
verista Matilde Serao). Nel 1897, nel collegio di Ortona a
mare, venne eletto deputato nelle liste della destra, ma
non esitò a passare alla sinistra per protesta contro le
proposte restrittive della libertà fatte dal Pelloux. Nel
1898 si trasferì in Toscana, ove visse per circa un
decennio nella villa della Capponcina a Settignano, nei
pressi di Firenze, quasi travolto da un’altra intensa
passione amorosa con la sua amante di turno, la famosa
attrice Eleonora Duse. Non potendo far fronte ai debiti,
si rifugiò in Francia, ove visse dal 1910 al 1915 ad
Archanson, presso Bordeaux, e scrisse drammi in francese.
Scoppiata la prima guerra mondiale, tornò in Italia e si
rivelò fra i più accesi interventisti. Partecipò alla
guerra mettendosi in evidenza con personali atti di
coraggio clamorosi (“Beffa di Buccari”, volo su
Vienna) e infine occupando militarmente Fiume - contro
la volontà dello stesso governo italiano che fu
costretto ad intervenire anche militarmente - per
protestare contro la Conferenza di pace che non aveva
concesso l’annessione della città all’Italia. Nel 1921 si
ritirò a Gardone, sul lago di Garda, nella straordinaria
villa di Cargnacco, che egli trasformò in un vero e
proprio museo delle sue gesta e chiamò il “Vittoriale
degli Italiani”. La sua adesione al fascismo fu forse
più tiepida di quanto volle far credere il regime, che
seppe ben utilizzare la retorica dell’eroe presente
nell'opera dannunziana. Morì nel 1938.
La poetica
e l'arte
Da queste sia pure
scarne notizie biografiche, appare già abbastanza chiara
la personalità del D’Annunzio, “superuomo” nella
vita come nell’arte, che tenta di fare della sua reale
esistenza la sua più bella opera d’arte.
Egli stesso, nell’ “Avvertenza”
a “Il venturiero senza ventura” (dalle “Faville
del maglio”), datata 14 luglio 1924, confessò: «Tutta
la mia vita è innamoratamente congiunta alla mia arte,
come apparve e appare nella mia meditazione occulta e
nella mia azione palese». In effetti egli sostituì il
senso estetico al senso morale e visse intensamente al di
fuori di ogni regola del comune comportamento civile: “Habere
non haberi” (“possedere, non essere
posseduto”) e “Memento audere semper” (“ricordati
di osare sempre”, da cui la sigla “M.A.S.” che
denominò i motoscafi di attacco impiegati nella “Beffa
di Buccari”) furono i motti a lui più cari.
Nell’arte, però, dovette
faticosamente raggiungere la sua totale autenticità e
singolarità, perché, dotato da madre natura di una forte
capacità assimilatrice e di un inesauribile desiderio di
conoscenze letterarie, per lungo tempo non riuscì a
sottrarsi alle suggestioni delle esperienze altrui e fece
propri il classicismo del Carducci come il realismo del
Verga e dello Zola, l’estetismo dei parnassiani come il
simbolismo dei decadenti. A tal proposito, in un articolo
apparso sul quotidiano “Il Mattino” di
Napoli, Guido Cattaneo nota: «D’Annunzio per tutta la
vita era sempre riuscito ad essere presente con una nota
spiccata di originalità nel mondo della letteratura
avvertendo prontamente quello che era nell’aria. Esordisce
come poeta a sedici anni con trenta “odi barbare” sulla
scia di Carducci; dopo l’apparizione di “Vita dei campi”
di Verga scrive le novelle di “Terra vergine”, ma più
tardi è parnassiano nello “Intermezzo” e nelle “Elegie
romane”, preraffaellita
nell’ “Isottèo” e nella “Chimera”. Nel “Poema paradisiaco”
mima Verlaine e Maeterlinck. Gli scrittori veristi si
orientano verso miraggi decadenti e D’Annunzio pubblica
“Il piacere”. Sono alla moda i narratori russi e lui
scrive “Giovanni Episcopo” e da Dostoevskij passa a
Tolstoj nell’ “Innocente”».
Le caratteristiche
salienti dell’arte dannunziana sono il
soggettivismo esasperato,
cioè la tendenza ad espandere il proprio Io fino a
contenere in sé l’intero universo; il conseguente
sensualismo, che va inteso
non tanto in senso erotico ma piuttosto come estrema
dilatazione di tutti i propri sensi per appropriarsi della
Natura e goderne con sottile voluttà; ed infine l’estetismo,
cioè il culto del bello e la tendenza ad esaltare la
ricercatezza formale. Caratteristiche, queste, sempre
vistosamente affermate nella vasta produzione dannunziana,
ma affatto estranee - o, per lo meno, rattenute - in
quelle opere che sgorgarono più spontaneamente dall’animo
del Poeta nei rari momenti di abbandono in cui, deposta
ogni maschera, affiora l’uomo con le sue pene e le sue
angosce.
U n
aspetto notevole della poesia del D’Annunzio - per molto
tempo trascurato e solo di recente messo adeguatamente in
luce da un attento e sensibile critico letterario -, anche
perché rappresenta una costante in tutte le opere del
pescarese, è il profondo attaccamento al
mondo pastorale e contadino
della sua terra, del quale sono rievocati usi e costumi
con sincera partecipazione. Raffaele Matarazzo, cui va il
merito di questa puntualizzazione (“Il mondo pastorale
e contadino nell' opera di D’Annunzio”, Napoli, Guida
Editore, 1989), ha individuato in quasi tutte le opere,
sia di poesia che di prosa e di teatro, scene di vita
paesana tratte dalla memoria storica del Poeta e descritte
realisticamente sia pure filtrate dalla sua memoria
culturale. A proposito de “Il trionfo della morte”,
così scrive il Matarazzo:
«Un’umanità dolente e
miserevole affolla il racconto del D’Annunzio, rifluendovi
dalle sue prime esperienze narrative, a ulteriore prova
che costante in lui è stata l'ispirazione che quel mondo
atavico esercitava su di lui, sulla sua immaginazione, di
figlio di quella terra... Certo, D’Annunzio non era un
contadino e in lui, uomo estremamente colto, il fascino di
tutto quel cerimoniale si tramutava in qualcosa di
diverso: le donne che cantavano in duplice fila, reggendo
su le braccia i grandi vasi dipinti “davano immagine
d'una di quelle teorie votive che si svolgevano
armoniosamente in basso rilievo su i fregi dei templi o
intorno ai sarcofaghi”.
Diremo allora che la
vita dei contadini cui si ispira il D’Annunzio sia meno
“vera” e meno fedelmente ritratta sol perché, poi, suscita
in lui queste immagini mediate da un'altra cultura?
Importante è che le immagini successive non distruggano la
verità di quelle originarie. Caso mai, è da constatare
quanto profonde siano le emozioni che quella vita suscita
nel narratore da propiziargli tutta quella ricchezza di
rievocazioni e di richiami culturali!».
Le opere
Vastissima la sua
produzione letteraria che va dalle raccolte di versi (“d’amore
e di gloria”), alle opere in prosa (novelle e
romanzi), alle tragedie.
Ci limitiamo a farne un
elenco:
Poesia:
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1875
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Primo vere
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1882
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Canto novo
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1883
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Intermezzo di rime
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1886
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Isottéo
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1887
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Elegie romane
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1888
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Chimera
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1891
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Poema paradisiaco
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1892
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Odi navali
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L’opera maggiore è
costituita dalle “Laudi del
cielo, del mare, della terra e degli eroi”,
pubblicata in più occasioni parzialmente e in parte anche
postuma. Si compone di 5 libri:
- Maia |
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(poema autobiografico; 1903) |
- Elettra |
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(esalta eroi, città, artisti; 1903) |
- Alcyone |
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(capolavoro; 1903) |
- Merope |
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(sono 10 “Canzoni delle gesta d’oltre mare”;
1912) |
- Asterope |
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(postumo). |
Prosa: |
1882 |
Terra vergine |
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1886 |
Novelle della Pescara |
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1889 |
Il
piacere |
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1891 |
Giovanni Episcopo |
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1892 |
L’Innocente |
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1894 |
Trionfo della morte |
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1895 |
Le
vergini delle rocce |
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1898 |
Il
fuoco |
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1910 |
Forse che sì, forse che no |
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1913 |
La
Leda senza cigno |
Tragedie: |
1897 |
Sogno di un mattino di primavera |
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1899 |
Sogno di un tramonto di autunno |
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1902 |
Francesca da Rimini |
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1904 |
La
figlia di Jorio |
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1905 |
La
fiaccola sotto il moggio |
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1908 |
La
nave |
ecc. ecc.
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|
I l
1916, a seguito di una ferita ad un occhio riportata in
guerra, il D’Annunzio fu costretto a vivere per alcun
tempo al buio. Fu certamente il periodo più triste e
sconsolato della sua vita ed egli, deposta la maschera del
superuomo e del tribuno, si lasciò andare a sincere
confessioni, a liberi sfoghi dell’animo. Scrisse per
l’occasione una prosa, il “Notturno”,
in cui appare «un senso cupo del finire delle cose, la
presenza, quasi, della morte» (Guglielmino). Al “Notturno”
fecero seguito altre pagine di autentica confessione che
il D’Annunzio andava pubblicando sul “Corriere della
Sera” e che poi raccolse e pubblicò, nel 1924, sotto
il titolo di “Le Faville del
maglio”.
Queste
prose, che costituiscono la cosiddetta “fase notturna”
dell’opera dannunziana, sono oggi considerate dalla
critica il vero messaggio artistico del D’Annunzio.
Svolgimento dell’arte dannunziana
E' pressoché
impossibile trascorrere, sia pure rapidamente, le
innumerevoli opere di poesia, di narrativa e di teatro del
D’Annunzio e, d’altra parte, risulterebbe in buona misura
lavoro inutile, dal momento che molte opere non hanno
origine da un’autentica necessità spirituale, ma sono il
frutto di un vieto esibizionismo o, peggio, di un
desiderio di guadagno. Con ciò non si vuole minimamente
intaccare il pregio dell’arte dannunziana, di quella
espressa nei momenti più felici dell’ispirazione. Ci
interesseremo, quindi, solo di alcune opere, quelle
comunemente considerate dai critici le più valide.
Nella piena maturità
artistica il D’Annunzio compose i versi delle “Laudi
del cielo, del mare, della terra e degli eroi”,
suddivisi in cinque libri cui diede i nomi delle Pleiadi:
MAIA, ELETTRA, ALCYONE, MEROPE e ASTEROPE. I primi tre
libri rappresentano il meglio della produzione
dannunziana, ma ad “Alcyone” è comunemente
attribuito il titolo di “capolavoro”.
MAIA, che ha per sottotitolo “Laus vitae”
(lode della vita), è un lungo poema di 8.400 versi e
rappresenta l’annuncio di una nuova
morale destinata ai
superuomini. La morale consiste non solo nel
diritto del superuomo di far valere la propria “volontà
di potenza” sulla massa bruta degli altri uomini
considerati “schiavi”, ma anche e soprattutto nel
suo diritto di esprimere compiutamente, fino in fondo, la
propria capacità di godere la vita al di là di ogni
restrizione o rinuncia imposta dalla morale comune e dalle
convenienze sociali. Già nel primo canto, nell’ “Annunzio”,
il Poeta canta il ritorno sulla terra del dio pagano Pan,
simbolo della pienezza della vita in senso cosmico: sarà
questo dio a dare nuova linfa al desiderio di voluttà
dell’uomo eletto. Successivamente il Poeta racconta un suo
favoloso viaggio attraverso la Grecia antica, culla della
civiltà classica pagana, poi attraverso la Roma antica e
rinascimentale, simbolo della forza fisica e spirituale, e
infine nel Deserto, ove è lecito abbandonarsi ai più
sfrenati istinti e dove incontra la Libertà e la Felicità.
ELETTRA comprende canti che potremmo definire “patriottici”
in quanto fanno l’esaltazione degli eroi (“Per i
marinai d’Italia morti in Cina”, “A uno dei Mille”,
“La notte di Caprera”, ecc.), di artisti (“A
Dante”, “Per la morte di Giuseppe Verdi”, “Nel
primo centenario della nascita di Vincenzo Bellini”,
ecc.) e di città (Ferrara, Pisa, Ravenna, Rimini, Urbino,
Padova, Lucca, ecc.). Appare chiaro che il Poeta
trasferisce il mito del superuomo nella concezione della
nazione: l’Italia diviene per lui la “supernazione”
destinata a dominare su tutte le altre: nascono il “nazionalismo”
e l’ “imperialismo” dannunziani che avranno non
poca responsabilità nella propaganda di miti velleitari
che porteranno alla prima guerra mondiale ed all’avvento
del fascismo.
ALCYONE è considerata il capolavoro del D’Annunzio.
Comprende, infatti, le liriche più famose, come “La
sera fiesolana”, “La pioggia nel pineto”,
“Le stirpi canore”, i “Madrigali dell’estate”,
i “Sogni di terre lontane” (con la celebre lirica “I
pastori”) e termina con “Il commiato” dalla
terra di Toscana. «E' una raccolta di liriche che si
compongono insieme come un vasto e continuo
poema solare; è il poema
dell’Estate, sentita come un’entità divina e un nuovo mito
sorto dall’animo del poeta, ritornato a un'elementare
comunione con la natura...E
nell’ “Alcyone” esprime questa arcana consonanza, questa
comunione dell’anima umana con l’anima delle cose; si
immedesima col pulsare
innumerevole della vita universa, coi mari, coi fiumi, con
l’ardore della calura, con la pioggia, con gli alberi.»
(Pazzaglia):
Piove su le tue
ciglia nere
sì che par tu pianga
ma di piacere; non bianca
ma quasi fatta virente,
par da scorza tu esca.
E tutta la via è in noi fresca
aulente,
il cuor nel petto è come pèsca
intatta,
tra le pàlpebre gli occhi
son come polle tra l'erbe,
i denti negli alvéoli
son come mandorle acerbe.
E andiam di fratta in fratta,
or congiunti or disciolti
(e il verde vigor rude
ci allaccia i mallèoli
|
c'intrica i ginocchi)
chi sa dove, chi sa dove!
E piove su i nostri volti
silvani,
piove su le nostre mani
ignude,
su i nostri vestimenti
leggieri,
su i freschi pensieri
che l'anima schiude
novella,
su la favola bella
che ieri
m'illuse, che oggi t'illude,
o Ermione.
(da “La
pioggia nel pineto”)
|
Nell’ “Alcyone”
il mito del superuomo
sembra purificarsi delle passioni più torbide, della
consueta ed esasperata lussuria, per far posto ad un più
naturale e gioioso sensualismo: tutti i
sensi sono impegnati per
realizzare una sorta di magica simbiosi fra l’uomo e la
natura.
Se
IL PIACERE fu il romanzo con cui il D’Annunzio
definì la figura dell’ “eroe” decadente, cioè del “superuomo”
che si pone al di fuori e al di sopra dei comuni mortali
restando poi vittima della sua presunzione (cfr. pag.
263), L’INNOCENTE fu il
romanzo che lanciò in Europa la fama dell’Autore dopo la
traduzione che ne fu fatta in Francia col titolo “L’intrus”.
Il protagonista, Tullio
Hermil, ha condotto una vita dissoluta, sempre e soltanto
dedicandosi al soddisfacimento dell’inesauribile sete di
piacere (specie quello della carne). La moglie Giuliana,
continuamente e gravemente offesa ed umiliata, non si è
mai ribellata ed ha accettato di soffrire in silenzio per
amore delle due figliolette e della suocera, una pia
donna. Quando Tullio finalmente si ravvede e decide di
riconquistare l’amore e la stima della moglie, scopre che
Giuliana, per aver ceduto ad un’unica tentazione di cui è
sinceramente pentita, è incinta: metterà al mondo un
bellissimo maschietto accolto con grande gioia dai
familiari e dai parenti e destinato a diventare l’erede
del nome degli Hermil. E' però un intruso che sconvolge la
vita dei coniugi e costituisce un insormontabile ostacolo
alla ricostruzione del ménage familiare. Giuliana vorrebbe
morire, ma Tullio decide di sopprimere l’intruso innocente
e mette a punto con fredda determinazione e lucidità, al
riparo da ogni sospetto, un piano preciso che attua
durante la novena di Natale. Una sera, mentre tutta la
famiglia è raccolta nella cappella di casa per le
preghiere di rito, egli si astiene dalla funzione
religiosa adducendo il pretesto di non voler lasciare
solo il bambino che dorme nella sua culla: in effetti
lo espone fuori dalla finestra al rigido freddo invernale,
facendolo ammalare di polmonite che lo condurrà a morte in
pochi giorni. Il fantasma dell’innocente graverà per
sempre sul rapporto della coppia.
L’Autore fa narrare la
vicenda, in prima persona, dallo stesso protagonista, il
quale, prima di accingersi al racconto, fa questa
premessa, assai significativa per capire la “morale”
del superuomo: «Andare davanti al giudice, dirgli: “Ho
commesso un delitto. Quella povera creatura non sarebbe
morta se io non l’avessi uccisa. Io Tullio Hermil, io
stesso l’ho uccisa. Ho premeditato l’assassinio, nella mia
casa. L’ho compiuto con una perfetta lucidità di
conscienza, esattamente, nella massima sicurezza. Poi ho
seguitato a vivere col mio segreto nella mia casa, un anno
intero, fino ad oggi. Oggi è l’anniversario. Eccomi nelle
vostre mani. Ascoltatemi. Giudicatemi”. Posso andare
avanti al giudice, posso parlargli così? Non posso né
voglio. La giustizia degli uomini non mi tocca. nessun
tribunale della terra saprebbe giudicarmi. Eppure bisogna
che io mi accusi, che io mi confessi. Bisogna che io
riveli il mio segreto a qualcuno. A CHI?»
Il teatro dannunziano,
secondo il critico Luigi Russo, : «poche volte è teatro
di poesia ma è quasi sempre di profezia, di educazione e
di corruzione, di flagellazione lussuriosa e di
esortazione politica».
Dalle tragedie del
D’Annunzio ci limitiamo a ricordare solo quella
meritatamente più celebrata, cioè LA
FIGLIA DI JORIO.
La vicenda si svolge in
Abruzzo. Il pastore Aligi si è sposato e dinanzi alla sua
casa si fanno, secondo l’usanza, grandi festeggiamenti,
che si protaggono fino all’indomani. Durante la prima
notte di nozze Aligi è preso da un sonno profondo,
funestato da strani sogni, e non si accosta neppure alla
sposa, che resta illibata. All’alba poi avviene un fatto
strano. Nella casa di Aligi irrompe Mila, la figlia del
serparo Jorio, donna perduta e con taccia di strega, che
implora protezione perché inseguita da una folla di
mietitori ubriachi che vogliono infierire su di lei. I
familiari di Aligi incitano il giovane a scacciare la
perversa, ma il pastore vede accanto alla donna l’immagine
di un angelo e le offre l’aiuto richiesto, ammansendo i
violenti con l’aiuto di un crocifisso.
Quando le acque si sono
calmate, Mila lascia il rifugio e torna ai suoi boschi, ma
Aligi, che ne è rimasto affascinato, la segue,
abbandonando la sposa. I due giovani vivono insieme in una
caverna, ma in modo casto.
Aligi progetta di andare
in pellegrinaggio a Roma per fare annullare dal Papa il
suo matrimonio non consumato, al fine di congiungersi con
Mila dinanzi a Dio, e intanto scolpisce un angelo di legno
con le fattezze di quello che aveva visto nella sua casa
accanto alla giovane perseguitata. Sopraggiunge però il
padre di Aligi, Lazzaro, che vuol far sua Mila e fa legare
il figlio che si oppone a quella violenza. Ma Aligi,
liberato dalla sorella Ornella, raggiunge il padre ancora
invasato dalla torbida passione per Mila e, in un impeto
di follia, l’uccide con un'ascia. Viene quindi condannato
ad un atroce supplizio, ma prima che la sentenza sia messa
in atto, accorre Mila che si dichiara l’unica
responsabile del delitto commesso da Aligi sotto
l’influenza della sua magia. Ella approfitta del fatto che
tutti la considerano una strega e, in nome del puro amore
che la lega al giovane pastore, affronta, innocente, la
morte sul rogo.
Il
NOTTURNO è una prosa lirica che il D’Annunzio
scrisse durante i giorni della sua cecità (nel 1816,
ferito ad un occhio durante un atterraggio di fortuna,
mentre partecipava da volontario alla grande guerra, fu
costretto ad una lunga degenza in piena oscurità). Egli
stesso ci racconta, proprio all’inizio dell’opera, come
faceva per scrivere queste pagine: «Ho gli occhi
bendati. Sto supino nel letto, col torso immobile, col
capo riverso, un poco più basso dei piedi. Sollevo
leggermente le ginocchia per dare inclinazione alla
tavoletta che v’è posata. Scrivo sopra una stretta lista
di carta che contiene una riga. Ho tra le dita un lapis
scorrevole. Il pollice e il medio della mano destra,
poggiati su gli orli della lista, la fanno scorrere via
via che la parola è scritta. Sento con l’ultima falange
del mignolo destro l’orlo di sotto e me ne servo come di
una guida per conservare la dirittura». In queste
pagine il Poeta rievoca sensazioni e stati d’animo
legati ad episodi del suo passato, che è ormai tutto il
presente: un presente che non ha alcuna datazione storica,
ma rappresenta il mistero della vita universale in cui si
effonde e confonde l’animo del Poeta. Leggiamo queste due
pagine molto significative:
«Chi ha rappresentato
i ciechi come veggenti rivolti verso il futuro? come
rivelatori dell’avvenire?
Quale Tiresia metteva
la sua bocca d’indovino nel sangue dell’ariete nero
sgozzato sopra la fossa, tale da più notti io bevo
il mio sacrificio; e non vedo il futuro, né vivo nel
presente.
Ma solo il passato
esiste, solo il passato è reale come la benda che mi
fascia, è palpabile come il mio corpo in croce.
Sento il fiato e il
calore delle mie visioni.
Nel mio occhio
piagato si rifucina tutta la materia della mia vita,
tutta la somma della mia conoscenza. Esso è abitato
da un fuoco evocatore, continuamente in travaglio.
Chi si accosta al mio
letto è men vivo del trapassato che mi fissa col
volto di bragia, come sorgendo da un avello rovente
dell’Inferno».
«Come il rapimento di una melodia che sorge
improvvisa da un’orchestra profonda; come la
rivelazione d’un verso che sveglia il suono segreto
dell’anima; come il messaggio del vento che è la
rapidità dell’infinito in cammino; con uno spirito
senza riva, con un corpo senza forma, con un gaudio
che sembra terrore, io sento l’idealità del mondo».
|
Ed ecco alcuni esempi di
come ogni attimo di sofferenza nel letto dell’ospedale (e
sono infiniti gli attimi in un letto d’ospedale!) si
trasformi in un ricordo o, meglio, in una sensazione
scavata dal profondo dell’inconscio, dove la memoria l’ha
piantata, segreto messaggio di quel filo misterioso che
unisce la vita della singola creatura alla vita del cosmo:
«Oggi
non ho più nell’occhio il giacinto cupo. Oggi ho
nell’occhio non so che fiore villoso, tra rossigno
e gialligno, simile all'orecchio di un
cuccioletto».
«Ho
nell’occhio quella creta cocente che s’abbevera
sotto il rovescio d’acqua. Ho nell’occhio quella
creta gialla che abbaglia laggiù in quel greto
deserto della Versilia.
Sento
il succhio della sua arsura sotto lo scroscio del
nembo».
«Ecco,
ho nell’occhio il fanciullo etrusco di bronzo, che
tocca la terra con la mano destra.
E’
d’un rossore cupo, come escito dalla fornace,
ancor roventa.
Non si
rialza mai».
«La
lacrimazione dell’occhio infiammato mi cola alla
commessura delle labbra. L’amaro si mescola al
sapore metallico.Penso ai pescatori della Pescara
che partono con le belle paranze dipinte, prima
dell’alba, nel vento di maestro, e hanno il gusto
del sale in bocca».
«Una rondine grida disperatamente sopra un’armonia
cupa di cannone e di campana.
E’ verso sera.
Il mio carnefice notturno è dietro la porta».
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La fortuna
Benedetto Croce si interessò più volte all’arte del
D’Annunzio, ma in modo ampio e integrale solo in due suoi
saggi, rispettivamente del 1903 (“Gabriele D’Annunzio”)
e del 1935 (“L’ultimo D’Annunzio”).
Nel primo saggio il
critico cerca di mettere in evidenza tutte le false pose
esibizionistiche del D’Annunzio (il falso buono, il falso
eroe, il falso mistico, il falso profeta) per concludere,
però, che al di là del suo “mutare apparente”
si può scoprire un “persistere reale”, che
consentirebbe di giudicare il poeta pescarese un geniale “dilettante
di sensazioni”, privo di qualsiasi idealità, ma
tuttavia capace a tratti di esprimere qualche accento di
poesia vigorosa. Nel secondo saggio il Croce negherà al
D’Annunzio la dimensione di poeta in quanto privo di
umanità e incapace di far sentire nelle sue opere alcuna “risonanza
con la vita del tutto, con la vita del cosmo”.
Sempre agli inizi del
secolo, nel 1909, in posizione diametralmente opposta al
Croce si colloca il Borgese, che non solo attribuisce al
D’Annunzio un intimo travaglio spirituale per la presenza
in lui di profondi quanto contraddittori ideali, ma
definisce la raccolta “Maia” (il primo libro delle
“Laudi del cielo, del mare, della terra e degli eroi”,
anche se fu scritto dopo “Elettra” e dopo “Alcyone”)
una sorta di “Divina Commedia” dei tempi
moderni.
La critica successiva ha
messo in luce l’esasperazione, l’esagerazione di queste
due posizioni e (al di là di ogni remora di natura
ideologica, determinata soprattutto dalla reale o supposta
collusione del Poeta con il fascismo) gli ha riconosciuto
una validità artistica niente affatto secondaria, anche se
limitata ad alcune opere (“Canto novo”, “Alcyone”,
“Notturno”), nell’ambito della spiritualità
decadente italiana, fino a considerarlo un precursore
degli ermetici e a giudicare la sua prosa - come fa il De
Robertis - l’ «acquisto più grande alla storia della
prosa moderna».
Di recente Raffaele
Matarazzo ha dimostrato che anche nelle opere meno
ispirate è possibile rintracciare squarci di profonda
umanità nelle frequenti rievocazioni di usi e costumi del
mondo contadino e pastorale della terra di Pescara. |