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IL SETTECENTO
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Alfieri: Mirra
La
Mirra, ideata nel 1784 e
pubblicata nel 1789, è
incentrata su una vicenda tratta
dalle Metamorfosi di Ovidio (x,
298-518). Mirra arde di un'ìndomabile
passione amorosa - che
intimamente condanna e
inutilmente cerca dì reprimere -
per il padre Ciniro, re di
Cipro. II suo tormento interiore
dà luogo a comportamenti -
ricerca della solitudine,
ostinati silenzi - che né il
padre né la madre Cecri né la
nutrice Euriclea riescono a
comprendere. Alla fine Mirra
accetta di sposare Pereo,
sperando di riuscire a liberarsi
in questo modo dalle sue
angosce, ma durante la cerimonia
ella impreca contro queste sue
nozze, e Pereo per l'umiliazione
e il dolore si uccide. Nel
quinto atto (r 196), in un lungo
colloquio col padre, Mirra
confessa alla fine la sua
passione e nel contempo sì
uccide.
Sulla Mirra ha scritto Attilio
Momigliano:
Il dramma della figlia di Ciniro
è anche più scarso di azione che
quello di Saul: perciò è più
analitico. Per un altro rispetto
l'andamento delle due tragedie è
diverso; e questa differenza
nasce dalla psicologia
particolare dei due
protagonisti. Di qui deriva che,
mentre la purificazione finale
del re israelita si prepara
nascostamente in mezzo ad
alternative contraddittorie
della coscienza, la rivelazione
di Mirra si approssima di scena
in scena con una costanza ed un
progresso evidenti. L'azione
della tragedia è tutta qui; e il
suo movimento non è nei fatti
esterni, ma nell'inquietudine
crescente della protagonista.
La differenza fra l'uno e
l'altro atto non consiste negli
avvenimenti ma nel ritmo
dell'affanno da cui è
travagliata Mirra: esso aumenta
dal primo al secondo, sembra -
se non farsi più calmo rimanere
inalterato nel terzo, precipita
incessantemente verso la
catastrofe dal quarto al quinto.
La risoluzione di sposar Pereo
ferma per un'ora il turbamento
minaccioso a mezzo della
tragedia: ma già in quel
proposito si sente l'energia
delle resistenze estreme. Perciò
dalla stessa tensione di quella
tranquillità mal simulata
scoppia il delirio della scena
delle nozze, e quindi,
fatalmente, dopo contrasti
sempre più forti e sempre più
vani contro la passione, la
catastrofe che era balenata
attraverso tutta la tragedia. La
grande scena dell'atto quinto,
così lunga e così implacabile è
l'unica in cui Ciniro e Mirra
siano soli: lo svolgersi
naturale degli eventi ha voluto
che questo tremendo colloquio
avvenisse solo ora, quando le
nozze sono state troncate. Pereo
si è ucciso e Mirra, perduta
l'una delle due speranze, trema
che anche l'ultima le sia
contesa da una forza nemica.
Sola con Ciniro, senza più
l'aiuto di un terzo personaggio
che diverga il suo animo dal
pensiero dominante, travagliata
da una passione che ogni
circostanza ha congiurato per
inacerbire, stordita dal
convergere fatale dei presagi
della nutrice supplicante invano
la dea e dell'amore invano
represso, incalzata e disarmata
dalle indagini del padre a volta
a volta inflessibili e
affettuose, già quasi scoperta
da un turbamento sempre più
forte e che ella non può né
negare né spiegare, Mirra cede
finalmente, svela il suo
segreto, e si uccide. La scena è
così angosciosa, che anche in
questo momento Mirra sembra più
che una peccatrice, una vittima.
Il dialogo è febbrilmente
alternato di reticenze e di
impeti, trattenuto dalla
coscienza, travolto dalla
passione: nulla è così penoso
come quest'ultima lotta, in cui
anche il padre, per la forza
inesorabile dei fatti, con una
crudeltà inconsapevole incalza e
stringe da ogni parte la figlia,
stimola e rinfocola la sua
passione, la spinge alla rovina.
Nello svolgimento ineluttabile
del colloquio accade persino che
certe parole di Ciniro sembrino,
e non sono, lusinghe o minacce
di persona a cui tutto oramai
sia chiaro. La coerenza logica
di quelle pagine è crudele:
tutto si concatena e si volge
contro Mirra una parlata ne
chiama un'altra, via via più
trepidante e più aperta;
ritrarre il piede dalla china è
oramai impossibile: e Mirra
supplica invano due volte il
padre di lasciarla fuggire. Così
il segreto, illuminato vagamente
lungo l'intera tragedia con
indizi e sospetti disseminati e
subito spenti, si rivela per una
forza irresistibile, quasi per
una violenza che Mirra tenta
invano di respingere. E quella
scena, che la potrebbe coprire
d'ignominia, e la chiusa,
suggellano la pietà per la quale
l'Alfieri ha seguìto, pensoso e
perplesso, le vicende arcane di
un'anima abbandonata senza
soccorso alla sorda veemenza
d'una passione. La vittima spira
fra le braccia di Euriclea che
la compiange in silenzio; muore,
quasi sola, in una funebre
calma, portando con sé nel
sepolcro il rimorso di una
coscienza che meritava un più
mite destino .
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