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IL CINQUECENTO
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COMBATTIMENTO TANCREDI E
CLORINDA
Il poeta si avvicina al gran
momento del duello, seguendo le
due figure dei protagonisti
immerse in un clima di
solitudine, quella solitudine
che da fisica realtà si farà nel
duello realtà morale: Clorinda
prima («... e chiusa / è poi la
porta, e sol Clorinda esclusa. /
Sola esclusa ne fu...») e poi
Tancredi («Solo Tancredi avien
che lei conosca...»). E si
arriva al feroce scambio di
parole («Guerra e morte») che
unisce e divide i due
combattenti in un sentimento
d'odio e in un'azione di sangue.
Il duello è profondamente
diverso dagli altri duelli che
si incontrano lungo il poema.
Non c'è più un interesse tecnico
come nel duello fra Tancredi ed
Argante. Il Tasso accenna per un
momento nell'ottava 55'
all'«arte», ma solo per negarla
subito: «Non schivar, non parar,
non ritirarsi / voglion costor,
né qui destrezza ha parte. / Non
danno i colpi or finti, or
pieni, or scarsi; / toglie
l'ombra e 'l furor l'uso de
l'arte». E si osservi questa
nota dell'«ombra» che
approfondir sce l'atmosfera
notturna. diffusa fin dal
principio sul canto e che
costituisce lo tendo suggestivo
del primo tempo del duello.
Nell'ottava precedente il poeta,
dopo di avere intonato su di un
registro scenografico la sua
voce («Degne d'un chiaro sol,
degne d'un pieno / teatro, opre
sarian sì memorande»), aveva
rivolto la sua invocazione alla
notte («Notte, che nel profondo
oscuro seno / chiudesti e ne
l'oblio fatto sì grande...»): ma
se l'avvio del grande episodio
si compone in forma decorativa
denunziando una tendenza
all'impostazione teatrale,, si
tratta anche qui di un semplice
momento iniziale presto
lasciato. E la notte è motivo
che, lungi dal ridursi ad
offrire l'appiglio di una
scenografica decorazione, si
risolve in poetica nota di un
paesaggio che, ponendosi quale
sfondo e commento dell'episodio
va trascolorando da una cupa
tonalità verso celesti
splendori. E' un trascolorare
che trova il suo punto
dinamicamente espressivo
nell'ottava 58a, quando il poeta
segna il vanire dell'ultima
stella in cielo e il sorgere del
primo chiarore mattutino («Già
de l'ultima stella il raggio
langue / al primo albor ch'è in
oriente acceso»), e mentre viene
così a indicare la durata del
duello e soprattutto a rendere
possibile il riconoscimento di
Clorinda («La vide, la
conobbe...»), sviluppa questo
delicato tema paesistico che
accompagna il mutare di
Clorinda, l'albeggiare in lei di
un'anima femminile e di un'anima
cristiana. Lo stesso cielo
metafisico che si apre davanti a
Clorinda morente all'ottava 68'
(«e in atto di morir lieto e
vivace, / dir parea: - S'apre il
cielo, io vado in pace. -») e
quello metaforico che interviene
nell'ottava successiva per
partecipare alla fine pietosa
della donna («D'un bel pallore
ha il bianco volto asperso, /
come a' gigli sarian miste
viole: / e gli occhi al cielo
affisa; e in lei converso /
sembra per la pietate il cielo e
'1 sole»), questo cielo sembra
acquistare un significato
concreto e diventare un cielo
reale, un cielo illuminato dal
sole, in cui finalmente si
schiuda quel cielo notturno
sotto cui si era aperta la scena
del duello, l'approdo, in cui
simbolo e realtà si confondono,
di tutto un processo di
trasfigurazione umana e poetica.
Ma accanto all'emozione
visivo-paesistica si pone
un'altra emozione,
acustico-musicale, che muovendo
dal fragore del duello («Odi le
spade orribilmente urtarsi») e
dalle parole di esito rabbioso
che interrompono il silenzio che
grava sulla breve sosta del
duello, si raddolcisce nelle
parole di Clorinda morente («In
queste voci languide risuona /
un non so che di flebile e
soave»), piange nel mormorio del
ruscello («Poco quindi lontan
nel seri del monte / scaturia
mormorando un picciol rio»),
sussurra nella formula
battesimale pronunziata da
Tancreti («Mentre egli il suon
de' sacri detti sciolse...») e
si spegne infine in gesto e
silenzio («e la man nuda e
fredda alzando verso / il
cavaliero, in vece di parole /
gli dà pegno di pace» che è uno
di quei grandi gesti della
storia della poesia che non si
dimenticano più). Il
trascolorante movimento di
queste emozioni su di un arco
che abbraccia l'intero episodio,
segnandone anzi lo sviluppo con
straordinaria forza suggestiva e
raffinata sapienza stilistica,
collabora attivamente al
formarsi di quell'atmosfera
intrisa di pathos e di
solitudine che aleggia su tutta
la vicenda del duello e della
morte di Clorinda. La pressione
dell'atmosfera patetica si fa
anzi così incontenibile da
prorompere oltre i simboli
figurativi in un aperto
intervento del poeta, che entra
nel quadro dell'oggettiva
rappresentazione ed esclama e
interroga e sottolinea gli
eventi e si rivolge ai
personaggi: «Misero, di che
godi? oh quanto mesti / fiano i
trionfi, ed infelice il vanto! /
Gli occhi tuoi pagheran (se in
vita resti) / di quel sangue
ogni stilla un mar di pianto»;
«Ma ecco omai l'ora fatale è
giunta, / che 'l viver di
Clorinda al suo fin deve». (E si
vedano le ottave 58a, 62a, 67a,
dove il linguaggio esclamativo
si fa particolarmente sentire).
Il canto della solitudine
raggiunge qui, nell'ultimo e più
intenso e reale incontro di
Tancredi e Clorinda (altri
incontri saranno labili o
illusorie parvenze
d'oltretomba), la sua voce più
appassionata e dolente. La
condizione patetica di questo
amore, fondata
sull'impossibilità di un
incontro d'anime, sul destino di
lontananza che l'accompagna,
ritorna qui più intensa che mai
nel momento in cui ai due
giovani sarà infine concesso di
superare quello spazio fisico
che costantemente li tiene
separati, solo per abbracciarsi
da nemici nel duello, ignoti
l'uno all'altra, in un'infinita
distanza morale (mentre, quasi
in una trascendentale crudele
ironia, o meglio in una tragica
fatale contraddizione, passerà
nel verso un'allusione
rabbrividente di sensualità:
«... il cavalier la donna
stringe / con le robuste
braccia»): Clorinda sempre
remota nella sua incomprensione
di guerriera, e come fatta più
remota ancora dal suo rifiuto di
palesare il nome («Risponde la
feroce: - Indarno chiedi / quel
c'ho per uso di non far
palese...» ); Tancredi, a sua
volta, ignaro e intento solo a
ferire la persona che gli sta di
fronte («Vede Tancredi in
maggior copia il sangue / del
suo nemico, e sé non tanto
offeso. / Ne gode e
superbisce...» ; «Spinge egli il
ferro nel bel seri di punta, /
che vi s'immerge, e'1 sangue
avido beve...» ); l'uno e
l'altra divisi per sempre dalla
morte, proprio sul punto in cui
la bella guerriera si farà
vicina a Tancredi nella dolcezza
del suo volto e del suo umano
parlare («Amico, hai vinto: io
ti perdòn... perdona / tu
ancora, al corpo no, che nulla
pave, / a l'alma sì: deh! per
lei prega, e dona / battesmo a
me ch'ogni mia colpa lave...» ),
una dolcezza che neppura allora,
nella morte, sarà quella
dell'amore da Tancredi sognato
(ché, come bene osserva il
Croce, «Clorinda non ha sofferto
l'amore sulla. terra e non lo
conosce morente se non nel suo
superamento e distanziamento»):
sicché a Tancredi non resterà
che pianto e disperazione,
sconsolato per sempre
dall'infrangersi di quel sogno
che era fiorito fin dall'inizio
del poema e tanto a lungo era
stato inseguito e vagheggiato.
In questo -episodio, in cui la
poesia del Tasso raggiunge
alcune delle sue tonalità più
pure e profonde, si manifesta in
simboli lirici di un'assoluta
bellezza il gran tema centrale
operante nella Gerusalemme, il
tema dell'anima protesa in
un'assorbente illusione e presto
travolta in amaro e fatale
disinganno.
Forma di simulazione, artificio,
rappresentazione fittizia, come
ne La Cavaletta overo de la
poesia toscana («I poeti dunque
sono simulatori, e i musici e
gli istrioni: e particolarmente
la scena simula l'azione de gli
eroi, come dice Aristotele; e
allora l'arte de' poeti sarà ne
la somma eccelenza che sarà ne
la somma simulazione»), la
poesia si invera nel suo statuto
di teatro della memoria,
palcoscenico che investe di luce
l'azione eroica, che strappa
all'oscurità dell'oblio il
«fatto sì grande», per
tramandarne il ti cordo «a le
future età». L'antica funzione
eternatrice di gloriose gesta
della poesia epica si
caratterizza, nell'età del
Tasso, attraverso l'emblema del
teatro. Le ottave celeberrime
del duello fra Tancredi e
Clorinda stabiliscono il nesso
tra la natura scenica del morire
eroico e la memoria del canto:
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Degne d'un chiaro sol,
degne d'un pieno
teatro, opre sarian sì
memorande.
Notte, che nel profondo
oscuro seno
chiudesti e ne l'oblio
fatto sì grande,
piacciati ch'io ne 'l
tragga e 'n bel sereno
a le future età lo
spieghi e mande.
Viva la fama loro; e tra
lor gloria
splenda del fosco tuo
l'alta memoria |
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La perigliosa dialettica di
oblio e memoria appare una sorta
di scaturigine originaria, di
vena profonda che alimenta il
canto della Liberata. Se, con la
morte, l'oscurità e il silenzio,
metafore corpose dell'oblio,
incalzano da presso le
possibilità dell'azione umana,
l'occasione di salvezza passa,
secondo la tipologia inaugurata
dall'ottava di invocazione alla
memoria del i canto, per il
rammemorare della poesia. Il
conflitto buio-luce,
memoria-oblio sta in relazione
col potere salvifico, con la
facoltà della poesia di opporsi
alla rovina.
Nella lotta tra «notte» e
«sole», «oscuro» («oblio») e
«sereno» («memoria»), la
profondità dello sguardo
melanconico che vede l'ombra
delle cose morte e oscure ha il
potere di fissarsi su di esse,
di scavare nel buio riportandole
alla luce, rovesciando la
perdita in acquisto, secondo
l'ambivalenza della melanconia.
Ma il fondamento di ciò è
l'ostensione, la mostra, secondo
la metafora del sole che
illumina il gesto, fissandolo
per sempre nella memoria,
sottratto all'ombra dell'oblio.
Ché il tema della memoria (e qui
ancora se ne potrà verificare il
carattere e lo spessore epocale)
si presenta strettamente
intrecciato con le dinamiche
dell'ostensione, con la mobile
trama di impulsi affettivi
profondi e di costumanze sociali
che regola le forme del
mostrarsi e la brama di
penetrazione dello sguardo.
Apparire, mostrarsi, «offendere»
la vista, sono i termini di un
gioco dialettico che salda,
negli episodi centrali della
Liberata, i motivi della fama e
del teatro
al tema fondamentale
dell'ostensione, della brama
dell'«esser conosciuto». Giacché
fondamentale appare, nell'età
del Manierismo, l'esposizione
allo sguardo dell'altro, cui sta
di conferire consistenza e
durata all'essere periclitante
del soggetto.
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