|
|
|
La vita
e il libro |
|
|
Opera pubblicata in
tre serie a Torino nel 1910-1913. Riunisce recensioni e
saggi scritti tra il 1909 e il 1911, con lo scopo di
sollevare a piena dignità di ricerca e di valore esegetico
quell'attività di critica giornalistica cui aveva dedicato
le sue migliori cure, al fine di superare in essa il
contrasto fra la critica accademica e la critica
militante. La raccolta degli articoli borgesiani
costituisce un vastissimo panorama delle tendenze, dei
valori, dei problemi, delle figure rappresentative nel
primo decennio del Novecento, quando andavano a uno a uno
scomparendo o esaurendosi i grandi protagonisti della
letteratura ottocentesca, e si annunciavano intanto,
ancora confusi e incerti, ma in un rigoglio eccezionale di
fermenti e di sperimentazioni, i temi e gli scrittori del
nuovo secolo. La vastità degli interessi di B. è
dimostrata dal fatto che le sue rassegne abbracciano,
oltre ai grandi poeti e narratori (Tolstòj, D'Annunzio,
Pascoli, Péguy, Carducci, ecc.), anche problemi politici e
morali (Corradini, Renan, Sorel, il modernismo), questioni
critiche (il Vico di Croce, con la polemica che ne seguì),
di storia e di pensiero (Gambetta, Max Nordau, Maurras,
Schopenhauer, Kierkegaard, il Kalevala), nel tentativo di
raccogliere, giorno per giorno, tutti i particolari di
quanto accadeva nel campo della letteratura e del
pensiero, della politica e della storia, senza dimenticare
neppure i personaggi minori. La vita e il libro si apre
con una breve premessa metodologica in cui B. enuncia la
propria concezione di una critica sincera, pronta e sicura
nel giudizio di fronte ai fatti letterari che ogni giorno
si presentano, lontana da ogni compromesso, da ogni
menzogna: e, al tempo stesso, illumina la stretta
connessione fra vita e letteratura in cui l'Autore crede,
e di cui anche il titolo dell'opera è evidente
affermazione. Di pagina in pagina si incontrano giudizi
assai felici, come la limitazione dell'opera di Anatole
France a un'ornata letteratura di abile dilettante; oppure
la severa accoglienza al nazionalismo estremistico di
Barrès, espresso in una debole e confusa narrativa, priva
di forza umana. Molto rigido è pure B. nei confronti di
Gor'kij, di cui respinge il confuso misticismo
rivoluzionario, mentre oggi pare eccessivo il favore per
Andréev (anche se è visto con esattezza il suo carattere
di epigono del grande romanzo russo dell'Ottocento);
invece è tuttora valida la riduzione a fenomeno locale,
pur non privo all'origine di intensità e sincerità,
dell'arte di Selma Lagerlöf; altrettanto esatto il
giudizio su Kipling, di cui B. esamina più volte le opere,
distinguendo il vigore fantastico delle pagine "primitive"
dalla retorica di molti romanzi e racconti. Recensendo La
porta stretta dell'allora quasi sconosciuto Gide, Borgese
indica felicemente tutta la morbosità del suo misticismo
romantico. In un momento in cui, nella narrativa italiana,
furoreggiavano Fogazzaro e D'Annunzio, la precisione dei
giudizi sulle loro opere ha particolare merito e
interesse: dei romanzi fogazzariani, B. mette in luce la
debolezza d'ideologia, il carattere morbido e incerto, la
sensualità estrema e ambigua, la struttura di commedia in
tre atti, farcita di motivi laterali un po'alla rinfusa.
Nella produzione dannunziana, indica il carattere di netta
decadenza artistica di Forse che sì forse che no, e vede
nella Fedra un fallimento completo, sia sul piano
complessivo del dramma, sia su quello del frammento
lirico. Nelle pagine dedicate al Pascoli, Borgese
fonda quella che sarà la più comune interpretazione del
poeta, quale cantore delle Myricae e dei Poemetti, mentre
tutti i versi storici, politici, celebrativi, vengono
condannati come assolutamente impoetici: a eccezione del
poemetto Paolo Uccello, valutato positivamente. Certi
ritratti di scrittori, disegnati in occasione della morte,
o di un libro particolarmente significativo, riescono di
un'acutezza singolare: la critica dell'estetismo di Loti,
la descrizione della violenza verbale appassionata e
fluente di Péguy, o dell'ironia di Pirandello,
l'apprezzamento della Deledda. Le pagine sui crepuscolari,
fra cui quelle famose dove è coniato il termine stesso che
servì a definirli, ne indicano esattamente la posizione
fra la corrosione della grande poesia dell'ultimo
Ottocento e una nuova poesia, di tono dimesso ma ricco di
oggetti e di aspetti insoliti; mentre la fragilità poetica
e ideologica del futurismo è rivelata con attenta analisi.
Solo spiace di veder negata la poesia di Palazzeschi, che
Borgese
ritiene "tutta da ridere"; è questo uno dei pochi errori
critici dell'opera, accanto a una eccessiva attenzione a
fenomeni minori, come la poesia di Ada Negri, la narrativa
di Siciliani, l'opera di Rapisardi, oppure alla limitata
comprensione per Hofmannstahl. Nelle sezioni dedicate ai
critici, è veramente mirabile un ritratto di Thovez, e di
interesse ancor vivo la famosa polemica con Croce, a
proposito del suo libro vichiano (v. O.: La filosofia di
Giambattista Vico), dove B. indica persuasivamente il
limite di storiografo di Croce, che tende sempre a
sovrapporre al pensiero storicizzato la propria posizione
filosofica, guardando la storia in funzione della propria
filosofia. La problematica etico-critica dell'inizio del
secolo emerge nelle pagine dedicate a Sorel e al
sindacalismo, alle posizioni monarchiche e reazionarie di
Maurras, al modernismo di Murri e di Tyrrel, a Lombroso,
al nazionalismo di Corradini, a Renan. Appaiono anche i
nomi di Kierkegaard, letto con entusiasmo, di Ibsen,
valutato con precisa misura nei pregi e nei difetti, di
Cechov, troppo tuttavia limitato di fronte al minore
Andréev. Tutte queste sono prove della completezza del
discorso storico-letterario di Borgese, della profondità e
della vastità della sua attenzione, della sapienza nel
cogliere il nuovo e l'importante, in un'assidua opera di
svecchiamento di metodo e d'interessi, che fu essenziale
nei primi decenni del Novecento. L'opera venne ristampata
a Bologna nel 1923-28.
Giorgio Barbieri Squarotti
|
|
|
|