|
IL DECADENTISMO
 |
 |
 |
 |
IL DECADENTISMO
Le
componenti culturali del
Decadentismo vanno individuate
nel “superomismo” di Nietzsche,
nell’ “intuizionismo” di Bergson
e nella scoperta dell'inconscio
di Freud.
Friedrich NIETZSCHE (1844-1900),
filosofo tedesco, afferma che il
sapere è falso e ipotetico
perché noi non possiamo che
conoscere le “apparenze” della
realtà, la quale invece è
costituita dalla “vita” dominata
dagli “istinti”. La gran massa
degli uomini (“branco”) è
istintivamente orientata verso
l’accettazione di un “capo”, di
un “padrone”, perché, essendo
incapace di scelte autonome, si
sente protetta nel seguire
quelle impostele dall’uomo
forte. Pochi sono invece gli
uomini dotati dell’istinto che
il filosofo definisce “la
volontà di potenza”, e sono
questi che hanno il diritto e il
dovere di elevarsi sulla massa e
di comandare (“superuomini”).
Inoltre, se la vita è dominata
dagli istinti, le varie “morali”
storiche (tra cui quella
cristiana) non hanno alcuna
ragione d’essere in quanto
fondate su principi astratti e
su infondate conoscenze della
realtà: queste morali sono
frutto della paura e vengono
accettate per vigliaccheria. Le
uniche morali possibili sono
quella dei padroni e quella dei
servi. La prima è fondata sulla
consapevolezza del superuomo che
è compito suo determinare e
affermare i “valori” e che a
nessun altro è dato di esprimere
giudizi sul suo operato.
Per il filosofo francese
Henri-Louis BERGSON (1859-1941)
la vita consiste in uno slancio
vitale che crea perennemente e
imprevedibilmente infinite
“forme” fuori del tempo e dello
spazio convenzionali, in quanto
il suo processo, puramente
spirituale, implica l’esistenza
di un unico indivisibile momento
ideale (“durata”) nel quale il
passato è conservato nel
presente e da questo nasce
spontaneamente il futuro. La
materia e la spazialità nascono
da un momento di inerzia dello
“slancio vitale”. Le scienze
positive possono darci nozioni
inerenti alla materia, ma solo
l’intuizione può rivelarci la
“durata”, può svelarci il
principio generatore della vita
(“intuizionismo”).
L’austriaco Sigmund FREUD
(1856-1939), fondatore della
psicanalisi, determinò la
presenza di tre livelli o zone
della psiche: l’inconscio, il
subconscio (o “subcoscienza”) e
la coscienza. La prima è la zona
più misteriosa dell’individuo
umano e rappresenta la sede
degli istinti più primordiali e
il campo di un’attività psichica
assolutamente libera da ogni
controllo della volontà. Questa
attività latente, che condiziona
enormemente l’evoluzione
psichica dell’individuo, è
all'origine della formazione dei
cosiddetti “complessi” e
pertanto costituisce un momento
assai rilevante nell’economia
esistenziale dell’uomo.
Addentrarsi nell’inconscio è
assai arduo: un tentativo
terapeutico, che si rivelò al
Freud abbastanza proficuo,
consiste nell’analisi dei sogni.
Il “subconscio” è una zona - al
limite della coscienza - in cui
dominano ancora gli istinti
naturali ma non senza che il
soggetto ne abbia una qualche
consapevolezza. La “coscienza” è
invece la sede in cui l’attività
psichica si esplica sotto il
dominio della volontà e, quindi,
applicando o non applicando
deliberatamente le norme del
vivere civile (in altre parole è
la sede in cui si manifestano la
“cultura” e la “moralità”
dell’individuo).
Come si vede da queste
rapidissime note, tutti e tre
gli studiosi considerati furono
ostili, per un verso o per un
altro, alle scienze positive,
contestarono la filosofia del
“positivismo” e diedero maggiore
importanza alle attività
istintive che a quelle razionali
dell’uomo.
Sotto questo aspetto essi da un
lato furono espressione delle
nuove esigenze spirituali che si
andavano diffondendo in Europa
alla fine dell’Ottocento ed agli
inizi del Novecento, dall’altro
valsero a chiarire ed
incrementare le nuove istanze.
La spiritualità decadentistica
presenta due aspetti
fondamentali: la consapevolezza
che la realtà della vita sia un
mistero che la ragione non potrà
mai spiegare e la scoperta di
una nuova dimensione della
psiche, l’inconscio, sede degli
istinti naturali, ove è
possibile attingere il senso
della realtà vera, ma solo
mediante l’intuizione, che
consiste in una improvvisa
folgorazione dello spirito. Ne
conseguono il ripudio di ogni
fiducia nella scienza e la
convinzione che solo la poesia,
mediante l’esplorazione
dell'inconscio, può svelare il
mistero della vita. La poesia,
quindi, viene assunta come
strumento di conoscenza.
E' chiaro che codesta sfiducia
nella razionalità e nei suoi
strumenti (le scienze), in
un'epoca in cui il positivismo
si sforzava di annunciare
l’avvento di una nuova età
dell’oro per l’umanità
affrancata, grazie alle
conoscenze scientifiche, da ogni
sorta di superstizione,
rappresenti una crisi di
coscienza: ogni qual volta si
mettono in discussione valori
culturali acquisiti, si apre una
crisi che è ad un tempo
intellettuale e morale. I
decadenti avvertirono questa
loro condizione di crisi e
furono consapevoli di
rappresentare una generazione di
“passaggio” da una civiltà ad
un’altra, ma non ebbero la forza
di elaborare un progetto
concreto, coerente ed integrale
di rinnovamento, sicché subirono
la propria esistenza storica
come un male, reagendo o con la
rassegnazione, piangendo su se
stessi, o con la ribellione,
aggredendo violentemente
l’ordine costituito, o con
l’evasione, dandosi all’alcool,
o con la rinuncia, suicidandosi.
Angoscia, senso di solitudine e
di impotenza, fragilità di
coscienza furono i tratti
distintivi della spiritualità
decadente, che trovò nell’arte
espressioni le più disparate
possibili, non riconducibili ad
alcun modello ideale.
La poetica dei decadenti si
sviluppa anzitutto sul terreno
di una accesa polemica
antirealistica, ma affonda le
sue radici sul ripudio delle
istituzioni sociali storiche e
della cultura tradizionale. Alla
poesia si affida il compito di
penetrare nel mistero della vita
attraverso l’esplorazione
dell’inconscio che solo il genio
poetico può attuare con le
proprie folgorazioni. La poesia
diviene, dunque, «la più alta
forma di conoscenza, l’atto
vitale più importante; deve
cogliere le arcane analogie che
legano le cose, scoprire la
realtà che si nasconde dietro le
loro apparenze esteriori,
esprimere i presentimenti e i
trasalimenti ineffabili che
affiorano al fondo dell’anima.
Per questo è concepita come pura
illuminazione, messaggio che
giunge da una zona remota,
opposta all’esperienza usuale, e
come espressione simbolica. Non
rappresenta più immagini o
sentimenti concreti, rinuncia al
racconto, alla proclamazione di
ideali; la parola non è usata
come elemento del discorso
logico, ma per la sua virtù
evocativa e suggestiva. E' come
una musica che suscita una
vibrazione indefinita, una sorta
di rivelazione» (Pazzaglia).
Da qui la tendenza alla
introspezione più attenta e
lucida ed alla confessione
spregiudicata delle proprie più
intime sensazioni. Da qui ancora
l’uso di un linguaggio
totalmente svincolato da ogni
norma grammaticale e l’adozione
di immagini simboliche
(“simbolismo”) che
intuitivamente possono far
cogliere l’analogia fra gruppi
di sensazioni diverse,
impossibile da spiegare sul
piano della logica, ma
necessaria da intendere se si
vuol pervenire alla conoscenza
del segreto della vita.
Come movimento letterario il
Decadentismo nasce in Francia
negli ultimi decenni
dell’Ottocento. In questo
periodo la poesia francese era
in gran parte espressa dal
movimento dei “parnassiani”,
cioè di quei poeti che
praticavano una poesia
“impassibile”, priva di ogni
legame con la morale e con la
vita sociale e attenta solo a
descrivere la realtà esterna in
maniera minuta, senza un minino
di partecipazione affettiva e
con uno stile esasperatamente
classicista: si erano essi
stessi definiti “parnassiani”
proprio per sottolineare che la
loro sede ideale era il mitico
monte Parnaso, ove non giungeva
neppure l’eco delle passioni
tipiche della vita attiva. Da
questi si distaccò un gruppo di
poeti, tra cui Paul Verlaine
(1844-1896), Arthur Rimbaud
(1854-1891) e Stéphane Mallarmé
(1842-1898), che intesero
rivolgersi alla lezione di
Charles Baudelaire (1821-1867),
secondo il quale la poesia
doveva attingere nel profondo
del cuore dell’uomo,
scandagliarne le più torbide
sensazioni, tentare di scoprire
la natura e la ragione di quel
misterioso legame che unisce
l’uomo all’universo. Essi,
pertanto, sulle orme del
Maestro, scandagliarono il fondo
della propria coscienza e misero
a nudo quelle “torbide
sensazioni” nelle quali il bene
e il male si legano
indissolubilmente. Le loro
poesie sono lo specchio in cui
si riflettono le loro angosce,
le loro frustrazioni, ma anche
le loro trasgressioni, le loro
ribellioni. Con i decadenti il
legame fra vita (intima e
individuale) e poesia si fece
sempre più stretto e sempre più
esasperata fu la ricerca e
spregiudicata la confessione
delle loro più intime
sensazioni. Verlaine coniò per
essi la definizione di “poeti
maledetti”.
Il Decadentismo ebbe però le sue
più compiute realizzazioni nel
campo della narrativa,
soprattutto quando si propagò
nel resto dell’Europa. A tal
riguardo gli esemplari più
ragguardevoli sono i romanzi “A
ritroso” (1884) del francese
Joris-Karl Huysmans (1848-1907),
“Il ritratto di Dorian Gray”
(1890) dell’inglese Oscar Wilde
(1854-1900) e “Il piacere”
(1891) di Gabriele D’Annunzio
(1863-1938).
Non per niente, quando si vuol
definire la tipologia dell’
“eroe” decadente, si fa
riferimento ai protagonisti dei
tre suddetti romanzi, dei quali
è opportuno presentare un breve
riassunto:
“A ritroso” di
Joris-Karl Huysmans:
Il duca Des Esseintes, che ha
condotto a Parigi un’esistenza
tutta dedita ai piaceri più
raffinati e privi di alcuna
regola morale, stanco dei limiti
che pur gli sono imposti dalle
circostanze del vivere in
società, decide di ritirarsi in
solitudine in una villa di
campagna per dedicarsi alla
pittura, alla letteratura ed
alla musica, ma soprattutto per
organizzare la propria vita in
modo del tutto opposto a quello
della volgare schiera degli
uomini comuni: vive di notte e
dorme di giorno, assume sostanze
corroboranti per via anale
anziché attraverso la bocca,
ecc., sempre con l’unico
desiderio di assaporare da tutto
ciò che lo circonda i più
sottili e preziosi piaceri che
sono ignorati dai più: giunge
finanche a realizzare un
miscuglio di raffinatissimi e
pregiati liquori che diano al
suo palato la sensazione
d’essere attraversato da una
musica paradisiaca. Ma l’eccesso
di questo impegno estetizzante e
l’imprevista insofferenza che
gli procura la solitudine gli
provocano una grave forma di
nevrosi, da cui si salva
ascoltando il consiglio dello
psichiatra che lo induce a
rientrare nei ranghi della vita
comune.
“Il ritratto di Dorian
Gray” di Oscar Wilde:
Il giovane Dorian Gray ottiene
in dono da un amico pittore un
suo ritratto e rimane egli
stesso abbagliato dalla bellezza
del suo volto, cui non aveva mai
dato eccessiva importanza. Con
la semplicità del giovane puro
ed onesto, qual egli è, esprime
il suo rammarico per il fatto
che, mentre egli sarà destinato
ad invecchiare, la sua immagine
sulla tela resterà sempre
giovane e bella, e fa il voto
che, a qualunque prezzo, avvenga
il contrario. Nello studio del
pittore è presente un nobile
dissoluto e spregiudicato che
convince Dorian ad approfittare
della propria bellezza per
godere al massimo dei piaceri
della vita. Dorian si lascia
irretire e da quel momento si
incammina sulla strada della
perversione più abbietta: non
prova alcun rimorso per il
suicidio della fidanzata
abbandonata e per la morte del
di lei fratello che viene
raggiunto occasionalmente da un
colpo di fucile di un incauto
cacciatore proprio mentre era
prossimo a vendicare su Dorian
la morte della sorella. Lo
stesso Dorian, in un impeto di
collera, uccide l’amico pittore
che vorrebbe ricondurlo sulla
retta strada.
Tutta questa dissolutezza non
lascia alcun segno sul volto di
Dorian, ma questi scopre che
invece il suo ritratto ha
acquisito un aspetto orribile e
reca sulla mano omicida una
vistosa macchia di sangue.
Capisce allora che il suo voto
si è adempiuto e, quasi
impazzito, vibra una pugnalata
al cuore del ritratto. In
effetti è un vero e proprio
suicidio, perché è lui che cade
morto col volto paurosamente ed
improvvisamente invecchiato e
deturpato (tanto che i servi
tardano a riconoscere il loro
padrone), mentre il volto
dipinto riacquista la sua
bellezza.
“Il piacere” di
Gabriele D'Annunzio:
Andrea Sperelli è un giovane
nobile che vive esclusivamente
per l’amore, per l’arte e per la
cultura. Sensibilissimo e
raffinatissimo, ha la tendenza
ad esasperare in maniera
estetizzante tutte le sue
esperienze esistenziali. Quando
la sua amante Elena Muti
l’abbandona senza alcun motivo,
Andrea cerca di confortarsi con
numerose avventure galanti,
finché incappa nella vendetta di
un amante tradito che lo ferisce
in duello. Rifugiatosi nella
casa di una cugina per farsi
curare, qui incontra una giovane
signora, anch’essa sensibile al
fascino dell’arte, con la quale
intreccia una relazione più
platonica che sensuale, finché
non ottiene il dono di una notte
d’amore. Ma proprio al culmine
dell’amplesso, Andrea, che
nell’inconscio sta rivivendo
l’amore per Elena, si lascia
sfuggire il nome di costei e
Maria, inorridita, scappa via
abbandonandolo nella
disperazione dell’amore perduto.
Come si vede da questi tre
esemplari, l’“eroe” decadente
tende a vivere la propria
esistenza come “opera d’arte”,
lasciandosi guidare più dai
propri istinti che dalla
razionalità e creando rapporti
singolari ed ambigui con la
realtà del vivere civile -
rapporti che potremmo definire
asociali - in virtù del proprio
sfrenato egocentrismo.
Fra i decadenti italiani
possiamo annoverare, ciascuno
col proprio “mito”, oltre al già
citato D’Annunzio (superuomo),
il Pascoli (fanciullino) ed il
Fogazzaro (santo).
Ma gli autori che rivelarono una
più profonda consapevolezza
della crisi esistenziale del
proprio tempo furono Luigi
Pirandello ed Italo Svevo.
Va però precisato che tutte le
tendenze poetiche dei primi
decenni del Novecento, dal
crepuscolarismo al futurismo,
dalla poesia pura alla poesia
ermetica, germogliano e vivono
nell’area della sensibilità
decadente.
|
|
|
| |
 |
 |
 |
 | |