IL SITO DELLA LETTERATURA

 Autore Luigi De Bellis   
     

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IL REALISMO

DIODATA E MASTRO DON GESUALDO


Possiamo dividere questo passo in tre parti. La prima è quella «idillica» (come la chiamò Russo) dell'incontro fra Gesualdo e Diodata e della cena, in campagna, nel silenzio della notte. La seconda è costituita da una sorta di monologo interiore di Gesualdo, che ripensa alla propria vita e cerca di ritrovarvi un significato. La terza è il dialogo con Diodata che, senza che Gesualdo voglia ammetterlo, finisce col mettere in discussione proprio quel significato.
Si è parlato, a proposito della prima parte, di «idillio»; ma, nonostante la cadenza malinconica, siamo di fronte ad una scena veristicamente gremita di oggetti. La poesia nasce dalla realtà concreta di quelle fave novelle e di quei pomodori, di quelle vecchie ciabatte, di quelle uova che friggono, di quel fiasco di vino, del venticello, dei grilli, della mula, dei covoni di grano, dei buoi. Niente è lasciato nel vago, nell'indefinito: tutto è visto con quel partecipe distacco che, mentre permette a Verga di osservare tutti i più piccoli particolari Alla scena e di riportarli veristicamente sulla pagina, non gli nega però quell'adesione appassionata, da cui nascono, anche nel Mastro, parecchie delle sue pagine migliori.
Nella seconda parte Gesualdo passa in rassegna la propria vita; e la lotta contro tutti, l'addestramento alla finzione continua, l'alienazione della roba gli sembrano giustificati alla luce di una morale eroica ed individualistica che premia chi sa essere più forte ed intelligente degli altri. E tuttavia anche in questa parte compare un motivo di scontento non legato a ragioni economiche: il rapporto col padre e coi fratelli è fatto di affetto e di rancore insieme. Soprattutto verso il padre, che non gli perdona di aver disobbedito alla massima « Fa' l'arte che sai» e che avverte un senso di gelosia per i successi del figlio, Gesualdo nutre un complesso di colpa: egli deve lavorare anche per dimostrare a se stesso (e a suo padre) d'aver avuto ragione.
Ma è soprattutto nel dialogo con Diodata che Gesualdo appare incapace di acquietarsi nella giustificazione della norma economica che regola la propria vita. Un altro senso di colpa lo tormenta; quello verso Diodata e i figli avuti da costei. Era consuetudine allora dei benestanti avere per amante una serva e poi darla in moglie ad un subordinato: ma questo modello di comportamento (descritto anche da Capuana e da De Roberto nelle loro opere), cui pure lo stesso Gesualdo si attiene, non lo pacifica: il tono con cui Diodata gli parla gli fa rimescolare il sangue e il tema dei figli lo punzecchiava peggio di una vespa. Invano Gesualdo cerca di far ricorso alla logica della propria vita (Ciascuno porta il suo destino!... Io ho fatto il fatto mio, grazie a Dio, e mio fratello non ha nulla), per risolvere in maniera conforme ad essa anche questo aspetto della sua vita (così va il mondo... Poiché v'è il comune che ci pensa!... Deve mantenerli il comune a spese sue...); invano cerca di far tacere il proprio senso di colpa promettendo a Diodata un buon marito: il pianto muto della ragazza è un rimprovero lacerante perché proviene dal suo stesso intimo, da una interiore insicurezza che niente riuscirà a placare e che lo perseguiterà sin sul letto di morte. Le imprecazioni che chiudono il capitolo nascono dal riconoscimento della sorte maledetta che è per Gesualdo la vita: lo sforzo-di darle un significato già comincia ad incrinarsi, la logica della roba e dell'ambizione di mutar stato già comincia a rivelarsi in tutta la sua assurdità.

Riportiamo ora questo testo critico da un saggio di Attilio Momigliano del 1923 per un duplice motivo: anzitutto perché delle pagine verghiane coglie aspetti e tonalità che ad una prima lettura possono anche sfuggire; e inoltre perché esso testimonia un metodo critico, un approccio al testo diversi da quelli oggi praticati: cioè un metodo che non poggia tanto su presupposti teorici, ma si affida piuttosto al "gusto" e alle "impressioni" del critico-lettore. Si tratta di un metodo che, collegato in parte all'estetica crociana, fu largamente diffuso negli anni Venti e Trenta e che, quando era praticato da lettori che non avessero la finezza e l'equilibrio di un Momigliano, poteva scadere a gratuito e ridondante impressionismo.

Diodata è l'unico riposo di don Gesualdo, la sola creatura che possa dargli un'ora di dolcezza, che sappia chinare il capo sotto la sua volontà e sotto la sua carezza ruvida. Quest'amore è una delle cose piú belle del Verga; l'incontro di don Gesualdo é di Diodata quando egli ha deciso il suo matrimonio, è la parte piú lirica e più melodiosa del volume. Sotto le parole misurate del dialogo mormora una vena dolce e mesta di sentimento che si allarga nel silenzioso paesaggio notturno.
La campagna intorno, tranquilla, sembra riposare insieme con don Gesualdo, dopo una giornata lunga di sole e di lavoro. Qui, come altrove, il romanzo ha un respiro piú sereno e piú ampio che quello solito del Verga: queste pause di paesaggio diffondono intorno un'aria piú lieve, dilatano il sentimento, con una malia inconsueta, in un vasto afflato d'idillio. Una ventata di fresco vien su dai campi, il cielo notturno avvolge nel silenzio e nel sonno le pianure e i monti, i buoi accovacciati dormono con un respiro pesante. In quell'ombra dove a poco a poco svapora il caldo della giornata estiva, l'anima si distende, e una gran pace la invade. Gesualdo si sposa: Diodata sta per rimaner sola. Ma quella povera serva, sciupata dagli stenti, accarezzata dalla mano commossa e intenerita dello scrittore, finisce per commuovere anche il padrone. Don Gesualdo, dopo la giornata dura, sente sciogliersi il cuore in un bisogno di tenerezza. Le sue parole sono poche, un po' rozze, ma spirano un affetto forte, e la pace della campagna le isola in un'atmosfera di poesia: il respiro dei campi, pieno di rumori vaganti e di silenzio, approfondisce quelle parole di protezione e di pietà e dà loro una risonanza che va al cuore. In queste pagine tutto è ad un tempo preciso e sfumato: la descrizione della fattoria e dei campi è rustica, concreta, senza particolari evanescenti; i dialoghi, appena accennati, svolti fra la stanchezza e il sonno, non hanno un momento d'effusione sentimentale, e sono costruiti quasi solo di fatti dell'esistenza elementare e quotidiana: ma fra quelle parlate e quelle descrizioni si insinua e si diffonde un sapore, un abbandono che dà alle parole un'eco calda di sentimento e di bontà e alle cose agresti un contorno appena adombrato di sogno. Questo effetto di fascino lento, questa potenza della notte estiva, in cui tutto riposa si distende, si rinnova, nasce dai particolari spazieggiati, dalle linee come isolate e abbandonate a se stesse, da quello stile che si rilassa in una contemplazione non sorvegliata. Dovunque penetra il respiro tranquillo di don Gesualdo che, dopo la lunga corsa sotto il cielo in fiamme, allenta il corpo e la mente, lascia che la calma dell'ora tarda smorzi la fatica, si ristora nella buia frescura della notte.
La solitudine ridesta i ricordi lontani di don Gesualdo travagliato nella conquista dell'agiatezza: è un momento di poesia nella sua vita infaticabile, la poesia della sua esistenza di lottatore, il respiro di sollievo, lo sguardo di chi è salito e ripercorre coll'occhio l'ascesa. Nemici, pericoli, liti, ostacoli, tutto ritorna in quest'ora di ricordi, ma raddolcito dalla lontananza, immerso nella serenità della notte estiva, ammorbidito e sfumato di tenerezza dalla vicinanza muta di quell'umile donna amata. Nella lotta don Gesualdo non ha avuto altra gioia che quella chiusa di fare sempre un passo avanti. Ma Diodata è stata l'aiutante silenziosa, la carezza che solleva e sospinge.
Queste pagine hanno un leggero sentore femminile: nell'anima rude di don Gesualdo penetra, appena, una lieve mollezza insolita, che è come il fascino modesto, timoroso, di quella povera donna che è nascosta e veglia nella notte. Il capitolo è velatamente dominato da quella bellezza un po' sfiorita, dolce e umile, di Diodata, sottomessa come un cane fedele: essa scioglie in tenerezza le cure gravi della giornata del padrone, e spande il suo soffio molle e malinconico su quella notte silenziosa.
Le scene fra Gesualdo e la sua serva, che ritornano, più brevi, attraverso il volume, ci richiamano sempre a questa, con la tenerezza rude del padrone e il suo atteggiamento di protezione virile, con quella sfumatura indefinita di malinconia e di bontà senza limiti
che si sente sempre nelle parole di Diodata.
Diodata è per Gesualdo il pensiero sereno dell'uomo che ha bisogno di una donna debole da sostenere, è la nostalgia misurata e contenuta di un affetto che metta un po' di dolcezza nella sua vita tempestosa. Quella povera donna, che non ha pretese e non occupa nessun posto nella famiglia ostile o fredda o diffidente di don Gesualdo, è il completamento umano del protagonista, la corda più delicata del suo cuore temprato, il sospiro fugace e profondo della sua vita senza sfogo e senza carezze. In virtù di Diodata la figura epica di don Gesualdo si fa più umana e più ricca e si avvicina all'umanità più comune con un sospiro represso d'elegia.

 

© 2009 - Luigi De Bellis