Parliamo di |
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Autori
del Novecento italiano |
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Guglielmino Grosser |
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Fine
secolo ed età giolittiana |
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Negli ultimi decenni dell'Ottocento nel
contesto europeo si verifica una serie di trasformazioni
dell'assetto economico-sociale, delle quali partecipa
naturalmente anche l'Italia. Un dato fondamentale è il
passaggio dal cosiddetto capitalismo concorrenziale al
capitalismo monopolistico o oligopolistico, che comporta
un processo di cencentrazione delle strutture produttive,
di un determinato settore e quindi il costituirsi di
gruppi di pressione e di interessi che innescano
un'intensa competizione tra gli stati per la conquista sia
di materie prime sia di nuovi mercati. Da queste solide
motivazioni economiche nascono miti di supremazia
nazionale, di conquista (e quindi la teorizzazione dello
"Stato forte"), di "missione dell'uomo, branco", di
violenza e di avventura. Dall'idea di nazione, che nella
prima metà dell'Ottocento era stata intesa come legittima
affermazione della propria identità nazionale, si passa
ora al nazional-imperialismo e al colonialismo, al
disprezzo dell'egualitarismo democratico, all'esaltazione
della grande personalità al vagheggiamento dello Stato
forte. In questa complessa trasformazione della società
europea si intrecciano condizionamenti economici e
ideologie, si influenzano vîcendevolmente miti letterari e
comportamenti degli individui e dei gruppi.
In Italia negli ultimi decenni dell'Ottocento la
costruzione di uno Stato unitario pone problemi complessi:
la repressione dei malcontento meridionale sfociato nel
banditismo; il pareggio del bilancio raggiunto con una
tassazione spesso esosa; l'organizzazione scolastica e
l'unificazione linguistica; l'avanzare del "quarto stato"
che si esprime ora in jacqueries e disperate proteste ora
nelle prime organizzazioni mutualistiche e socialiste;
l'inserimento del nuovo Stato nel gioco della politica
europea. A confronto con le speranze e le idealità
risorgimentali la realtà nazionale di fine Ottocento
appare di una grigia mediocrità, la vita parlamentare
immiserita nei giochi trasformistici. Da ciò sorgono
molteplici atteggiamenti variamente legati però fra di
loro: la cosiddetta delusione risorgimentale (già presente
in Carducci e in Verga); il disprezzo per i princìpi e la
pratica democratico-parlamentare; il vagheggiamento di uno
Stato forte (Fogazzaro e D'Annunzio se ne faranno
banditori); l'esaltazione delle grandi personalità e il
conseguente disprezzo per la "plebe". Siamo di fronte a
una revisione di fondo della cultura precedente, dei
princìpi - in sintesi, il positivismo - che nel corso del
secolo avevano ispirato l'ascesa della borghesia. Questa
revisione o meglio questa crisi è d'altra parte
riscontrabile in tutta la cultura europea. Le certezze
positivistiche, la fiducia nella scienza liberatrice
dall'ignoranza, dalla malattia, dalla miseria, l'assoluta
validità dei metodo scientifico, fa convinzione che il
progresso sia inarrestabile ora vengono contestate; e il
pensiero filosofico e scientifico sottolinea la relatività
della conoscenza scicltifíca (Einsteìn), rivela
l'incidenza, nei cemportamenti dei singoli e delle
collettività, di componenti oscure e di pulsioni che
sfuggono alla consapevolezza (Freud), e tende alla
demistificazione dei valori fondati sul progresso
scientista e sull'etica borghese che ora vengono
considerati falsi valori (Nietzsche). Questo orientamento
fondamentalmente razionalistico percorrerà a lungo
l'Europa generando inquietudini e ricerche, inciderà
profondamente nelle manifestazioni artistiche sia, per le
tematiche sia per le tecniche, e costituisce per così dire
una "cifra" dell'arte novecentesca.
In Italia questo clima novecentesco è ben evidente nel
quindicennio giolittiano, nel corso del quale prende avvio
un processo di intensa industrializzazione che comporta
una serie di problemi: si accentua il divario fra Nord e
Sud; si intensifica lo scontro sociale per il costituirsi
di organizzazioni politiche di operai e braccianti; si
diffondono i miti della competitività, interna e
internazionale, del nazional-imperialismo, della conquista
e dello Stato forte. Lucidamente consapevole del nuovo
clima, Giolitti tenta un coraggioso disegno politico:
quello di integrare nell'anemico stato liberale italiano
le nascenti forze operaie, di realizzare una
conciliazione, un blocco, tra le forze socialiste e il
liberalismo avanzato. Ma questo disegno, che nei primi
tempi sembrava destinato al successo, fallisce, in quanto
egli si trova a dover combattere con un'opposizione di
destra e con una di sinistra. A destra le esaltazioni
nazionalistiche, la teorizzazione dello Stato forte, la
polemica contro una politica "pacifista" e imbelle
assumono una sempre più virulenta consistenza. Si
distinguono in queste posizioni - collegate anche ai
desiderio di fare tabula rasa dei valori dei passato, a
un'inquieta disponibilità ai "nuovo" - le riviste
fiorentine e i futuristi: su «Hermes», sul «Leonardo», sul
«Regno», nelle serate futuriste, folti gruppi di
intellettuali esaltano l'avventura, il rischio, la
missione africana dell'Italia, contaminando la dannunziana
lezione di una vita d'eccezione col torbido esplodere di
posizioni irrazionalistiche e con gli interessi
espansionistici della grande industria. Da sinistra
Giolitti viene attaccato come gestore dello Stato
"borghese", e la polemica trae alimento dall'affermarsi,
in campo socialista, di una corrente massimalista e di una
mitologia della violenza rivoluzionaria che trovano
alimento nella ferrea logica del processo di
industrializzazione ed espressione esemplare negli scritti
di George Sorel, che proprio in quegli anni si diffondono
in Italia.
Con un'abile politica pendolare Giolitti riesce a tenersi
in equilibrio tra le due opposizioni: ora combatte il
potere delle concentrazioni bancarie, ora fa concessioni
agli interessi industriali e alle mitologie
nazionalistiche con l'impresa di Libia, ora con le leggi
di tutela del lavoro e con la riforma elettorale realizza
fondamentali aspirazioni socialiste. Ma le lotte per
l'intervento e il prevalere - in dispregio della volontà
del parlamento - delle forze nazionalistiche, del mito
della guerra come "sola igiene del mondo", degli interessi
della grande industria e degli intrighi della monarchia
portano l'Italia nella prima guerra mondiale e pongono
fine all'egomonia di Giolitti.
Prima di passare in rassegna la fisionomia letteraria di
questa età, sarà utile soffermarsi sulle caratteristiche
che ha assunto in questo periodo il "mercato delle
lettere". Molteplici fattori economici, sociali, culturali
e ideologici determinano in questo periodo un allargamento
del pubblico dei lettori, che via via comincia ad
includere anche i ceti subalterni. Si tratta di fattori
che interagiscono fra di loro: la costruzione dello Stato
unitario e l'unificazione amministrativa comportano la
diffusione di una burocrazia e l'adozione di una lingua
nazionale, ma per diffonderla bisogna lottare contro
l'analfabetismo e quindi avviare un processo di larga
scolarizzazione. Sono processi lenti, specie per quanto
riguarda le classi subalterne, ma che già nell'età
gîolittiana danno frutti. Si aggiunga a questo - ma qui il
discorso riguarda gli strati borghesi - l'influenza che
esercita D'Annunzio contaminando la letteratura con la
mondanità, intuendo che il giornalismo può essere un
veicolo per accostare il lettore alla letteratura e che il
romanzo è il genere più adatto all'allargamento del
pubblico potenziale. Si intreccia con questi fattori -
causa ed effetto insieme l'industria editoriale che
sollecita e accontenta insieme i bisogni di un pubblico
che lentamente ma costantemente si allarga: te case
editrici Sonzogno e Treves con la loro produzione
(popolare e divulgativa quella di Sonzogno, più borghese e
rivolta alla narrativa contemporanea quella di Treves)
testimoniano che in età giolittiana si può già parlare di
una produzione di consumo. di una letteratura di massa.
Passando ora agli aspetti specificamente letterari, la
profonda crisi epocale di cui abbiamo parlato all'inizio
dà luogo a quella fase dell'arte e della cultura europea
che viene definita unitariamente decadentismo. ma che
presenta una gamma assai variegata di soluzioni in
rapporto alle singole aree nazionali e ai singoli autori.
Sono certamente comuni a tanti artisti decadenti un cupo
senso di stanchezza, una lucida consapevolezza di
estraneità alla vita normale, di "inettitudine",
un'insuperabile sfiducia nell'agire umano, quasi
un'ebbrezza di rovina, dovuta alla coscienza di essere
degli epigoni, la voce di un'età che vive il suo tramonto
(era stato Verlaine il primo a paragonarsi, in un verso
che ora diventa un emblema, all'impero romano sul finire
della sua decadenza). Questa coscienza di epigoni e questa
predilezione per le epoche in disfacimento costituiscono
un terreno comune a tanti artisti del decadentismo, dal
quale deriva tutta una serie di temi ricorrenti: gusto
delle esperienze "estreme" e ricerca della lussuria;
stanchezza ed estenuazione dei sensi; femminilità ambigua
e perversa (da Salomè - rappresentata dal pittore Moreau,
da Huysmans e da Wilde - a tutte le donne che popolano la
prosa e la poesia dannunziana); contemplazione della morte
delle cose e della società. Nato da una frattura fra
l'artista e la società, che col progressivo affermarsi
della civiltà di massa era destinata ad accentuarsi, il
decadentismo si esprimeva anzitutto nell'enfatizzazione
della diversità (da Huvsmans a D'Annunzio), nell'angoscia
della solitudine o dell'inconoscibilità del reale
(Pascoli, Pirandello), nel privilegiamento della
"malattia" rispetto alla "salute" (Mann, Svevo), nel
compiacimento vittimistico.
Ma c'è un'altra espressione, sia pure minoritaria, del
decadentismo: la coscienza della diversità, l'assenza di
legami con la comunità poteva costituire la premessa per
lo scatenarsi di uria volontà di affermazione
individualistica, per la celebrazione delle valenze
vitalistiche e irrazionali, per la supremazia dell'uomo
d'eccezione, (lei superuomo (che Nietzsche teorizzava in
quegli anni) sulla "plebe".
Nella letteratura italiana il decadentismo trova parecchie
- e ovviamente differenziate - espressioni. Pascoli,
deluso nelle iniziali speranze laiche di estrazione
positivistica (il progresso scientifico e il socialismo),
smarrito di fronte al mistero del mondo e al dolore
dell'uomo, tenta di carpire alle cose di ogni giorno il
loro senso riposto, ne esprime il mistero ricorrendo al
simbolo, scruta e si scruta con voluttà di pianto. La
posizione di D'Annunzio è più vistosa ma meno profonda: il
suo decadentismo saturo di compiacimenti estetizzanti è
soprattutto - ma non sempre - giocato sul versante
attivistico e diventa celebrazione di vitalistica ferinità,
mito del superuomo, culto del bel gesto. In Pirandello la
sfiducia nella possibilità di conoscere la realtà, il
relativismo gnoseologico approdano alta coscienza della
solitudine e dell'incomunicabilità dell'io, al frantumarsi
della personalità: nella rappresentazione che nella
narrativa e nel teatro egli dà della vicenda umana c'è
posto per l'assurdo e il grottesco, ma anche per una
dolente pietà della condizione-umana, per la «pena di
vivere cosi». Sul fallimento, sullo scacco, sulla
"senilità" come inettitudine alla vita normale, sulla
malattia è centrata la narrativa di Svevo, che nella
Coscienza di Zeno stempera il suo pessimismo in una
distaccata e superiore ironia.
Sono, questi autori, espressioni esemplari di un'età di
crisi e di profondo malessere, che sarebbe durata ben
oltre il quindicennio giolittiano e che però trova una sua
ulteriore espressione - non intimistica e riflessiva ma
aggressiva, urlata, nichilistica - nelle avanguardie:
l'espressionismo, che si sviluppa nell'area germanica già
in questo periodo e troverà significative espressioni
nell'immediato dopoguerra, è una violenta reazione al
buonsenso e all'ottimismo borghese, è «la poetica della
vita tramontata; violentata, della disperazione, della
morte e dell'assurdo che ne hanno preso il posto» (Bonesio)
e predilige forme espressive "urlate", grottescamente
deformanti, violente, dissonanti; il futurismo, l'unica
avanguardia italiana, intende fare piazza pulita delle
tematiche e delle modalità dell'arte del passato, ripudia
le complicazioni intimistiche e i "chiari di luna", esalta
l'aggressività, le valenze istintuali e vitalistiche, la
velocità, e propugna un radicale scardinamento delle
modalità espressive tradizionali (è difficile comprenderlo
senza collegarlo al clima di aggressiva competitività
conseguente allo sviluppo capitalistico della società
italiana); il dadaismo; sorto a Zurigo nel 1916, si fonda
sull'alogicità, sul nonsense, sulla provocazione fine a se
stessa: ma questa vocazione distruttiva, nichilistica,
finisce col diventare un vicolo cieco che non dà adito ad
alcuna realizzazione.
Se ora rivolgiamo l'attenzione ai singoli generi
letterari, non sarà difficile cogliere i segni di quel
processo di superamento della tradizione, di inquieta
ricerca di novità che caratterizza quest'epoca.
Nell'ambito della produzione poetica Pascoli e D'Annunzio,
di contro alla poesia tradizionale che aveva avuto in
Carducci il suo ultimo aulico esponente, danno inizio al
rinnovamento ma con vistose differenze: Pascoli crea il
nuovo nel rispetto delle strutture metriche tradizionali,
dissolvendole dall'interno, spezzando i ritmi tradizionali
in una musica nuova, ricca di pause e di silenzi, e col
ricorso, da un lato, agli effetti fonosimbolici e,
dall'altro, al simbolo, cerca di dar voce al mistero che
ci circonda; D'Annunzio supera le strutture metriche
tradizionali, adotta con varietà il verso libero, dà voce
con una lingua ricercata e fastosa all'inesauribile trama
di rapporti tra l'uomo e il mondo della natura. Al
rinnovamento, alla destrutturazione delle forme
tradizionali contribuiscono in vario modo i futuristi più
con enunciazioni di poetica che con durevoli realizzazioni
di poesia (ma L'Allegria di Ungaretti si spiega solo
tenendo conto dell'esperienza futurista) e i crepuscolari
con l'adozione di un linguaggio antiletterario o con
un'abile contaminazione di letterario e di parlato e con
l'ironico trattamento a cui sottopongono strutture
metriche e rime. Intanto, esiti di grande interesse e
suggestione raggiungono Clemente Rebora con le sue
asprezze espressionistiche e Dino Campana con la sua
dimensione favolosa e onirica. Saba realizza già risultati
notevoli, ma la sua fisionomia si chiarirà meglio in
seguito.
Meno ricco il panorama della narrativa, dove per
l'ampliamento del pubblico al quale si è accennato prevale
una produzione di intrattenimento, di consumo (Guido Da
Verona volgarizza in accattivante erotismo le tematiche
dannunziane): ma due opere fondamentali sconvolgono le
modalità narrative tradizionali: le novelle e soprattutto
Il fu Mattia Pascal di Pirandello e l'antiromanzo il
codice di Perelà di Palazzeschi.
Nella produzione teatrale, accanto alla persistenza di
modalità veristiche o naturalistiche, sono presenti
indicazioni e realizzazioni orientate verso il nuovo. Il
superamento del teatro naturalistico avviene o attraverso
una particolare attenzione dedicata ai valori poetici del
testo (è il cosiddetto "teatro di parola" o "teatro di
poesia", di cui D'Annunzio è in Italia il maggior
esponente) o attraverso l'utilizzazione di suggestioni che
derivano dalle avanguardie (è in parte il caso del
cosiddetto "teatro del grottesco").
L'autore di rivoluzionaria originalità è Pirandello, la
cui definitiva affermazione si avrà negli anni Venti, ma
che già negli anni 1916-18 ha dato, fra l'altro, due testi
fondamentali della sua produzione: Il berretto a sonagli e
Così è (se vi pare).
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