IL SITO DELLA LETTERATURA

 Autore Luigi De Bellis   
     

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IL CINQUECENTO

COMBATTIMENTO TANCREDI E CLORINDA

 

Il poeta si avvicina al gran momento del duello, seguendo le due figure dei protagonisti immerse in un clima di solitudine, quella solitudine che da fisica realtà si farà nel duello realtà morale: Clorinda prima («... e chiusa / è poi la porta, e sol Clorinda esclusa. / Sola esclusa ne fu...») e poi Tancredi («Solo Tancredi avien che lei conosca...»). E si arriva al feroce scambio di parole («Guerra e morte») che unisce e divide i due combattenti in un sentimento d'odio e in un'azione di sangue. Il duello è profondamente diverso dagli altri duelli che si incontrano lungo il poema. Non c'è più un interesse tecnico come nel duello fra Tancredi ed Argante. Il Tasso accenna per un momento nell'ottava 55' all'«arte», ma solo per negarla subito: «Non schivar, non parar, non ritirarsi / voglion costor, né qui destrezza ha parte. / Non danno i colpi or finti, or pieni, or scarsi; / toglie l'ombra e 'l furor l'uso de l'arte». E si osservi questa nota dell'«ombra» che approfondir sce l'atmosfera notturna. diffusa fin dal principio sul canto e che costituisce lo tendo suggestivo del primo tempo del duello. Nell'ottava precedente il poeta, dopo di avere intonato su di un registro scenografico la sua voce («Degne d'un chiaro sol, degne d'un pieno / teatro, opre sarian sì memorande»), aveva rivolto la sua invocazione alla notte («Notte, che nel profondo oscuro seno / chiudesti e ne l'oblio fatto sì grande...»): ma se l'avvio del grande episodio si compone in forma decorativa denunziando una tendenza all'impostazione teatrale,, si tratta anche qui di un semplice momento iniziale presto lasciato. E la notte è motivo che, lungi dal ridursi ad offrire l'appiglio di una scenografica decorazione, si risolve in poetica nota di un paesaggio che, ponendosi quale sfondo e commento dell'episodio va trascolorando da una cupa tonalità verso celesti splendori. E' un trascolorare che trova il suo punto dinamicamente espressivo nell'ottava 58a, quando il poeta segna il vanire dell'ultima stella in cielo e il sorgere del primo chiarore mattutino («Già de l'ultima stella il raggio langue / al primo albor ch'è in oriente acceso»), e mentre viene così a indicare la durata del duello e soprattutto a rendere possibile il riconoscimento di Clorinda («La vide, la conobbe...»), sviluppa questo delicato tema paesistico che accompagna il mutare di Clorinda, l'albeggiare in lei di un'anima femminile e di un'anima cristiana. Lo stesso cielo metafisico che si apre davanti a Clorinda morente all'ottava 68' («e in atto di morir lieto e vivace, / dir parea: - S'apre il cielo, io vado in pace. -») e quello metaforico che interviene nell'ottava successiva per partecipare alla fine pietosa della donna («D'un bel pallore ha il bianco volto asperso, / come a' gigli sarian miste viole: / e gli occhi al cielo affisa; e in lei converso / sembra per la pietate il cielo e '1 sole»), questo cielo sembra acquistare un significato concreto e diventare un cielo reale, un cielo illuminato dal sole, in cui finalmente si schiuda quel cielo notturno sotto cui si era aperta la scena del duello, l'approdo, in cui simbolo e realtà si confondono, di tutto un processo di trasfigurazione umana e poetica. Ma accanto all'emozione visivo-paesistica si pone un'altra emozione, acustico-musicale, che muovendo dal fragore del duello («Odi le spade orribilmente urtarsi») e dalle parole di esito rabbioso che interrompono il silenzio che grava sulla breve sosta del duello, si raddolcisce nelle parole di Clorinda morente («In queste voci languide risuona / un non so che di flebile e soave»), piange nel mormorio del ruscello («Poco quindi lontan nel seri del monte / scaturia mormorando un picciol rio»), sussurra nella formula battesimale pronunziata da Tancreti («Mentre egli il suon de' sacri detti sciolse...») e si spegne infine in gesto e silenzio («e la man nuda e fredda alzando verso / il cavaliero, in vece di parole / gli dà pegno di pace» che è uno di quei grandi gesti della storia della poesia che non si dimenticano più). Il trascolorante movimento di queste emozioni su di un arco che abbraccia l'intero episodio, segnandone anzi lo sviluppo con straordinaria forza suggestiva e raffinata sapienza stilistica, collabora attivamente al formarsi di quell'atmosfera intrisa di pathos e di solitudine che aleggia su tutta la vicenda del duello e della morte di Clorinda. La pressione dell'atmosfera patetica si fa anzi così incontenibile da prorompere oltre i simboli figurativi in un aperto intervento del poeta, che entra nel quadro dell'oggettiva rappresentazione ed esclama e interroga e sottolinea gli eventi e si rivolge ai personaggi: «Misero, di che godi? oh quanto mesti / fiano i trionfi, ed infelice il vanto! / Gli occhi tuoi pagheran (se in vita resti) / di quel sangue ogni stilla un mar di pianto»; «Ma ecco omai l'ora fatale è giunta, / che 'l viver di Clorinda al suo fin deve». (E si vedano le ottave 58a, 62a, 67a, dove il linguaggio esclamativo si fa particolarmente sentire). Il canto della solitudine raggiunge qui, nell'ultimo e più intenso e reale incontro di Tancredi e Clorinda (altri incontri saranno labili o illusorie parvenze d'oltretomba), la sua voce più appassionata e dolente. La condizione patetica di questo amore, fondata sull'impossibilità di un incontro d'anime, sul destino di lontananza che l'accompagna, ritorna qui più intensa che mai nel momento in cui ai due giovani sarà infine concesso di superare quello spazio fisico che costantemente li tiene separati, solo per abbracciarsi da nemici nel duello, ignoti l'uno all'altra, in un'infinita distanza morale (mentre, quasi in una trascendentale crudele ironia, o meglio in una tragica fatale contraddizione, passerà nel verso un'allusione rabbrividente di sensualità: «... il cavalier la donna stringe / con le robuste braccia»): Clorinda sempre remota nella sua incomprensione di guerriera, e come fatta più remota ancora dal suo rifiuto di palesare il nome («Risponde la feroce: - Indarno chiedi / quel c'ho per uso di non far palese...» ); Tancredi, a sua volta, ignaro e intento solo a ferire la persona che gli sta di fronte («Vede Tancredi in maggior copia il sangue / del suo nemico, e sé non tanto offeso. / Ne gode e superbisce...» ; «Spinge egli il ferro nel bel seri di punta, / che vi s'immerge, e'1 sangue avido beve...» ); l'uno e l'altra divisi per sempre dalla morte, proprio sul punto in cui la bella guerriera si farà vicina a Tancredi nella dolcezza del suo volto e del suo umano parlare («Amico, hai vinto: io ti perdòn... perdona / tu ancora, al corpo no, che nulla pave, / a l'alma sì: deh! per lei prega, e dona / battesmo a me ch'ogni mia colpa lave...» ), una dolcezza che neppura allora, nella morte, sarà quella dell'amore da Tancredi sognato (ché, come bene osserva il Croce, «Clorinda non ha sofferto l'amore sulla. terra e non lo conosce morente se non nel suo superamento e distanziamento»): sicché a Tancredi non resterà che pianto e disperazione, sconsolato per sempre dall'infrangersi di quel sogno che era fiorito fin dall'inizio del poema e tanto a lungo era stato inseguito e vagheggiato. In questo -episodio, in cui la poesia del Tasso raggiunge alcune delle sue tonalità più pure e profonde, si manifesta in simboli lirici di un'assoluta bellezza il gran tema centrale operante nella Gerusalemme, il tema dell'anima protesa in un'assorbente illusione e presto travolta in amaro e fatale disinganno.

Forma di simulazione, artificio, rappresentazione fittizia, come ne La Cavaletta overo de la poesia toscana («I poeti dunque sono simulatori, e i musici e gli istrioni: e particolarmente la scena simula l'azione de gli eroi, come dice Aristotele; e allora l'arte de' poeti sarà ne la somma eccelenza che sarà ne la somma simulazione»), la poesia si invera nel suo statuto di teatro della memoria, palcoscenico che investe di luce l'azione eroica, che strappa all'oscurità dell'oblio il «fatto sì grande», per tramandarne il ti cordo «a le future età». L'antica funzione eternatrice di gloriose gesta della poesia epica si caratterizza, nell'età del Tasso, attraverso l'emblema del teatro. Le ottave celeberrime del duello fra Tancredi e Clorinda stabiliscono il nesso tra la natura scenica del morire eroico e la memoria del canto:

 

  Degne d'un chiaro sol, degne d'un pieno
teatro, opre sarian sì memorande.
Notte, che nel profondo oscuro seno
chiudesti e ne l'oblio fatto sì grande,
piacciati ch'io ne 'l tragga e 'n bel sereno
a le future età lo spieghi e mande.
Viva la fama loro; e tra lor gloria
splenda del fosco tuo l'alta memoria
 


La perigliosa dialettica di oblio e memoria appare una sorta di scaturigine originaria, di vena profonda che alimenta il canto della Liberata. Se, con la morte, l'oscurità e il silenzio, metafore corpose dell'oblio, incalzano da presso le possibilità dell'azione umana, l'occasione di salvezza passa, secondo la tipologia inaugurata dall'ottava di invocazione alla memoria del i canto, per il rammemorare della poesia. Il conflitto buio-luce, memoria-oblio sta in relazione col potere salvifico, con la facoltà della poesia di opporsi alla rovina.
Nella lotta tra «notte» e «sole», «oscuro» («oblio») e «sereno» («memoria»), la profondità dello sguardo melanconico che vede l'ombra delle cose morte e oscure ha il potere di fissarsi su di esse, di scavare nel buio riportandole alla luce, rovesciando la perdita in acquisto, secondo l'ambivalenza della melanconia. Ma il fondamento di ciò è l'ostensione, la mostra, secondo la metafora del sole che illumina il gesto, fissandolo per sempre nella memoria, sottratto all'ombra dell'oblio. Ché il tema della memoria (e qui ancora se ne potrà verificare il carattere e lo spessore epocale) si presenta strettamente intrecciato con le dinamiche dell'ostensione, con la mobile trama di impulsi affettivi profondi e di costumanze sociali che regola le forme del mostrarsi e la brama di penetrazione dello sguardo. Apparire, mostrarsi, «offendere» la vista, sono i termini di un gioco dialettico che salda, negli episodi centrali della Liberata, i motivi della fama e del teatro
al tema fondamentale dell'ostensione, della brama dell'«esser conosciuto». Giacché fondamentale appare, nell'età del Manierismo, l'esposizione allo sguardo dell'altro, cui sta di conferire consistenza e durata all'essere periclitante del soggetto.

 

© 2009 - Luigi De Bellis