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IL TRECENTO
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GUIDO CAVALCANTI: PERCHE' NON
FUORO A ME GLI OCCHI DISPENTI
Se
volessimo riportare a unità e
semplicità quel che il poeta ha
espresso in maniera
deliberatamente oscura, potremmo
così riassumere il significato
di questo componimento: l'uomo
si duole di aver visto la donna,
poiché questa visione gli ha
dato paura e tormenti; invano le
chiede aiuto: la donna lo
abbandona al suo dolore tanto
che egli teme di morire. Nel
testo invece l'unità
dell'individuo è scomposta in
varie astrazioni, che sono
tuttavia personificate e alle
quali si attribuiscono quindi
azioni e sentimenti. Le
elenchiamo:
- l'immagine della donna, che è
«nella mente ... venuta»(v. 3);
- la paura, che «aparve ... sì
crudel e aguta»;
- l'anima, che «chiamò»;
- gli occhi destinati a rimanere
«dolenti» (si tratta di un
elemento fisico, anch'esso
personificato e isolato
dall'individuo);
- Amore, che «venne ... a
pianger»;
- una voce, «la quale dice»;
- la morte, che «porta» il cuore
«tagliato in croce».
La situazione psicologica è
trasformata in azione drammatica
in cui intervengono molti
personaggi; la scena è assai
animata, addirittura enfatica: è
però una animazione irrealistica
poiché i personaggi sono entità
astratte, figure retoriche;
l'unità psico-fisica
dell'individuo è scissa in
mente, anima, occhi, e ancora
amore, paura, morte, cuore.
Anche la sintassi esprime, con
la pluralità dei soggetti,
questa frantumazione della
personalità. Lo schema
sintattico prevalente è quello
di una proposizione reggente,
con un dato soggetto, che
introduce una consecutiva che ha
un soggetto diverso. Ogni
personificazione sembra quindi
produrre la successiva:
l'attenzione del lettore si
sposta di soggetto in soggetto,
perdendo di vista l'unità
dell'io indicato nel primo verso
«Perché non fuoro a me...».
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