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GIOVANNI BOCCACCIO
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IL DECAMERON
Titolo che
Giovanni Boccaccio impose al suo
capolavoro, composto con ogni
probabilità negli anni centrali
della vita del poeta, tra il
1350 e il '55. L'"Incipit" del
libro (che secondo alcuni è da
attribuire allo stesso
Boccaccio) spiega il titolo, la
forma e il contenuto dell'opera:
"Comincia il
libro chiamato Decàmeron,
cognominato Principe Galeotto,
nel quale si contengono Cento
Novelle, in dieci dì dette da
sette donne e da tre giovani
uomini". Il Decàmeron è dunque
diviso in dieci "Giornate", e i
singoli racconti, pur essendo
completamente autonomi pel
carattere e l'argomento,
appaiono rigorosamente ordinati
nei ben lavorati riquadri di una
prestigiosa "cornice". Il libro
si apre con una specie di
Proemio, dove l'autore in poche
pagine vuol render ragione del
carattere tutto narrativo ed
eminentemente amoroso del suo
libro, da lui dedicato ad
alleviamento delle pene degli
infelici amanti, e specialmente
delle donne. Segue
l'introduzione alla Prima
Giornata, che comincia con la
celebre narrazione della
terribile pestilenza che devastò
Firenze (come tutta l'Italia e
l'Europa) nell'anno 1348. Gli
atroci casi della peste sono
narrati con arte minuziosa e
solenne, e con particolare
riguardo alle ripercussioni
morali del flagello, il quale
sconvolgeva la mente degli
uomini, provocando in essi
disordinate reazioni, e
liberandoli in certo modo dalle
solite norme di vita. Con che si
giustifica il formarsi di una
geniale compagnia (di sette
giovani donne e di tre giovani)
che lascia la città e si ritira
in un bel palazzo di campagna.
Qui, ogni giornata si decide di
novellare, attenendosi a un
"tema", generico assegnato dalla
regina o dal "re" di quel
giorno. Poiché i novellatori
sono dieci, ed essi regnano un
giorno ciascuno, l'assieme delle
narrazioni formerà cento
novelle. È da notare però che,
se dieci sono le giornate
narrative, il soggiorno della
lieta compagnia dura in tutto
quattordici giorni (lo spazio di
due settimane, da un mercoledì a
un mercoledì), giacché il
novellare è sospeso per riguardi
religiosi il venerdì e il
sabato, a due riprese. In tutto
questo periodo la vita della
brigata offre poche variazioni:
un cambio di residenza al
mattino del quinto giorno,
qualche passeggiata, una
scampagnata alla incantevole
"Valle delle donne", rapidi
spunti di conversazione,
particolari che sono brevemente
evocati al principio e alla fine
di tutte le Giornate, le quali
si concludono sempre con una
"canzonetta", cantata a turno
dai singoli novellatori. Il
Boccaccio, che si riserva la
parte di sereno e imparziale
espositore, prende tuttavia
direttamente la parola, oltreché
nel Proemio, in due altre
riprese: prima, in una sua
introduzione alla Giornata IV,
dove confonde con argute e
brillanti argomentazioni le
critiche e le calunnie di certi
malevoli lettori già
scandalizzati dalla licenza
delle prime trenta novelle,
rivendicando il carattere
poetico dell'opera sua, e
concludendo scherzosamente con
la vivacissima "favola delle
papere"; e poi nella
"Conclusione dell'Autore", nella
quale riprende con tono fra
serio e faceto gli stessi motivi
polemici, difendendo la purezza
delle sue intenzioni. I dieci
novellatori sono delineati
dall'autore con pochi tratti
(anche ricorrendo al senso del
nome loro attribuito) senza che
acquistino però mai troppo
rilievo. Essi sono figure di
maniera, simboli e proiezioni di
differenti stati d'animo, tutti
vissuti o vagheggiati dallo
stesso Boccaccio, quasi gli
immobili modelli di quelle
stesse passioni che troviamo,
vive, libere e travolgenti, nei
loro racconti. Così è Filostrato,
la perfetta immagine dell'amor
disperato; Dioneo (lo "spurcissimus
Dioneus" di certi momenti
giovanili del Boccaccio),
goditore spregiudicato e
burlesco, e Panfilo, animo
grande e sereno; così è Pampinea
(la fiorente), donna saggia e
sicura, di armoniosa e matura
gioventù, lieta d'un suo felice
amore; Filomena, che le è quasi
una sorella minore; Lauretta,
l'amante addolorata; Emilia, la
lusinghiera, presa soltanto di
sé come Narciso; Elisa,
dolorosamente schiava di un
amore non ricambiato; Fiammetta,
la perfetta amatrice, che teme
sempre di perdere l'amor suo; e
l'acerba e ardente Neifile,
tutta voluttuosi pensieri e
ingenua lascivia. Appunto col
nome di questi personaggi si
sogliono intitolare le singole
giornate, secondo che il tema è
stato proposto dall'uno o
dall'altro. Alla Giornata I,
Pampinea, non è assegnato un
argomento preciso: vi si ragiona
"di quello che più aggrada a
ciascheduno"; e i temi
novellistici tradizionali del
tempo (la satira ai religiosi e
il gusto dei detti arguti e
delle originali battute)
forniscono l'argomento a questi
dieci racconti. Spicca fra tutti
la novella di ser Ciappelletto,
truffatore e delinquente
matricolato che, giunto a morte
in terra straniera, non si
lascia atterrire nemmeno dal
passo estremo, rassicura i suoi
ospiti i quali temono lo
scandalo della sua empietà, poi
"con una falsa confessione
inganna un santo frate, e muorsi;
ed essendo stato un pessimo uomo
in vita, in morte è reputato per
santo e chiamato san
Ciappelletto". L'arte del
Boccaccio avviva potentemente
questa cupa figura, e diffonde
quasi un misterioso sorriso
sulla sua trista vicenda.
Notevolissime anche la storia di
Abraam giudeo, il ricco e
virtuoso mercante di Parigi che,
pressato da un amico perché si
faccia cristiano, trova decisivo
argomento a convertirsi nella
dissoluta vita della Curia
romana; e la famosa novella del
Saladino e delle tre anella:
simbolo delle tre differenti
religioni che Iddio ha dato agli
uomini, senza che sia facile a
essi stabilire qual è la vera.
La Giornata II, "sotto il
reggimento di Filomena", offre
il tema "di chi, da diverse cose
infestato, sia, oltre alla sua
speranza, riuscito a lieto
fine". Racconti romanzeschi,
quasi tutti, che hanno per scena
l'Italia intera, l'Oriente, o
diverse parti d'Europa. Più
meritamente noti, fra gli altri,
per vivo interesse umano, quello
di Landolfo Ruffolo, l'audace
amalfitano che, caduto in
miseria, divien corsaro,
arricchisce, perde nuovamente
tutto il suo, e riesce a tornare
miracolosamente in patria con
una cassetta di diamanti
scampata a un naufragio; e l'argutissima
storia di Martellino, buffone di
corte che, per schernire la
superstizione dei Trivigiani, si
finge paralitico e poi
miracolosamente guarito,
tirandosi così addosso un sacco
di guai dai quali si salva a
gran fatica. Più schiettamente
fantastiche, la storia di
madonna Beritola, la pietosa
vicenda di Bernabò da Genova e
della moglie calunniata a torto,
la complicata e fortunata
avventura del povero mercante
fiorentino che sposa la figlia
del re d'Inghilterra, la
formidabile storia di Alatiel,
la figliola del soldano di
Babilonia che, mandata a marito
al re del Garbo, "per diversi
accidenti in spazio di quattro
anni alle mani di nove uomini
perviene in diversi luoghi:
ultimamente, restituita al padre
per pulcella, ne va al re del
Garbo, come prima faceva, per
moglie". Ma il capolavoro di
questa Giornata è per comune
consenso la fantasmagorica
avventura di Andreuccio da
Perugia, giovine mercante
semplicione che, venuto a Napoli
per comperar cavalli, incontra,
nello spazio d'una notte, una
serie sbalorditiva di angosciosi
incidenti, dai quali riesce
felicemente a liberarsi. La
Giornata III (Neifile) tratta
"di chi alcuna cosa molto da lui
desiderata con industria
acquistasse, o la perduta
ricoverasse"; tema del quale
approfittano i nostri
novellatori per infilare una
serie straordinaria di
scandalosi argomenti, l'oscenità
dei quali è a stento
trasfigurata e giustificata
dalla sovrana arte dello
scrittore.
Tra i più noti e i più arguti
sono i racconti di Masetto da
Lamporecchio, ortolano, e delle
sue gesta in un monastero; di re
Agilulfo, che non riesce a
smascherare e punire la folle
audacia di un suo palafreniere;
del Zima che conquista, con un
sottile espediente, la moglie
dell'avaro Francesco Vergellesi;
la incredibile avventura di
Ferondo, il quale da un astuto
abate è persuaso d'esser morto e
poi risuscitato; la commovente
storia della savia Giletta di
Narbona; e infine, più audace
forse di tutte, quella
dell'ingenua Alibech. Violento
contrasto con questa ridanciana
materia troviamo nelle novelle
della Giornata IV (Filostrato),
dove "si ragiona di coloro i cui
amori ebbero infelice fine". Non
mancano anche qui complicazioni
romanzesche (la macchinosa
storia dei sanguinosi amori dei
tre giovani e delle tre sorelle
di Creta, o la lacrimosa ed
eroica avventura di Gerbino,
nipote del re Guiglielmo di
Sicilia); ma più spesso le
favole, nella loro semplicità,
assurgono a una tragica
grandezza.
Bellissima, e notissima, la
storia del crudele Tancredi, il
principe di Salerno che,
accecato dall'idea di vendicare
il suo onore, fa uccidere
l'amante della figliola,
Ghismonda, e le manda il cuore
di lui in una coppa d'oro; onde
la giovine "messa sopra esso
acqua avvelenata, quella si bee,
e così muore". Ma non meno
potenti, e anche più commoventi,
le figure della povera Isabetta,
e della sua pietosa follia;
della coraggiosa e infelice
Andreuola; o della sventurata
Simona. Da ricordare anche la
novella di Guglielmo da
Rossiglione, dove il tema caro
alla novellistica romanza, del
marito geloso che dà da mangiare
alla moglie infedele il cuore
dell'amante da lui ucciso, è
ripreso con rara energia e
terribile efficacia. La Giornata
V (Fiammetta), quasi a sollevare
l'animo del lettore dalla
tristezza di tante tragedie,
ragiona "di ciò che ad alcuno
amante, dopo alcuni fieri o
sventurati accidenti,
felicemente avvenisse". Sono
dunque tutte storie a lieto
fine. Tra le altre, certo non
meno finemente lavorate ma di
minor peso (Cimone, Pietro
Boccamazza e l'Agnolella, la
presunta figliola di Guidotto da
Cremona, l'allegra storia del
canto degli usignuoli, la
romanzesca vicenda di Teodoro e
della Violante), si levano qui,
per altezza d'arte e suggestione
poetica, la storia di Gostanza
da Lipari, quella di Nastagio
degli Onesti , e quella di
Federigo degli Alberighi.
Gostanza dopo molte avventure e
lunghe disperazioni, riesce
miracolosamente a superare gli
ostacoli che si opponevano al
suo matrimonio con l'amato
Martuccio Gomito. Nastagio degli
Onesti, straziato da un infelice
amore, giunge a piegare il cuore
dell'indifferente giovinetta da
lui amata, sfruttando in modo
impensato una visione infernale:
ritiratosi infatti nella pineta
di Chiassi, "quivi vede cacciare
ad un cavaliere una giovine, e
ucciderla e divorarla da due
cani"; viene a sapere dal
cavaliere che questa pena è loro
assegnata dalla giustizia
divina, perché la donna, molti
anni innanzi, con la sua
incrollabile crudeltà, l'aveva
ridotto al suicidio; e gli basta
far assistere la giovinetta
amata alla terribile scena (che
si svolge ogni venerdì) per
persuaderla senz'altro a
sposarlo. Federigo degli
Alberighi, dopo d'aver consumato
invano le sue sostanze per
conquistare, col lusso e la
magnificenza, il cuore di monna
Giovanna, riesce invece a
commuoverla sopportando
nobilmente la miseria, e
mostrando in essa l'eroica
pertinacia del suo amore e
l'estrema gentilezza del suo
animo. Nella Giornata VI la
regina Elisa invita ad argomenti
più leggeri: si tratterà di chi
"con alcuno leggiadro motto
tentato, si riscotesse, o con
pronta risposta o avvedimento
fuggì perdita o pericolo o
scorno". Tuttavia, anche in
questa giornata di semplici
motti arguti o spiritose
risposte, l'arte del Boccaccio
trova modo di lasciare i segni
della sua efficacia e della sua
potenza: sarà la suggestiva
figura di Guido Cavalcanti,
evocata con magica semplicità
sullo sfondo della Firenze
dantesca; l'arguzia di Giotto
dipintore; l'allegro cinismo di
madonna Filippa; l'indovinatissima
macchietta di Chichibio, il
cuoco di Currado Gianfigliazzi,
il quale trova il coraggio di
sostenere al padrone che le gru
hanno una gamba sola, e riesce,
con una spiritosaggine, a
sfuggire al meritato castigo; o
la fiera gentilezza popolana di
Cisti fornaio, che guadagna il
rispetto e l'amicizia del gran
signore Geri Spina.
La serie è chiusa dal famoso
racconto di frate Cipolla
l'arguto questuante ha promesso
agli ingenui contadini di
Certaldo di mostrar loro una
penna "dello Agnolo Gabriello";
al momento di aprire la scatola
che conteneva la preziosa
reliquia, si accorge che qualche
burlone gli ha sostuito la penna
con dei carboni; ma non si perde
d'animo, li presenta alla folla,
sostenendo "esser di quegli che
arrostirono san Lorenzo", e
corona 1a sua vittoria con un'eloquentissima
improvvisazione: un grottesco e
malizioso discorso nel quale
l'arte del Boccaccio sfoggia
tutta la sua inarrivabile vis
comica, in uno sbalorditivo
turbinare di bislacche
invenzioni, di felicissime
trovate e di incalzanti arguzie.
La Giornata VII (Dioneo)
promette fin dall'inizio un
gruppo di licenziose favole, ed
è quella che più concorse,
unitamente alla III, a conferire
al capolavoro del Boccaccio una
fama scandalistica in parte
immeritata. In essa "si ragiona
delle beffe le quali, o per
amore o per salvamento di loro,
le donne hanno già fatte a suoi
mariti, senza essersene
avveduti, o sì". E qui la
fantasia del Boccaccio si
sbizzarrisce nel congegnare, su
temi tradizionali o nuovi, una
quantità di stravaganti e salaci
avventure, alcune delle quali
balzano di prepotenza nel cielo
dell'arte, in virtù di una
specie di eroica enormità (Peronella,
con l'amante nella botte; la
moglie di Tofano e il suo finto
suicidio; la stupefacente
mistificazione di Lidia ...).
Questi sollazzevoli argomenti
offrono materia anche alle
novelle della Giornata VIII
(Lauretta), che è la famosissima
giornata delle burle, quella che
presenta il prestigioso
personaggio di Calandrino, coi
suoi non meno celebri amici
Bruno e Buffalmacco. Vi si trova
il bellissimo episodio burlesco
degli amori rusticani del
pievano di Varlungo e della
Belcolore. Un lungo racconto
largamente spassoso e finemente
elaborato, è quello di maestro
Simone, il medico ignorante e
semplicione che crede all'arte
magica, ed è da Bruno e
Buffalmacco comicamente
lusingato e atrocemente
schernito. Ma la figura di
Calandrino grandeggia e s'impone
nella famosissima novella
dell'elitropia: la pietra che
rende invisibile chi la porta,
della cui esistenza egli vien
persuaso dai due indivisibili
compari in società con l'astuto
Maso del Saggio; onde una serie
di incidenti, di situazioni, di
gesti e di battute di
insuperabile comicità. Il tema
della dabbenaggine di
Calandrino, vittima predestinata
degli allegri e crudeli
complotti dei soliti amici,
ricompare più avanti, con la
mirabolante storiella del furto
di un porco, e offre poi
materia, nella Giornata
seguente, ad altre due novelle:
nella prima di esse Bruno e
Buffalmacco, con la complicità
di maestro Simone, riescono
semplicemente a far credere a
Calandrino che egli è gravido;
nella seconda gli dànno a
intendere che, in virtù di un
certo miracoloso "breve",
nessuna donna gli potrà
resistere, e si godono
l'inevitabile delusione. Siamo
con queste due ultime narrazioni
nella Giornata IX, nella quale
Emilia crede bene di concedere a
ciascuno la libertà di
raccontare "secondo che gli
piace, e di quello che più gli
aggrada". Specialmente notevoli
qui, per la finezza
dell'esecuzione, due licenziosi
racconti: l'avventurosa notte di
Pinuccio all'osteria del Pian di
Mugnone, e l'incantesimo di
Donno Gianni; nonché il curioso
apologo dei due giovani "che
domandano consiglio a Salomone
", e la sconcertante favola del
sogno di Talano di Molese. Più
rinomate delle altre, a causa
dei personaggi che vi figurano,
oltreché pel loro pregio
intrinseco, due altre novelle;
una "dantesca": la storia della
beffa fatta da Biondello a
Ciacco e la rivalsa del
famigerato ghiottone il quale
sfrutta astutamente a tal fine
la leggendaria iracondia di
messer Filippo Argenti; l'altra,
che narra una pittoresca
disavventura di Cecco Angiolieri,
derubato e beffato da un suo
compagno di bagordi. Con la
decima e ultima Giornata il
Boccaccio ha voluto coronar
l'opera sua nel modo più nobile,
con l'esaltazione di quella
"cortesia" che appariva alla
cavalleresca mentalità medievale
come la più alta virtù mondana,
la più degna guida al nostro
vivere di quaggiù. Non molto
significativa la prima novella:
del cavaliere cui sembra che il
re Alfonso di Spagna sappia mal
riconoscere i suoi meriti, e
deve poi persuadersi della
magnanimità di quel signore.
La storia di Sofronia, che la
generosità di Gisippo ateniese
cede all'amico Tito Quinzio
Fulvo, avvolge molti gustosi
particolari in raffinate
preziosità romanzesche di gusto
prettamente medievale; ma la
delicata femminilità di madonna
Dianora e la gara di generosità
del marito e dell'innamorato
messer Ansaldo portano nella
strana favola dell'orto fiorito
una penetrante nota di umanità;
quella stessa che fa commovente
ancor oggi l'inverosimile
avventura di Gentile de'Carisendi,
salvatore e scrupolosissimo
ospite della moglie di
Niccoluccio, da lui amata. Con
Ghino di Tacco, il brigante
gentiluomo, improvvisato medico
dell'abate di Cligny, torniamo
al motivo avventuroso che trova
qui un nuovo e squisito sapore.
Le storie di re Carlo vecchio,
che sa vincere la sua folle
passione per una giovinetta, e
di re Pietro d'Aragona, che
guarisce la Lisa inferma per
amore di lui, dànno al Boccaccio
l'occasione per ricamare su
tenuissimi motivi due favole
singolarmente suggestive, nella
loro estrema delicatezza. Nella
favola di Mitridanes che, geloso
dell'insuperabile fama di
liberalità del vecchio Natan,
vuole ucciderlo, trova il rivale
disposto a donargli la vita, e,
vergognandosi del suo efferato
proposito, si sente legato a lui
di affetto filiale, il Boccaccio
raggiunge talora il sublime.
Siamo qui in una rarefatta
atmosfera dove l'arte nasce
dalla stessa felicità della
mente, assorta nel vagheggiare
una specie di perfezione morale
che riesce a essere
assolutamente ideale e mondana
al tempo stesso: da una nobile
fantasia che si compiace di
immaginare un mondo dove i casi
più strani e la stessa magìa si
offrono docilmente ad appagare i
suoi desideri. In questo campo
la novella di messer Torello
trova forme narrative d'una
perfezione poetica ariostesca.
La storia dell'onesto borghese
di Pavia, che incontra il
Saladino in incognito, e lo
onora senza conoscerlo,
semplicemente come ospite e
straniero, e poi, crociato e
prigioniero, è da lui
riconosciuto e ricompensato con
un impossibile beneficio,
arricchendosi di pagina in
pagina di preziosi particolari,
fino alla sua felice
conclusione, compie per forza
d'arte il miracolo di farci
ritrovare la più palpitante
umanità nel cuore stesso della
più inverosimile vicenda. La
moralissima storia di Griselda
(la programmatica favola volta a
esaltare fino al paradosso le
più tradizionali virtù
femminili, che tanto piacque al
Petrarca, il quale la tradusse
in latino) compie con
un'impensata variazione di tono
le cento novelle. L'eccezionale
varietà della materia, dei modi
stilistici e degli atteggiamenti
spirituali, come fece del
Decàmeron un'opera unica nella
storia delle letterature
moderne, così favorì le più
svariate interpretazioni sul
carattere e sul vero senso di
questo capolavoro. La critica
tradizionale, rappresentata
specialmente dai retori e dai
grammatici del Rinascimento,
accettandolo semplicemente come
un singolare monumento di arte
narrativa, volle vederci
soprattutto un modello di stile:
dimenticando le audacie
linguistiche e persin dialettali
e l'immediatezza e la disinvolta
brevità di tante pagine, additò
nel Boccaccio il più perfetto
modello di uno stile italiano
che avesse acclimatato e
rinnovato tutti i pregi
tradizionali e la sovrabbondante
venustà del latino classico,
creando così il fittizio ideale
di uno "stile boccaccesco" che
tutti i prosatori italiani
dovevano imitare, come facevano
i poeti col Petrarca. La critica
romantica rivendicò il valore
umano e la straordinaria
ricchezza artistica di questo
capolavoro; ma volle, col De
Sanctis, intenderlo soprattutto
come un'espressione dello
spirito dei tempi nuovi,
imponente documento del trionfo
della nuova società borghese che
irrideva alla Chiesa medievale e
al Feudalesimo, preconizzando il
trionfo di una nuova civiltà. I
moderni in parte invalidarono e
in parte corressero questi
schemi: come la Divina Commedia
benché su un piano
necessariamente meno sublime, il
Decàmeron racchiude in sé molti
fermenti e anticipa non pochi
motivi della civiltà umanistica
(basterebbero a dimostrarlo la
grande libertà spirituale e la
innegabile disinvoltura rispetto
all'ultraterreno); ma riassume e
interpreta soprattutto, alla
luce dell'arte, gli elementi
caratteristici dell'estrema età
medievale, del costume, delle
idee, e delle passioni dei tempi
suoi. Ed esso è prima d'ogni
altra cosa l'opera di un
narratore di genio, il quale vi
raccolse tutte le sue esperienze
di vita, il frutto delle sue
letture classiche e romanze, il
gusto di cogliere, vagheggiare e
fissare nella sua prosa la
straordinaria varietà delle
passioni che agitano il cuore
umano, dei casi della fortuna,
delle gioie e delle sventure,
delle reazioni che destano negli
animi dei personaggi della
mondana commedia gli eventi più
strani come i più comuni, i
fatti più tragici come le
situazioni più fruste e
ridevoli. Per una certa sensuale
malizia che traluce da non poche
sue pagine, alcuni dissero il
Boccaccio esaltatore dei trionfi
della carne; per la simpatia che
egli spesso testimonia per gli
spiriti spregiudicati e astuti,
liberi da pregiudizi, abili e
capaci, altri lo chiamò "poeta
dell'intelligenza"; altri ancora
notò come caratteristica
fondamentale il gusto
dell'avventura. In realtà il
Decamerone, malgrado le sue
tante apparenze, non è né
irriverente, né cinico, né
bigotto, né sensuale, né
idealista, e il Boccaccio appare
al tempo stesso come il più
disinteressato e il più
largamente umano dei narratori.
Mario Bonfantini
Il Boccaccio vezzeggia la lingua
da innamorato. Diresti ch'ei
vedesse in ogni parola una vita
che le fosse propria, né
bisognosa altrimenti d'essere
animata dall'intelletto.
(Foscolo).
La Fontaine ha riso nel
Boccaccio - dove Shakespeare si
sciolse in lacrime. (De Musset).
Ciò che muove il mondo del
Decamerone non è Dio né la
scienza, ma è l'istinto e
l'inclinazione naturale, vera e
violenta reazione contro il
misticismo. (De Sanctis).
Il Decàmeron, la commedia umana
di Giovanni Boccaccio, è la sola
opera comparabile per
universalità alla Commedia
Divina di Dante. (Carducci).
Quello che noi chiamiamo
allegra, gaia, è la sua
sintassi... Boccaccio è come
Giorgione. Nei colori e nelle
parole hanno filtrato raggi del
sole di maggio. (E. D'Ors).
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