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IL REALISMO
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DIODATA E MASTRO DON GESUALDO
Possiamo
dividere questo passo in tre
parti. La prima è quella
«idillica» (come la chiamò
Russo) dell'incontro fra
Gesualdo e Diodata e della cena,
in campagna, nel silenzio della
notte. La seconda è costituita
da una sorta di monologo
interiore di Gesualdo, che
ripensa alla propria vita e
cerca di ritrovarvi un
significato. La terza è il
dialogo con Diodata che, senza
che Gesualdo voglia ammetterlo,
finisce col mettere in
discussione proprio quel
significato.
Si è parlato, a proposito della
prima parte, di «idillio»; ma,
nonostante la cadenza
malinconica, siamo di fronte ad
una scena veristicamente gremita
di oggetti. La poesia nasce
dalla realtà concreta di quelle
fave novelle e di quei pomodori,
di quelle vecchie ciabatte, di
quelle uova che friggono, di
quel fiasco di vino, del
venticello, dei grilli, della
mula, dei covoni di grano, dei
buoi. Niente è lasciato nel
vago, nell'indefinito: tutto è
visto con quel partecipe
distacco che, mentre permette a
Verga di osservare tutti i più
piccoli particolari Alla scena e
di riportarli veristicamente
sulla pagina, non gli nega però
quell'adesione appassionata, da
cui nascono, anche nel Mastro,
parecchie delle sue pagine
migliori.
Nella seconda parte Gesualdo
passa in rassegna la propria
vita; e la lotta contro tutti,
l'addestramento alla finzione
continua, l'alienazione della
roba gli sembrano giustificati
alla luce di una morale eroica
ed individualistica che premia
chi sa essere più forte ed
intelligente degli altri. E
tuttavia anche in questa parte
compare un motivo di scontento
non legato a ragioni economiche:
il rapporto col padre e coi
fratelli è fatto di affetto e di
rancore insieme. Soprattutto
verso il padre, che non gli
perdona di aver disobbedito alla
massima « Fa' l'arte che sai» e
che avverte un senso di gelosia
per i successi del figlio,
Gesualdo nutre un complesso di
colpa: egli deve lavorare anche
per dimostrare a se stesso (e a
suo padre) d'aver avuto ragione.
Ma è soprattutto nel dialogo con
Diodata che Gesualdo appare
incapace di acquietarsi nella
giustificazione della norma
economica che regola la propria
vita. Un altro senso di colpa lo
tormenta; quello verso Diodata e
i figli avuti da costei. Era
consuetudine allora dei
benestanti avere per amante una
serva e poi darla in moglie ad
un subordinato: ma questo
modello di comportamento
(descritto anche da Capuana e da
De Roberto nelle loro opere),
cui pure lo stesso Gesualdo si
attiene, non lo pacifica: il
tono con cui Diodata gli parla
gli fa rimescolare il sangue e
il tema dei figli lo
punzecchiava peggio di una
vespa. Invano Gesualdo cerca di
far ricorso alla logica della
propria vita (Ciascuno porta il
suo destino!... Io ho fatto il
fatto mio, grazie a Dio, e mio
fratello non ha nulla), per
risolvere in maniera conforme ad
essa anche questo aspetto della
sua vita (così va il mondo...
Poiché v'è il comune che ci
pensa!... Deve mantenerli il
comune a spese sue...); invano
cerca di far tacere il proprio
senso di colpa promettendo a
Diodata un buon marito: il
pianto muto della ragazza è un
rimprovero lacerante perché
proviene dal suo stesso intimo,
da una interiore insicurezza che
niente riuscirà a placare e che
lo perseguiterà sin sul letto di
morte. Le imprecazioni che
chiudono il capitolo nascono dal
riconoscimento della sorte
maledetta che è per Gesualdo la
vita: lo sforzo-di darle un
significato già comincia ad
incrinarsi, la logica della roba
e dell'ambizione di mutar stato
già comincia a rivelarsi in
tutta la sua assurdità.
Riportiamo ora questo testo
critico da un saggio di Attilio
Momigliano del 1923 per un
duplice motivo: anzitutto perché
delle pagine verghiane coglie
aspetti e tonalità che ad una
prima lettura possono anche
sfuggire; e inoltre perché esso
testimonia un metodo critico, un
approccio al testo diversi da
quelli oggi praticati: cioè un
metodo che non poggia tanto su
presupposti teorici, ma si
affida piuttosto al "gusto" e
alle "impressioni" del
critico-lettore. Si tratta di un
metodo che, collegato in parte
all'estetica crociana, fu
largamente diffuso negli anni
Venti e Trenta e che, quando era
praticato da lettori che non
avessero la finezza e
l'equilibrio di un Momigliano,
poteva scadere a gratuito e
ridondante impressionismo.
Diodata è l'unico riposo di don
Gesualdo, la sola creatura che
possa dargli un'ora di dolcezza,
che sappia chinare il capo sotto
la sua volontà e sotto la sua
carezza ruvida. Quest'amore è
una delle cose piú belle del
Verga; l'incontro di don
Gesualdo é di Diodata quando
egli ha deciso il suo
matrimonio, è la parte piú
lirica e più melodiosa del
volume. Sotto le parole misurate
del dialogo mormora una vena
dolce e mesta di sentimento che
si allarga nel silenzioso
paesaggio notturno.
La campagna intorno, tranquilla,
sembra riposare insieme con don
Gesualdo, dopo una giornata
lunga di sole e di lavoro. Qui,
come altrove, il romanzo ha un
respiro piú sereno e piú ampio
che quello solito del Verga:
queste pause di paesaggio
diffondono intorno un'aria piú
lieve, dilatano il sentimento,
con una malia inconsueta, in un
vasto afflato d'idillio. Una
ventata di fresco vien su dai
campi, il cielo notturno avvolge
nel silenzio e nel sonno le
pianure e i monti, i buoi
accovacciati dormono con un
respiro pesante. In quell'ombra
dove a poco a poco svapora il
caldo della giornata estiva,
l'anima si distende, e una gran
pace la invade. Gesualdo si
sposa: Diodata sta per rimaner
sola. Ma quella povera serva,
sciupata dagli stenti,
accarezzata dalla mano commossa
e intenerita dello scrittore,
finisce per commuovere anche il
padrone. Don Gesualdo, dopo la
giornata dura, sente sciogliersi
il cuore in un bisogno di
tenerezza. Le sue parole sono
poche, un po' rozze, ma spirano
un affetto forte, e la pace
della campagna le isola in
un'atmosfera di poesia: il
respiro dei campi, pieno di
rumori vaganti e di silenzio,
approfondisce quelle parole di
protezione e di pietà e dà loro
una risonanza che va al cuore.
In queste pagine tutto è ad un
tempo preciso e sfumato: la
descrizione della fattoria e dei
campi è rustica, concreta, senza
particolari evanescenti; i
dialoghi, appena accennati,
svolti fra la stanchezza e il
sonno, non hanno un momento
d'effusione sentimentale, e sono
costruiti quasi solo di fatti
dell'esistenza elementare e
quotidiana: ma fra quelle
parlate e quelle descrizioni si
insinua e si diffonde un sapore,
un abbandono che dà alle parole
un'eco calda di sentimento e di
bontà e alle cose agresti un
contorno appena adombrato di
sogno. Questo effetto di fascino
lento, questa potenza della
notte estiva, in cui tutto
riposa si distende, si rinnova,
nasce dai particolari
spazieggiati, dalle linee come
isolate e abbandonate a se
stesse, da quello stile che si
rilassa in una contemplazione
non sorvegliata. Dovunque
penetra il respiro tranquillo di
don Gesualdo che, dopo la lunga
corsa sotto il cielo in fiamme,
allenta il corpo e la mente,
lascia che la calma dell'ora
tarda smorzi la fatica, si
ristora nella buia frescura
della notte.
La solitudine ridesta i ricordi
lontani di don Gesualdo
travagliato nella conquista
dell'agiatezza: è un momento di
poesia nella sua vita
infaticabile, la poesia della
sua esistenza di lottatore, il
respiro di sollievo, lo sguardo
di chi è salito e ripercorre
coll'occhio l'ascesa. Nemici,
pericoli, liti, ostacoli, tutto
ritorna in quest'ora di ricordi,
ma raddolcito dalla lontananza,
immerso nella serenità della
notte estiva, ammorbidito e
sfumato di tenerezza dalla
vicinanza muta di quell'umile
donna amata. Nella lotta don
Gesualdo non ha avuto altra
gioia che quella chiusa di fare
sempre un passo avanti. Ma
Diodata è stata l'aiutante
silenziosa, la carezza che
solleva e sospinge.
Queste pagine hanno un leggero
sentore femminile: nell'anima
rude di don Gesualdo penetra,
appena, una lieve mollezza
insolita, che è come il fascino
modesto, timoroso, di quella
povera donna che è nascosta e
veglia nella notte. Il capitolo
è velatamente dominato da quella
bellezza un po' sfiorita, dolce
e umile, di Diodata, sottomessa
come un cane fedele: essa
scioglie in tenerezza le cure
gravi della giornata del
padrone, e spande il suo soffio
molle e malinconico su quella
notte silenziosa.
Le scene fra Gesualdo e la sua
serva, che ritornano, più brevi,
attraverso il volume, ci
richiamano sempre a questa, con
la tenerezza rude del padrone e
il suo atteggiamento di
protezione virile, con quella
sfumatura indefinita di
malinconia e di bontà senza
limiti
che si sente sempre nelle parole
di Diodata.
Diodata è per Gesualdo il
pensiero sereno dell'uomo che ha
bisogno di una donna debole da
sostenere, è la nostalgia
misurata e contenuta di un
affetto che metta un po' di
dolcezza nella sua vita
tempestosa. Quella povera donna,
che non ha pretese e non occupa
nessun posto nella famiglia
ostile o fredda o diffidente di
don Gesualdo, è il completamento
umano del protagonista, la corda
più delicata del suo cuore
temprato, il sospiro fugace e
profondo della sua vita senza
sfogo e senza carezze. In virtù
di Diodata la figura epica di
don Gesualdo si fa più umana e
più ricca e si avvicina
all'umanità più comune con un
sospiro represso d'elegia.
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