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Gabriele D'Annunzio |
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Saggio pubblicato a
Napoli nel 1909. Apparso in pieno periodo dannunziano, al
centro dei contrasti e delle polemiche biografiche,
ideologiche ed estetiche, costituisce il tentativo di una
distinzione di poesia e non poesia entro l'opera
dannunziana, e, insieme, di interpretazione del fenomeno
D'Annunzio nei suoi diversi aspetti di idee di poesia, di
storia. L'analisi estetica è costruita su una struttura
rigidamente idealistica, secondo un ritmo triadico di
tesi, antitesi e sintesi. A un primo periodo di felice
rappresentazione del proprio mondo dei sensi, gioioso,
privo di contrasti e di problemi, che Borgese
identifica col Canto novo, seguirebbe una lunga crisi,
dall'Intermezzo di rime fino al Fuoco, dove la
sensualità lineare dei versi giovanili si complica di
stanchezze, di raffinamenti, di tristezze, decadendo sul
piano dell'arte a una letteratura ambigua e forzata, e
tenta invano le opposte soluzioni dell'impegno morale
(Giovanni Episcopo, L'innocente, e dell'ideologia del
superuomo, con tutte le conseguenze di falsità, di
retorica, di cattivo patriottismo. Con la Laus vitae si
avrebbe la sintesi dei due momenti precedenti, inglobati
in un nuovo slancio dei sensi trionfanti, ma consapevoli
della crisi, nel più alto risultato dell'opera dannunziana
(a cui Borges.
aggiunge anche Francesca da Rimini, La figlia di Iorio, e,
nelle Laudi, Alcione. Più attuali, tuttavia, di questa
costruzione un po'troppo rigida, anche se le analisi
particolari delle opere dannunziane, soprattutto negli
aspetti negativi, sono spesso felici o stimolanti, sono
alcuni concetti critici che Borges.
raccoglie a conclusione del suo saggio: la decisa
affermazione dell'alto valore di poesia dell'opera
dannunziana, rivendicata di fronte a Pascoli e soprattutto
di fronte a Carducci giudicato da Borgese "poeta minore e
provinciale" a paragone con la ricchezza, la potenza,
l'incidenza culturale della miglior arte dannunziana; la
capacità di distinguere la poesia di D'Annunzio pur senza
restare implicato nella sua ideologia, anzi giudicandola
con oggettiva acutezza; la definizione dell'arte
dannunziana come poesia dei sensi e della materia che
ignora il cuore dell'uomo e non sa che violenza, sangue,
fuoco, lussuria, e il riferimento di essa a un'"età di
stanchezza storica", di cui sarebbe la più alta
espressione; le notazioni sullo stile dannunziano, che
unirebbe la massima libertà lessicale all'estrema
regolarità sintattica; la riduzione del suo mondo a un
angusto, monotono e malato ambito di nozioni, con la
parallela rivendicazione dell'eccezionale forza di
D'Annunzio nell'espressione di questo mondo così limitato.
Sono concetti che, sia pure corretti e moderati (a
esempio, l'idea che Borgese
ha del decadentismo, come estraneo all'esperienza
dannunziana, non è più sostenibile) valgono tuttora.
Averli espressi quando l'opera di D'Annunzio era ancora in
pieno svolgimento, aver saputo distinguere tanto
puntualmente i valori della poesia e le falsità delle
ideologie e averne visti i rapporti, è non piccolo merito
del saggio.
Giorgio Barbieri Squarotti
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