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 Autore Luigi De Bellis   
     

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IL TRECENTO

GUIDO CAVALCANTI: PERCHE' NON FUORO A ME GLI OCCHI DISPENTI


Se volessimo riportare a unità e semplicità quel che il poeta ha espresso in maniera deliberatamente oscura, potremmo così riassumere il significato di questo componimento: l'uomo si duole di aver visto la donna, poiché questa visione gli ha dato paura e tormenti; invano le chiede aiuto: la donna lo abbandona al suo dolore tanto che egli teme di morire. Nel testo invece l'unità dell'individuo è scomposta in varie astrazioni, che sono tuttavia personificate e alle quali si attribuiscono quindi azioni e sentimenti. Le elenchiamo:

- l'immagine della donna, che è «nella mente ... venuta»(v. 3); - la paura, che «aparve ... sì crudel e aguta»;

- l'anima, che «chiamò»;
- gli occhi destinati a rimanere «dolenti» (si tratta di un elemento fisico, anch'esso personificato e isolato dall'individuo);
- Amore, che «venne ... a pianger»;
- una voce, «la quale dice»;
- la morte, che «porta» il cuore «tagliato in croce».

La situazione psicologica è trasformata in azione drammatica in cui intervengono molti personaggi; la scena è assai animata, addirittura enfatica: è però una animazione irrealistica poiché i personaggi sono entità astratte, figure retoriche; l'unità psico-fisica dell'individuo è scissa in mente, anima, occhi, e ancora amore, paura, morte, cuore.
Anche la sintassi esprime, con la pluralità dei soggetti, questa frantumazione della personalità. Lo schema sintattico prevalente è quello di una proposizione reggente, con un dato soggetto, che introduce una consecutiva che ha un soggetto diverso. Ogni personificazione sembra quindi produrre la successiva: l'attenzione del lettore si sposta di soggetto in soggetto, perdendo di vista l'unità dell'io indicato nel primo verso «Perché non fuoro a me...».

 

© 2009 - Luigi De Bellis