Parliamo di |
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Autori
del Novecento italiano |
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Guglielmino Grosser |
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Dibattito politico-culturale nelle riviste |
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Il primo quindicennio del Novecento è un
periodo di vivi fermenti non solo in ambito letterario, ma
anche in ambito politico: il - sia pur tardo - processo di
industrializzazione e il conseguente accentuarsi dei
conflitti di classe, il progressivo formarsi di
un'opinione pubblica nazionale, la maggiore conoscenza
delle esperienze culturali straniere sollecitata dal
decadentismo sono alla base di questa particolare
"vivacità" del periodo, vivacità che trova nelle riviste
canali e strumenti di espressione particolarmente
efficaci. Procederemo ora a un'essenziale ricognizione
delle più significative, di quelle cioè che, al di là di
interessi specifici e settoriali, hanno maggiormente
inciso sul dibattito politico-culturale.
La prima di esse è «La Critica» che, fondata da Croce nel
1903, è quella che è durata più a lungo (sino al 1944),
probabilmente perché legata non ad un gruppo ma .ad un
uomo («rivista persona che esprime solo e sempre un uomo»,
come dirà Renato Serra). Croce ha spiegato nel Contributo
alla critica di me stesso del 1915, in pagine di notevole
interesse, le motivazioni etico-politiche di questa sua
iniziativa («compiere opera politica, di politica in senso
lato: opera di studioso e di cittadino insieme, così da
non arrossire del tutto, come più volte m'era accaduto in
passato, innanzi a uomini politici e cittadini socialmente
operosi»). In quanto agli obiettivi culturali, attraverso
la discussione di «libri italiani e stranieri, di
filosofia, storia e letteratura» Croce dichiarava di
indirizzare « le sue censure e le sue polemiche per una
parte contro i dilettanti e i lavoratori antimetodici, e
per l'altra contro gli accademici adagiati in pregiudizi e
ozianti nella esteriorità dell'arte e della scienza».
Ciò significa che per un verso l'obiettivo polemico
saranno i giovani intellettuali inquieti e "geniali",
vogliosi di novità, spesso irrazionalisticamente
velleitari e troppo disponibili alle avventure
intellettuali (i Papini, i futuristi, i "rivoluzionari"),
per l'altro sarà la cultura positivistica attardata su
posizioni ottocentesche. Nell'impossibilità di dar conto
qui di un'attività di mezzo secolo, ci limitiamo a dire
che nei primi due decenni Croce procede all'esame critico
della letteratura di tardo Ottocento (in saggi che
confluiranno nei volumi de La letteratura della nuova
Italia) e Gentile si interessa soprattutto di filosofia.
Quando, con l'avvento del fascismo, l'operosa amicizia tra
i due si spezzerà, «La Critica» - che aveva preso
posizione contro l'interventismo - assolse il ruolo di
cittadella dell'antifascismo liberale: Croce con i suoi
seguaci (Adolfo Omodeo, Guido De Ruggiero, Francesco Flora
ecc.) si batte - pur nei limiti che la situazione politica
imponeva - contro le mitologie del tempo, prima fra tutte
il razzismo.
«Leonardo»
I dilettanti e i geniali contro i quali polemizzava Croce
si esprimevano, con una variegata gamma di posizioni, in
parecchie riviste che, dalla sede di pubblicazione,
vengono complessivamente indicate come "le riviste
fiorentine". La prima di queste è il «Leonardo» che,
fondata da Giovanni Papini, si pubblica con varia
periodicità dal 1903 al 1907, e si distingue per le
suggestioni dannunziane che accoglie, per le sprezzanti
posizioni antidemocratiche e antisocialiste, per la
polemica contro il positivisismo (che poteva coincidere
con gli obiettivi polemici di Croce, ma finiva per
sfociare in una concezione misticheggiante, e
irrazionalistica dell'arte). Al «Leonardo» - come
dichiarava il direttore sul primo numero - aveva dato vita
«un gruppo di giovini, desiderosi di liberazione, vogliosi
di universalità, anelanti ad una superior vita
intellettuale [...] pagani ed individualisti, amanti della
bellezza e dell'intelligenza, adoratori della profonda
natura e delle vita piena, nemici di ogni forma dì
pecorismo nazareno e servitù plebea». Di chiarezza
ideologica, al di fuori del superomismo pagano
anticristiano. («pecorismo nazareno») e
antidemocratico(«servitù plebea» la rivista ne ebbe poca,
ma probabilmente fu questo a permetterle di ospitare voci
che in direzioni disparate cercavano la novità, ad
allargare, con interessi verso le manifestazioni
straniere, gli orizzonti culturali dell'Italia giolittiana.
«Hermes» e «Il Regno»
Il «Leonardo» non è però la sola rivista fiorentina di
quegli anni, che vedono contemporaneamente la
pubblicazione di «Hermes» (fondata da Giuseppe Antonio
Borgese nel 1904) e de «Il Regno» (fondata da Enrico
Corradini alla fine del 1903).
«Hèrmès» nel complesso fu, come scrive la Frigessi, «una
rvista disorganica e frammentaria; le sono mancate così
l'audacia antiaccademica, la libertà di discorso, la
capacità e l'assimilazione e la vitalità culturale del
"Leonardo" come la definita funzione politica del
"Regno"»; va sottolineato comunque che anche essa si
colloca nell'ambito delle suggestioni dannunziane (delle
quali proprio il direttore, Borgese, avrebbe fatto
un'inclemente demistificazione nel suo Rubé del 1921), che
i suoi collaboratori si autodefiniscono «imperialisti»,
che sulle sue pagine viene vaticinato «un prossimo
risorgimento di tutte le attività nazionali; tanto
intellettuali quanto fantastiche, così politiche come
industriali ed economiche».
È comunque «Il Regno» la rivista di giù accesi spiriti
nazionalistici e antidemocratici; è sulle sue pagine che
si comincia a parlare di «missione africana» dell'Italia,
e della Francia come della «rivale naturale» nel
Mediterraneo, ed è su essa che si insiste sulla concezione
di uno Stato come strumento per la realizzazione dei
«migliori». In altre parole, l'esaltazione della forte
personalità la mitologia individualisticà - alle quali
avevano contribuito il decadentismo, l'interpretazione
"sociale" delle teorie di Darwin, Nietzsche, la teoria
delle élites di Gaetano Mosca e parecchi altri fattori -
ora non sono concepite come antagonistiche nei riguardi
dello Stato, e trovano invece in uno Stato autoritario al
servizio dei migliori lo strumento per meglio realizzarsi
ed espandersi. È chiaro che da una prospettiva simile gli
obiettivi polemici sono il socialismo, i principi
democratici e persino certe posizioni di cattolici
avanzati, come ad esempio don Romolo Murri, nei riguardi
dei quali Papini - con una posizione autenticamente "forcaiola"
- scriveva: «Essi vanno rodendo quello che c'era di più
saldo nel popolo non ancora impestato: il rispetto
dell'autorità, del
prete e del padrone».
«La Voce»
La più importante rivista del periodo è però «La Voce» che
Giuseppe Prezzolini fonda nel dicembre del 1908 (durerà
silo al 1916). Definire sinteticamente la fisionomia non è
facile, anche perché essa ebbe varie fasi, cioè direttori
e orientamenti diversi. Nella prima fase (1908-1911)
diretta da Prezzolini - Tra i collaboratori Croce,
Amendola, Salvemini, Cecchi, Einaudi - « La Voce» affronta
i problemi di un rinnovamento culturale compiendo analisi
concrete (sulla scuola, sulla questione meridionale ecc.)
e collegando la figura di un nuovo letterato a una nuova
realtà politico-sociale (e da ciò la polemica per un verso
contro D'Annunzio e per l'altro contro Giolitti). E
tuttavia assieme a questo c'è - specie in Prezzolini - una
sorta di illuministica fiducia nei poteri della cultura,
degli intellettuali, un atteggiamento di
intellettualistica superiorità che isola questi "primi
della classe" da collegamenti e alleanze con le forze
politiche. Quando Salvemini e altri lasciano «La Voce» nel
1911 perché Prezzolini approva l'impresa libica, la
direzione passa dal 1912 alla fine del 1913 - la seconda
fase - a Papini, e la rivista si apre particolarmente a
quelle prove letterarie (liriche, frammenti, impressioni)
che hanno fatto parlare di " espressionismo vociano". Per
un anno, il 1914 - è la terza fase - « La Voce» torna ad
essere diretta da Prezzolini, che la definisce «rivista
dell'idealismo militante », facendone una tribuna di
posizioni irrazionalistiche e attivistiche (da Bergson a
Sorel) e dell'interventismo. Quando egli l'abbandona per
collaborare con Mussolini, che ha fondato il «Popolo
d'Italia», « Là Voce» passa a Giuseppe De Robertis dalla
fine del 1914 al 1916 - è la quarta fase, quella della
cosiddetta "Voce bianca", dal colore della copertina - e
diventa una rivista esclusivamente letteraria, che ospita
autori destinati a diventare poi fondamentali nella nostra
letteratura (Ungaretti, Govoni, Palazzeschi, Campana
ecc.). Anche da questi rapidi accenni risulta evidente
l'eterogeneità di posizioni e di interessi di questa che è
tuttavia la più importante rivista del periodo: «è una
verità, come è stato detto, affermare che sulle colonne
della "Voce" si trovarono fianco a fianco i nomi dei
futuri persecutori e dei futuri perseguitati, uniti ancora
in quella prima confusa elaborazione di motivi culturali
novecenteschi»
«l'Unità»
Carattere decisamente politico ebbe invece, «l'Unità»,
fondata da Salvemini nel 1912 dopo il suo dissenso con i
vociani sull'impresa libica (e pubblicata sino al 1920):
concreta e pragmatica come la personalità del direttore
d'altronde), «divenne in breve il cenacolo di quanti
rifuggendo dalla moda del dannunzianesimo e dalle
astrattezze idealistiche intendevano approfondire lo
studio della realtà che li circondava».
«Lacerba»
Eterogenea nei suoi interessi, volutamente eccessiva,
iconoclastica, "futurista" fu «Lacerba», fondata da Papini
e Ardengo Soffici nel 1913 (durerà fino al 1915); in essa
parecchi autori (tra cui Palazzeschi) espressero il loro
momento più vistosamente futurista e Papini esibì il suo
ribellismo (famigerato l'articolo Vogliamo la guerra!).
Gobetti a questo proposito parlerà di «letteratura
canagliesca».
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