IL SITO DELLA LETTERATURA

 Autore Luigi De Bellis   
     

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IL CINQUECENTO

TASSO: LETTERE

 

Circa mille e settecento sono queste Lettere che Torquato Tasso scrisse in vari periodi della sua vita, e van considerate non solo come documento biografico, ma come parte integrante dell'opera tassesca. Già vivente il poeta e a sua insaputa, furon pubblicate le due raccolte di Lettere poetiche (1587), indirizzate ai revisori della Gerusalemme liberata, e di Lettere familiari (1588): e, se il Tasso si dolse di questa pubblicazione, progettò poi egli stesso di pubblicarle fra le sue prose. Benché dichiarasse di "non avervi posto alcuno studio", pur mostrava di farne stima, come di cosa letteraria, e più di una volta pregava i corrispondenti di conservarle. Alcune di queste lettere sono vere e proprie operette, tali, il paragone tra costumi e paesi d'Italia e di Francia, che si legge nella lettera giovanile a Ercole de'Contrari e che mostra quanto vivo e fresco senso delle cose avesse l'assorto e sognante poeta; l'elogio del matrimonio, inviato al cugino Ercole Tasso in occasione delle sue nozze; la lettera consolatoria alla vedova di Camillo Albizi, desunta in parte notevole da una consimile operetta di Plutarco. Ma anche in quelle che sono vere lettere, è evidente la cura dello stile: non manca neppure in molte di esse, come nei Dialoghi, lo sfoggio dell'erudizione e dell'abilità dialettica, sicché questo epistolario ne viene per certa parte aduggiato e aggravata la monotonia inevitabile della materia che consiste - poiché il maggior numero di queste lettere appartiene agli anni della reclusione in Sant'Anna e dei dolorosi vagabondaggi - in suppliche insistenti per ottenere la liberazione, in umili, troppo umili, richieste di doni e di aiuti e in lamenti sempre rinnovati. Quella dolente materia è però dominata da un'assidua sorveglianza di scrittura, e tanto maggior efficacia acquista, nei momenti migliori, la sua confessione dal tono misurato e severo, anche quando il suo spirito è più straziato e sconvolto. Famosa è l'ultima, all'amico Antonio Costantini ("Che dirà il mio signor Antonio, quando udirà la morte del suo Tasso?"), ma quella lettera non è un'eccezione solitaria e, anche prima di conoscere la serenità, relativa, di quell'ora estrema, il Tasso aveva saputo parlare con accenti persuasivi delle sue miserie e delle brevi speranze e talora persino ridurre a oggetto di un discorso pacato le proprie allucinazioni ("Sappia dunque che questi "disturbi" sono di due sorta: umani e diabolici. Gli umani sono grida di uomini, e particolarmente di donne e di fanciulli, e risa piene di scherni, e varie voci d'animali che dagli uomini per inquietudine mia sono agitati, e strepiti di cose inanimate che da le mani degli uomini sono mosse. I diabolici sono incanti e malie..." (lettera a Maurizio Cattaneo del 18 ottobre 1581). Talora, è vero, sembra di intravedere al di là della pagina, come non accade leggendo i Dialoghi, il volto sinistro della follia, piuttosto per qualche argomentazione pazzesca che per gridi incomposti; ma si può dire che nella prosa epistolare, al pari che in quella dei Dialoghi, la mente del Tasso abbia trovato un mezzo per salvarsi dalla dissoluzione e che alla sua salvezza abbia contribuito quella stessa immagine eroica, nella quale il poeta viene idoleggiando se stesso e la propria sventura ("la mia calamità grida così altamente che il suono delle sue voci mirabili arriva per l'universo" si legge nella lettera, che è delle più importanti, a Scipione Gonzaga). Quell'immagine era del resto l'espressione del suo innato bisogno di grandezza: e l'alto senso di sé, della sua dignità di poeta non vien meno per le continue preghiere e sa trovare talvolta, di fronte a soprusi e ingiustizie reali, accenti di fiera protesta. Né vien meno per la sventura lo spirito del cortigiano, che sa con eleganza tornire un complimento: scompare invece quel gusto dell'arguzia e dello scherzo, che gli aveva prima della sua sventura, ispirato, fra le altre: la briosa lettera del 16 gennaio 1577 a Orazio Ariosto. A parte vanno considerate le lettere scritte ai revisori del poema e all'amico Luca Scalabrino che soleva riferire al poeta le critiche di quei letterati. Quella revisione aveva voluto egli stesso, per essere più sicuro dell'approvazione degli uomini di Chiesa e di lettere, e si era per questo rivolto all'amico Scipione Gonzaga, che si era associati nel lavoro Pier Angelo Barga, Sperone Speroni, Flaminio de' Nobili e Silvio Antoniano: ma tra il poeta, dall'animo ancor vibrante della musica del capolavoro, e i critici, i quali avevan la mente a certe esigenze letterarie e religiose più che al poema in se stesso, doveva nascere fatalmente un dissidio, tanto più grave in quanto il Tasso non era in grado, né per la preparazione intellettuale né per la disposizione morale, di respingere le pretese dei revisori. Di qui il lavoro penoso per conciliare quella poesia, che egli non poteva sacrificare senza tradire la parte migliore di sé, e le richieste dei suoi critici, che si adombravano per i troppi amori, le troppe magie, gli episodi mal congiunti all'azione principale: le concessioni su qualche punto secondario, le promesse di più ampie modificazioni, le difese accanite con le armi dell'erudizione e della dialettica, di cui egli era ben ferrato, i sotterfugi per salvare a ogni costo il poema, quale l'escogitazione dell'allegoria, che ne avrebbe meglio disvelato il valore morale e religioso, dopoché egli aveva confessato di non credere affatto nelle allegorie poetiche. "Vorrei esser digiuno di cotesta revisione romana", gli sfugge detto in una di queste lettere, e, incapace di una franca ribellione, egli alterna le proteste di ossequio agli sfoghi con l'amico Scalabrino, col quale si fa beffe più d'una volta della pedanteria e dell'angustia mentale dei suoi censori e in special modo del severo Antoniano e del pretensioso Speroni. Non un eroe certo ci sta dinanzi, ma un poeta dalla eccessiva sensibilità, disarmato di fronte allo spirito dell'età sua, che si impersona nelle figure dei suoi censori: perciò queste lettere, che completano in certo qual modo i Discorsi del poema eroico e ci dànno un'idea viva del pensiero estetico del Tasso e dell'età sua, sono anche un documento psicologico di importanza unica per la conoscenza di un uomo e di una società.

 

Mario Fubini

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