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GIACOMO LEOPARDI
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I TRATTI SALIENTI DELLA
BIOGRAFIA LEOPARDIANA
Le interpretazioni di Leopardi
hanno sempre dovuto misurarsi
con alcuni dati biografici di
peso non trascurabile:
l'isolamento provinciale in cui
egli crebbe e da cui derivò una
formazione con caratteristiche
autodidattiche, anomale rispetto
alle tendenze dominanti nei
gruppi intellettuali del tempo;
la sua sostanziale estraneità
(che andò via via precisandosi
fino a manifestarsi in esplicito
dissenso) al quadro del
Risorgimento liberale; infine la
deformità, e la presenza
costante della malattia.
Partiamo dalla considerazione di
quest'ultimo elemento, che può
sembrare il più privato, ma che
attirò già l'attenzione malevola
dei contemporanei, nel momento
in cui Leopardi fu visto come
radicalmente diverso (critico
della società moderna, polemico
nei confronti della cultura
liberale e di ogni forma di
spiritualismo). Contro la
riduzione del suo pensiero allo
sfogo di un individuo sofferente
e frustrato egli stesso negli
ultimi anni di vita protestò
energicamente; per esempio,
scrivendo a un giovane amico -
il filologo svizzero Luigi De
Sinner nel 1832: «[ ... ] étant
amené par mes recherches à une
philosophie désespérante, je
n'ai pas hésité à 1'embrasser
toute entière; tandis que de l'autre
cóté ce n'a été que par effet de
la làcheté des hommes, qui ont
besoin d'étre persuadés du
mérite de l'existence, que l'ori
a voulu considérer mes opinions
philosophiques comme le résultat
de mes souffrances particulières,
et que l'ori s'obstine à
attribuer à mes circonstances
matérielles ce qu'on ne doit qu'à
mori enténdement. Avant de
mourir, je vais protester contre
cette invention de la faiblesse
et de la vulgarité, et prier mes
lecteurs de s'attacher à
détruire mes observations et mes
raisonnements plutót que d'accuser
mes maladies».
In seguito, per parecchio tempo
gli studiosi o hanno continuato
a presentare la condizione
fisica come un impedimento che
ostacolando la piena
affermazione di sé a cui
Leopardi tendeva avrebbe
prodotto un effetto di «vita
strozzata» (da cui sarebbero
derivati autocompatimento,
inazione, pessimismo) o l'hanno
volutamente ignorata, quasi
rifiutandosi di ammettere che il
dato materiale possa avere
un'incidenza apprezzabile sulle
idee. Si è giunti ora a una
conclusione più equilibrata,
grazie soprattutto a Sebastiano
Timpanaro, che ha sottolineato
come l'inferiorità fisica sia il
primo condizionamento di cui
Leopardi sperimenta la rigidità
e con cui si misura, cercando
però di trasformare l'esperienza
personale in uno strumento di
conoscenza della generale
condizione umana. «Bisogna
[invece] riconoscere che la
malattia dette al Leopardi una
coscienza particolarmente
precoce ed acuta del pesante
condizionamento che la natura
esercita sull'uomo,
dell'infelicità dell'uomo come
essere fisico».
Di un criterio analogo possiamo
servirci per interpretare altri
aspetti dell'esistenza
leopardiana: le caratteristiche
della famiglia e il destino
sociale a cui essa lo avviava
(una carriera ecclesiastica o
una vita da gentiluomo della
Restaurazione con interessi
letterari); i limiti dello Stato
pontificio in cui dominavano le
correnti reazionarie in politica
e classicistico-antiquarie tra i
dotti; la mancanza di autonomia
economica, sono altrettante
predeterminazioni da cui
Leopardi riuscì a svincolarsi
solo a prezzo di fatica e di
tempo (in una vita non lunga).
Ma esse gli fornirono anche
l'angolo visuale da cui valutare
il mondo e ragionare sulla
società, in base a una
particolare, dura esperienza.
Le relazioni con gli altri. Per
spiegarci l'isolamento in cui
Leopardi rimase conviene
ricorrere a ragioni non tanto
psicologiche, quanto inerenti
agli anni e alle situazioni
specifiche in cui egli si trovò
a operare. Leopardi cercò a
lungo un inserimento tra gli
intellettuali attivi: lontano
com'era, volle partecipare alle
discussioni tra classicisti e
romantici; accolse nelle sue
canzoni, tra il 1818 e il 1820,
le tematiche patriottiche che
erano quasi d'obbligo; accettò,
pur di uscire da Recanati, di
svolgere un lavoro «salariato»
in campo editoriale; in quegli
stessi anni - tra il 1825 e il
1827 - che segnano il distacco
dalla casa paterna e il suo
ingresso in una dimensione
pubblica di attività, egli
lasciò la poesia e si rivolse
alla prosa orientandosi con la
Crestomazia verso una linea di
ricerca che era tipica degli
scrittori impegnati civilmente
(individuare un modello di
lingua e di letteratura
italiana, indirizzarsi a un
pubblico di non specialisti e
proporgli pagine che dessero
«profitto e piacere»). Possiamo
dire insomma che a Leopardi,
nelle forme che gli erano
proprie (quelle cioè
dell'elaborazione di idee e di
linguaggio), non mancò affatto
la volontà di intervenire nel
suo tempo; ma la sua posizione
discordava in tutto (e in primo
luogo nel rifiuto di piegarsi a
ciò che era apparentemente e
immediatamente «utile» o
«attuale») da quelle degli
ambienti che egli poté
frequentare. Egli aveva di
fronte l'ampia articolazione
della cultura liberale, moderata
e cattolica (si pensi
soprattutto all'«Antologia» di
Vieusseux) con cui il suo
pensiero era incompatibile;
l'opera sua più filosofica - le
Operette morali - cadde infatti
nel silenzio e nella
disapprovazione.
Un pensiero anomalo, un
comportamento irregolare. Oggi
si tende a sottolineare
l'antagonismo di Leopardi alla
società del suo tempo, il valore
di «opposizione» che egli
espresse attraverso un intreccio
di pensiero filosofico, scelte
letterarie, comportamenti. Anche
i comportamenti infatti non
furono conformi alle regole
correnti tra gente del suo
rango, ma divennero il segno di
un distacco, assunto con gli
anni sempre più deliberatamente:
a Recanati, dove la malattia e
gli studi furono anche un mezzo
per sottrarsi alle consuetudini
della famiglia e del paese (alla
madre, per convincerla che è
meglio per tutti che egli viva
lontano, scrive nel 1832: «Ma
d'altronde, s'io tornassi
stabilmente costà, consumerei
pur molto in casa, e sarei di
grandissimo e continuo incomodo
coi miei metodi strani di vita,
e colla mia malinconia»);
nell'indigenza, accettata fino
in fondo pur di evitare
l'adattamento (al padre,
scusandosi di avere emesso una
cambiale a nome dello zio Carlo
Antici, scrive nel 1836: «il
trarre per una sovvenzione
straordinaria non può accadermi
e non mi è accaduto se non
quando il bisogno è arrivato
all'articolo pane; [ ... ] il
protesto di una mia cambiale,
non potendo io ripagare
l'equivalente somma, significa
pronto arresto mio personale»);
e soprattutto nelle scelte degli
ultimi anni e nella convivenza
non priva di eccentricità con
Antonio Ranieri: anni su cui non
abbiamo un'informazione
esauriente (per quanto riguarda
il percorso intellettuale) ma
che appaiono vissuti alla
giornata, con un forte
investimento passionale
nell'amore e nell'amicizia, a
cui corrisponde un'accentuata
combattività nelle opere.
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