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IL REALISMO
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GIOSUE' CARDUCCI
L'impegno civile. La poetica
Nell’ambito della poesia
realistica, ma con voce ben più
possente e affatto singolare, si
inquadra la produzione artistica
di Giosue Carducci, il quale,
però, non rivolse la propria
attenzione al mondo degli umili,
dei diseredati, ma guardò più in
alto, alla “stirpe” italica, che
gli sembrava aver toccato il
fondo della miseria morale, aver
quasi dimenticato gli antichi
fasti, aver perso l’energia
primitiva che l’aveva fatta
assurgere a regina dei popoli
nell’età romana. Il Carducci
meditò a lungo, anche se con
scarso rigore scientifico e
molto indulgendo al suo
temperamento gagliardo e
impulsivo, sulle cause che
avevano determinato
l’infiacchimento della coscienza
nazionale del suo tempo, e
concluse, molto
superficialmente, che esse erano
da ricercare nell’infausto
innesto d’una smidollata
letteratura europea sulla pianta
vigorosa della secolare gloriosa
tradizione italiana: segno,
questo, che a lui sfuggì
completamente il senso profondo
del romanticismo europeo
(d’altra parte egli solo in età
avanzata si avvicinò ad autori
europei come l’Hugo, il Platen,
l’Heine e lo Shelley). Da questa
visione della realtà sociale del
suo tempo e della sua patria,
maturò la determinazione di
indirizzare la propria attività
di poeta e di critico verso un
preciso impegno di natura
“civile”, tendente al
“risorgimento” della coscienza
nazionale.
Di qui la sua violenta
avversione al romanticismo
imperante nella letteratura
italiana (ovviamente a quello
suo contemporaneo, che oggi si
definisce “secondo romanticismo”
e che in effetti rappresenta
solo la crisi dei valori
espressi dal vero e proprio
romanticismo: una crisi che va
attribuita a precise ragioni
storiche, come abbiamo visto a
suo luogo, e non già alle
influenze straniere intraviste
dal Carducci) e la risoluzione a
ripristinare nelle lettere
l’antico splendore dell’arte
classica, che egli considerava
l’unica congeniale al popolo
italiano ed autentica
espressione di virilità e di
grandezza. “Scudiero dei
classici” egli si proclamò e
tutta la vita spese nella sua
missione civilizzatrice,
alternando alle sue vigorose
scudisciate critiche contro le
facili romanticherie dei
contemporanei, esempi di
monumenti poetici ispirati
all’orgoglio della stirpe,
maestosi e solenni, frutto di
una elaborazione stilistica
lungamente sofferta e
faticosamente maturata, che
desse già di per sé il segno del
decoro, il senso della conquista
e rappresentasse già di per sé
uno schiaffo beffardo alla
faciloneria dei “romantici”
rammolliti e impotenti. Ecco
come il Carducci definisce il
poeta nella lirica che conclude
la raccolta delle “Rime nuove”
(ed è perciò intitolata
“Congedo”):
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Il poeta, o vulgo
sciocco,
un pitocco
non è già, che a
l'altrui mensa
via con lazzi turpi e
matti
porta i piatti
ed il pan ruba in
dispensa.
E né meno è un
perdigiorno
che va intorno
dando il capo ne'
cantoni,
e co 'l naso sempre a
l'aria
gli occhi svaria
dietro gli angeli e i
rondoni. |
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E né meno è un
giardiniero
che il sentiero
de la vita co 'l letame
utilizza, e cavolfiori
pe' signori
e viole ha per le dame.
Il poeta è un grande
artiere,
che al mestiere
fece i muscoli
d'acciaio:
capo ha fier, collo
robusto,
nudo il busto,
duro il braccio, e
l'occhio gaio. |
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Il Carducci esercitò un notevole
fascino sulla gioventù italiana
del tempo e dominò largamente
nella cultura di circa mezzo
secolo, nonostante i limiti che
bisogna purtroppo riconoscere ai
suoi orizzonti culturali. Nota
opportunamente il Cappuccio: «La
gioventù italiana per lunghi
anni orientò la propria vita
sulle sue parole: fu con lui
antiromantica, anticlericale,
classicheggiante, esaltò la
patria, la libertà, la
giustizia, volle una vita sana,
gagliarda, operosa. Egli fu il
maestro, l'ultimo poeta-vate del
Risorgimento. Ma nonostante
tutto, i suoi ideali, il suo
magistero nazionale ebbero
sempre qualcosa di chiuso e di
angusto. Il suo mondo
spirituale, la sua cultura, il
suo pensiero si movevano dentro
un orizzonte limitato. La sua
cultura fu certo ricchissima, ma
quasi interamente ristretta alla
nostra storia e alla nostra
tradizione letteraria».
Cenni biografici
Nato a Val di Castello il 27
luglio 1835, dal '39 al '49
visse a Bolgheri, dove si era
trasferito il padre Michele,
medico condotto. A Firenze
studiò poi presso gli Scolopi e
nel '53 passò a frequentare la
facoltà di lettere presso la
Normale di Pisa, dove a soli
venti anni si laureò. Nel '56,
con Chiarini, Gargani e
Targioni-Tozzetti, formò il
gruppo degli “amici pedanti” che
iniziarono pubblicamente
un'accesa polemica contro il
romanticismo: «Quando sorsero i
più grandi uomini d'Italia?
quando non v’era né scuole nuove
né romanticismo, quando si
adoravano i classici, e non si
ammiravano e si studiavano né
inglesi né tedeschi». Dopo un
anno di insegnamento nel
ginnasio di S. Miniato al
Tedesco, attraversò un momento
difficile, uno dei più tristi
della sua vita: il fratello
Dante si suicidò nel '57, il
padre morì l’anno successivo ed
egli dovette provvedere ai
bisogni della famiglia
impartendo lezioni private e
curando una collana di classici
per conto dell’editore Barbera.
Nel '59 sposò la cugina Elvira
Menicucci. Erano questi gli anni
in cui il Carducci professava
idee repubblicane, ma ben presto
si convinse che solo la
monarchia piemontese avrebbe
potuto unificare l’Italia.
Deluso dall’atteggiamento del
governo monarchico
post-unitario, tornò alle idee
repubblicane per poi avvicinarsi
lentamente di nuovo alla
monarchia, ottenendo anche la
nomina di senatore del regno.
Intanto, dopo un breve
insegnamento nel liceo di
Pistoia, era stato chiamato a
ricoprire la cattedra di
letteratura italiana
nell’università di Bologna,
svolgendo qui il suo magistero
dal 1860 al 1904, quando fu
costretto a ritirarsi per motivi
di salute. Nel 1906 gli fu
assegnato il Premio Nobel per la
letteratura e l’anno dopo morì a
Bologna.
“Juvenilia" e "Levia
gravia": la polemica letteraria
Lo svolgimento della poesia
carducciana prende l’avvio da
due raccolte di liriche
giovanili, “Juvenilia” e “Levia
gravia”, che contengono
rispettivamente poesie scritte
tra il '50 ed il '60 e tra il
'61 ed il '71. Esse
rappresentano in effetti il
tirocinio artistico del Carducci
condotto sull’esempio dei
classici antichi e dei maggiori
poeti italiani da Dante a
Foscolo e sono sostanzialmente
prive di una vera originalità,
anche se mettono in luce alcune
caratteristiche del temperamento
del Carducci ed alcune sue
propensioni tematiche che si
riscontreranno anche nella
produzione successiva. Ad
esempio è già palese una certa
fierezza e indipendenza morale
che egli mostra non solo con
atteggiamenti polemici
anticlericali ed antiromantici,
ma anche nella dichiarata
volontà di non voler
assolutamente cadere in una
sorta di sudditanza nei
confronti delle accademie
ufficiali, dei salotti mondani,
delle mode imperanti. A tal
riguardo è significativo quanto
afferma nella prefazione alle
“Rime di San Miniato”, incluse
in “Juvenilia”: «Queste rime,
non fatte avanti la
pubblicazione girare per le
contrade, né vedute da niuno dei
dittatori chiarissimi, non
intrinsecate per le accademie o
per gli uffizi dei giornali, né
mormorate nei gabinetti delle
femmine eleganti...io le
intitolo e mando a voi, miei
cari ed onorevoli amici; oscure
e in condizioni umili, tuttavia
sdegnose e salvatiche alcun
poco, il che tengono dalla
natura del padre loro». Nella
stessa prefazione dice chiaro e
tondo la sua avversione alle
tendenze della poesia moderna ed
afferma la sua libera scelta di
rifarsi agli antichi: «Io, non
eclettico in letteratura come né
in altro, di poesia sociale e
umanitaria non so nulla, so
d’una poesia italiana e civile,
come la fecero Dante e il
Parini: la cristiana, qual la
scrivono i moderni, parmi
declamazione profana e barbara;
e torno volentieri a quella
grave e soavissima
dell’Alighieri e del Petrarca e
degli altri trecentisti e
quattrocentisti: la popolare a
questi tempi con questi uomini
con questa lingua reputo non
potersi avere: la intima parmi
romanzaccio di gente sfatta in
versi per lo più laidi, con buon
condimento di scostumatezza
parigina e metafisica tedesca.
Del resto cosmopolita non sono e
ottimista né manco: rìdomi delle
utopie: né credo al furor
poetico... sì penso con Giordani
non vi sia altro furor che
l’ingegno, non altra ispirazione
che dallo studio: liberamente,
non mi piace l’arte rinnovata e
sto coi vecchi».
L’inno "A Satana": la
polemica anticlericale
Sotto il nome di Enotrio Romano,
nel novembre del 1865, il
Carducci pubblicò a Pistoia una
poesia che aveva composto in una
notte, precisamente quella del
10 settembre, due anni prima: si
tratta dell’inno “A Satana”, che
destò scalpore e scandalo negli
ambienti culturali del tempo per
le idee rappresentate,
decisamente anticlericali e
libertarie. Dal punto di vista
estetico non raggiunse risultati
apprezzabili e lo stesso
Carducci, diciotto anni dopo,
riconosceva pubblicamente e
pesantemente questi limiti (“Non
mai chitarronata - salvo cinque
o sei strofe - mi uscì dalle
mani tanto volgare”), che pure
aveva intravisto subito dopo la
composizione, tanto è vero che
all’amico Chiarini confessava di
ritenere necessaria una sua
revisione. In tale occasione il
Poeta spiegava pure il suo
intento polemico: «E' inutile
che io avverta aver compreso
sotto il nome di Satana tutto
ciò che di nobile e bello e
grande hanno scomunicato gli
ascetici e i preti con la
formola Vade retro Satana; cioè
la disputa dell’uomo, la
resistenza all'autorità e alla
forza, la materia e la forma
degnamente nobilitata». La
revisione non ci fu mai, ma
l’inno ebbe tanta popolarità,
certamente eccessiva rispetto ai
pregi reali, per più di
vent’anni, proprio perché veniva
riproposta ogni volta che gli
ambienti laici intendevano
riaccendere e vivacizzare la
polemica anticlericale. Questo
interesse ovviamente piaceva
molto al Carducci e lo
stuzzicava ad entrare nelle
polemiche: egli ne andò fiero e
sotto questo aspetto definì il
suo inno “una birbonata utile”.
Satana rappresenta la Natura, la
Ragione, il Progresso: Satana fu
l’ispiratore delle più salutari
ribellioni che la storia ricordi
in campo civile, religioso e
morale, quelle di Arnaldo da
Brescia, di Wicleff, di Huss, di
Girolamo Savonarola, di Martin
Lutero. E' comprensibile allora
il motivo per cui questo inno fu
salutato dagli ambienti laici
della cultura nazionale come un
grido di riscossa contro
l’egemonia secolare della
cultura clericale.
“Giambi ed epodi”: la
polemica politica. Il realismo
In “Giambi ed epodi”, che
raccolgono poesie composte tra
il '67 e l' '87, il Carducci dà
invece libero sfogo alla sua
polemica politica contro una
classe dirigente che gli
sembrava fiacca e corrotta e
lontanissima dallo spirito
patriottico che aveva animato i
grandi del Risorgimento. Si
accentua in lui la passione per
la storia, ma la mente e il
cuore sono maggiormente intenti
a scrutare nella decadenza del
presente. Con l’ironia e il
sarcasmo tipici della poesia
giambica antica, egli satireggia
la timidezza e la viltà dei
nuovi governanti, che spesso
accomuna ai languidi e
svirilizzati letterati del tardo
romanticismo, come nel “Canto
dell’Italia che va in
Campidoglio”, ove lancia strali
pungenti contro il primo
ministro Giovanni Lanza, che
sembra timoroso di realizzare il
sogno di tutti i patrioti
italiani che vogliono Roma
capitale: l’Italia, circospetta,
si affaccia di notte sul
Campidoglio e prega le oche di
non attirare l’attenzione del
cardinale Antonelli col loro
clamore:
|
Zitte, zitte! Che è
questo frastuono
al lume della luna?
Oche del Campidoglio,
zitte! Io sono
l'Italia grande e una.
Vengo di notte perché il
dottor Lanza
teme i colpi di sole:
ei vuol tener la debita
osservanza
in certi passi, e vuole
che non si sbracci in
Roma da signore
oltre certi cancelli:
deh, non fate, oche mie,
tanto rumore,
che non senta Antonelli. |
|
Fate più chiasso voi,
che i fondatori
de la prosa borghese,
Paulo il forte ed
Edmondo da i languori,
il capitan cortese.
E così d'anno in anno, e
di ministro
in ministro, io mi
scarco
del centro destro sul
centro sinistro,
e 'l mio lunario sbarco:
fin che il Sella un bel
giorno, al fin del mese,
dato un calcio alla
cassa,
venda a un lord
archeologo inglese
l'augusta mia carcassa. |
|
Nelle trenta poesie di questo
volume, che si rifanno non solo
per il tono polemico, ma anche
per la forma metrica ai “Giambi”
del poeta greco Archiloco (VII
sec. a.C.) ed agli “Epòdi” del
poeta latino Orazio (I sec.
a.C.), il Carducci mette in
risalto la sua vocazione verso
un'arte realistica, ma pure la
sua profonda e commossa capacità
di rievocare i palpiti più
segreti della propria anima
leggendoli nel “paesaggio”. Ad
esempio nella poesia dedicata
all’amico Eduardo Corazzini,
morto per una ferita riportata
nella battaglia di Mentana
(1867), mentre esaspera la sua
polemica politica fino ad
arrivare all’insulto nei
confronti del papa Pio IX (“te
io scomunico, o prete... prete
empio... infame”), sa anche
rivivere con nostalgia le ore
serene trascorse con l'amico in
mezzo alla natura: “...ma de'
tuoi monti a l'aprico / aer e
nel chiostro ameno / più non ti
rivedrò, mio dolce amico, / come
al tempo sereno”. Tuttavia
questa disposizione elegiaca a
cogliere e rappresentare le più
antiche memorie, scandagliando i
recessi più nascosti della
propria coscienza di uomo
(padre, amante, amico) e di
cittadino (storico, critico,
maestro), attraverso anche la
rievocazione di paesaggi noti e
delle più vibranti pagine della
storia nazionale, sarà una
caratteristica saliente della
produzione poetica successiva.
Qui prevale l’impegno
realistico, come egli stesso
affermò in una lettera del 17
febbraio 1870: «...bisogna far
l’arte realistica; rappresentare
quel che è reale, in termini più
naturali e con verità...; a ciò
accoppiare lo studio degli
antichi, che sono realistici e
liberi (Omero, Eschilo, Dante),
e lo studio della poesia
popolare col sentimento moderno
e con l’arte».
"Rime nuove" e "Odi
barbare": classicismo e
romanticismo; storia e paesaggio
Il meglio della poesia
carducciana è però contenuto
nelle due successive raccolte di
“Rime nuove” e “Odi barbare”,
che raggruppano rispettivamente
poesie composte fra il 1861 e il
1887 e fra il 1873 ed il 1889.
A spiegare la diversità di tono
delle nuove liriche provvide lo
stesso Carducci nel poemetto
“Intermezzo” (complessivamente
cento quartine di endecasillabi
e settenari alternati) in cui
dichiara esplicitamente
l’intenzione di abbandonare la
poesia protestataria e di
volersi dedicare a cogliere le
voci più intime della sua
coscienza, promettendo ad un
tempo di tenersi ben lontano dal
patetico languore dei romantici.
In realtà con queste nuove
liriche il Poeta non rinuncia
affatto alla sua “missione
civile”, ma riesce a contenere i
suoi impulsi battaglieri, a
frenare i suoi impeti polemici,
a dare ugualmente un messaggio
di dignità e decoro ma con animo
più sereno ed attingendo più
direttamente alla radice
spirituale. D’altra parte i
lutti familiari (inclusa la
morte del figlioletto Dante di
appena tre anni), le
ristrettezze economiche e il
rancore verso una classe
politica inetta fanno parte del
passato (nel 1870 Roma fu
finalmente occupata e dichiarata
capitale d’Italia), mentre il
presente appare senza grosse
nubi e promette finanche un
ringiovanimento del cuore grazie
all’amore profondamente nutrito
per una certa Lina Cristofori
Piva e felicemente ricambiato
dalla donna.
Forse a queste due raccolte di
poesie meglio si addice il
giudizio del Croce, secondo il
quale: «La battaglia, la gloria,
il canto, l’amore, la gioia, la
malinconia, la morte, tutte le
fondamentali corde umane
risuonano e consuonano nella
poesia carducciana, che
appartiene veramente a quella
che il Goethe chiamava poesia
tirtaica, atta a preparare e
confortare l’uomo nelle pugne
della vita con l’efficacia del
suo tono alto e virile».
In queste liriche il classicismo
ed il romanticismo (quello più
autentico e profondo della
tradizione foscoliana e
leopardiana) si fondono in
mirabile sintesi ed il Poeta,
pur senza rinunziare all’abito
morale austero ed icastico
derivatogli dalla lezione o, per
dir meglio, dal culto degli
antichi, sa ripiegarsi su se
stesso per trarre dallo scrigno
delle memorie gli affetti intimi
più puri e farli rivivere entro
lo scenario dei paesaggi
dell’infanzia, e riscoprire con
animo romantico le virtù avite
del proprio popolo come erano
state espresse nell’età di Roma
ed in quelle dei liberi comuni
medievali, anch’esse fatte
magistralmente rivivere come
fantasmi che popolano i paesaggi
che furono teatro delle epiche
imprese della nostra gente.
Il costante pensiero della
morte, il contrasto tra il sogno
e la realtà, la rievocazione
storica, i ricordi della
fanciullezza, l’esaltazione
degli ideali e degli eroi tanto
della Rivoluzione Francese che
del Risorgimento italiano sono i
motivi che più costantemente
ricorrono in queste due raccolte
poetiche.
Le “Rime Nuove”sono
complessivamente 105 liriche
distribuite in nove libri.
Il primo libro presenta una sola
poesia, “Alla rima”, nella quale
il Poeta, in risposta ad un
articolo di Domenico Gnoli, nel
quale si affermava che la rima
era destinata a scomparire in
quanto “tiranna del pensiero”,
fa l’elogio della rima:
|
Cura e onor de' padri
miei,
tu mi sei
come a lor sacra e
diletta.
Ave, o rima, e dammi un
fiore
e per l'odio una saetta. |
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Il secondo libro contiene 34
sonetti, fra cui i celeberrimi
“Il bove”, “Funere mersit
acerbo”, “Traversando la Maremma
toscana”, ed inizia proprio con
la poesia “Il sonetto”, in cui
la forma metrica prescelta viene
celebrata negli esempi di Dante
e del Petrarca:
|
Dante il mover gli dié
del cherubino
e d’aere azzurro e d'or
lo circonfuse;
Petrarca il pianto del
suo cor, divino
rio che pei versi
mormora, gl’infuse. |
|
Al terzo libro appartengono, fra
le altre (25 in tutto), le non
meno famose liriche “Pianto
antico” e “San Martino”. Il
quarto libro contiene cinque
sole liriche, fra cui le tre
“Primavere elleniche” dedicate
alla sua Lidia (Lina Piva). Il
quinto libro ne contiene nove,
tutte ispirate ai ricordi
personali, fra cui “Idillio
Maremmano” e “Davanti San
Guido”. Il sesto libro riporta
sette poesie di argomento per lo
più storico (famosa quella che
celebra “Il comune rustico”). Il
settimo libro è dedicato ai
dodici sonetti “Ca ira” (=
“Andrà bene!”, che è un verso
tratto dal ritornello della
canzone dei giacobini all’epoca
della rivoluzione francese) in
cui rievoca i fatti salienti del
settembre 1792 durante la grande
rivoluzione, mettendo in
risalto, come egli stesso
afferma, “la difesa della patria
inspirata dalle nobili
tradizioni e dallo spirito
eroico della nazione francese;
le stragi consigliate dalla
paura e consumate con quel
delirio di fanatismo, di torva
leggerezza, di avventatezza
feroce che è nel sangue celtico,
e che si rinnova a fatali
periodi in tutte le rivoluzioni
per le quali passò e passa quel
popolo”: il nuovo governo
francese nato dalla rivoluzione
deve difendere i confini della
patria contro i nemici esterni
che, con l’aiuto delle forze
conservatrici interne, mirano a
ripristinare l’ordine antico; la
difesa militare è affidata ai
valorosi Kléber, Hoche, Desaix,
Murat e Marceau, i quali, dopo
una pesante sconfitta subita a
Verdun, ottengono una strepitosa
e definitiva vittoria a Valmy:
da questa vittoria ha inizio per
il glorioso popolo francese la
“novella storia”; ma intanto la
Nemesi storica (la fatale
Giustizia, presente nella
storia, che ha il compito di
vendicare la empietà dei
tiranni), rappresentata in una
calma e infaticabile vecchietta,
fila la tela della vendetta che
si abbatterà principalmente sui
nemici interni della Francia e
farà scempio del corpo della
decapitata Marie Lamballe. A
proposito della descrizione
minuta di tale scempio, molti
accusarono il Carducci di
sadismo, ma il Poeta si difese
energicamente affermando di aver
voluto suscitare nei lettori lo
stesso sentimento di orrore che
aveva provato lui. Nel libro
ottavo compaiono undici versioni
poetiche dallo spagnolo e dal
tedesco. Il libro nono presenta
invece il solo “Congedo”, di cui
abbiamo già parlato a proposito
della poetica del Carducci.
Le “Odi barbare” sono cinquanta
componimenti composti in metri
classici e divisi in due libri:
nel primo sono quasi tutte odi
ispirate alla storia
(“Nell'annuale della fondazione
di Roma”, “Dinnanzi alle Terme
di Caracalla”, “Alle fonti del
Clitumno”, “Nella piazza di S.
Petronio”, “Miramar”, nella
quale ricompare la Nemesi
storica questa volta per fare
scontare al giovane ed innocente
Massimiliano d’Asburgo, fucilato
dai rivoltosi messicani, le
antiche colpe dell'imperatore
Carlo V su quella popolazione al
tempo della colonizzazione); nel
secondo libro sono invece odi di
argomento autobiografico (“Alla
stazione in una mattina
d’autunno”, “Canto di marzo”,
“Sogno d’estate”, “Colli
toscani”, dedicato alla figlia
Bice, “Presso l’urna di P.B.
Shelley”).
La novità del metro (che per
altro era stato già provato sia
da autori italiani - come L. B.
Alberti, il Chiabrera, il
Fantoni - che da autori
stranieri -Klopstock, Goethe,
Platen -) suscitò molte
polemiche ed il Carducci sentì
il bisogno di chiarire
pubblicamente il suo intento,
che era soprattutto quello di
rivestire i propri sentimenti
con un abito stilistico che gli
sembrava più naturale e
congeniale al loro concepimento:
«Queste odi le intitolai
barbare, perché tali sonerebbero
agli orecchi e al giudizio dei
greci e dei romani, se bene
volute comporre nelle forme
metriche della loro lirica, e
perché tali soneranno pur troppo
a moltissimi italiani, se bene
composte e armonizzate di versi
e di accenti italiani. E così le
composi, perché, avendo ad
esprimere pensieri e sentimenti
che mi parevano diversi da
quelli che Dante, il Petrarca,
il Poliziano, il Tasso, il
Metastasio, il Parini, il Monti,
il Foscolo e il Leopardi...
originalmente e splendidamente
concepirono ed espressero, anche
credei che questi pensieri e
sentimenti io poteva esprimerli
con una forma meno discordante
dalla forma organica con la
quale mi si andavano
determinando nella mente».
Per dare un esempio pratico
della tecnica usata dal Carducci
nelle odi barbare, analizzeremo
dal punto di vista metrico due
strofe saffiche, una del poeta
latino Orazio (la prima strofa
della X ode del libro I) ed una
del Carducci (la prima strofa
dell'ode “Dinnanzi alle terme di
Caracalla”): mettendole poi a
confronto, se ne intenderanno le
differenze e meglio si
comprenderà perché il Carducci
definì “barbare” le sue odi.
Riportiamo anzitutto la strofa
oraziana:
|
Mercuri, facunde nepos
Atlantis,
qui feros cultus hominum
recentum
voce formasti catus et
decorae
more palaestrae,
|
|
il cui schema metrico è composto
da tre endecasillabi saffici.
e
da un verso adonio
per cui metricamente la strofa
oraziana va così letta:
|
Mèrcurì, facùn // de
nepòs Atlàntis
quì feròs cultùs //
hominùm recèntum
vòce fòrmastì // catus
èt decòrae
mòre palaèstrae,
|
|
Nei primi tre versi il Carducci,
per ottenere la cesura dopo la
quinta sillaba, anziché usare
gli endecasillabi puri, ha
preferito ottenerli accoppiando
un quinario (verso formato da
cinque sillabe con due accenti,
uno sulla prima o sulla seconda
ed uno sulla quarta) ed un
senario (verso formato da sei
sillabe con due accenti, uno
sulla seconda e uno sulla
quinta), sicché la prima strofa
dell’ode “Dinnanzi alle Terme di
Caracalla” va così letta
metricamente:
|
Còrron tra 'l Cèlio //
fosche é l’Aventino
le nùbi: il vènto // dal
piàn tristo mòve
ùmido: in fòndo //
stanno ì monti albàni
biànchi di néve. |
|
Come si vede la struttura delle
quartine è identica sia nella
poesia di Orazio che in quella
del Carducci, però leggendole
metricamente qualcosa non
concorda: infatti negli
endecasillabi di Orazio cadono
tre accenti prima della cesura e
due dopo, mentre in quella del
Carducci gli accenti sono due
per parte. Inoltre nei versi
latini è molto più raro che in
quelli italiani che l’accento
ritmico corrisponda a quello
tonico (cioè a quello naturale
della parola). E' quindi
comprensibile che se un romano
antico avesse letto i versi del
Carducci, li avrebbe definiti
“barbari”, cioè fattura di uno
straniero.
"Rime e Ritmi": l'ultimo
Carducci
L’ultima raccolta di poesie, che
si intitola “Rime e Ritmi”
perché comprende liriche in
metri italiani tradizionali
(rime) e liriche in metrica
“barbara” (ritmi), comprende
ventinove poesie, scritte tra il
1887 ed il 1898, che
rappresentano l’ultima stagione
poetica del Carducci. Vi ricorre
frequente il tema storico, che
però ha perduto il grande
slancio della commossa
partecipazione con cui il Poeta
l'aveva trattato nelle raccolte
precedenti e mostra i segni di
una certa stanchezza: non che la
visione dei grandi avvenimenti
abbia perduto alcunché della
maestosità ed incisività delle
rappresentazioni precedenti;
anzi la volontà di erigere
monumenti alle virtù patrie
appare più intenzionale di
prima; ma proprio per questo si
avverte che non nasce da un
profondo interesse morale e si è
portati a cogliere con maggiore
evidenza l’enfasi e il
declamatorio in cui spesso sono
imprigionate le immagini.
Tuttavia le liriche che
esprimono stati d’animo più
intimi e personali non hanno
perduto l’ardore del cuore di
una volta. Talora anche nelle
odi storiche ci sono momenti di
abbandono, un malinconico
sentimento della vita che scorre
e volge al termine come una
faticosa giornata al suo
tramonto, quando l’uomo ha sete
di pace ed attende lo squillo
della campana della rustica
chiesetta per recitare l’Ave
Maria:
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Una di flauti lenta
melodia
passa invisibil fra la
terra e il cielo:
spiriti forse che furon,
che sono
e che saranno?
Un oblìo lene de la
faticosa
vita, un pensoso
sospirar quiete,
una soave volontà di
pianto
l'anime invade.
Taccion le fiere e gli
uomini e le cose,
roseo il tramonto ne
l'azzurro sfuma,
mormoran gli alti
vertici ondeggianti
Ave Maria. |
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Questi versi concludono l’ode
storica “La chiesa di Polenta”
che fu composta nel luglio del
1897, dopo una visita del Poeta
alla piccola chiesa di San
Donato presso Polenta. A parte
le ultime strofe, in cui sembra
far capolino un certo bisogno di
mistico raccoglimento, in
precedenza il Poeta, dopo aver
ribadito la condanna
dell’esasperato ascetismo
medievale, riconosce alla Chiesa
di Roma una funzione
civilizzatrice e provvidenziale
nell’epoca delle invasioni
barbariche. Naturalmente questa
ode suscitò un dibattito
accesissimo fra i cattolici, che
salutavano con favore questo
presunto avvicinamento del Poeta
alla Chiesa Cattolica, ed i
laici che non riuscivano a
spiegarsi e rifiutavano di
accettare questo improvviso
ammorbidimento del loro capo e
maestro ideale: sembrava loro
assurda questa inaspettata
manifestazione di “spiritualità
religiosa”, dopo tanta
professione di ateismo, ed
inspiegabile soprattutto il
nuovo giudizio sulla funzione
storica del cattolicesimo, dopo
una così fiera e lunga milizia
laica.
In effetti, però, il Carducci
aveva più volte manifestato una
sorta di religiosità panteistica
e quelle ultime strofe de “La
chiesa di Polenta” stavano
piuttosto a rappresentare il
sentimento religioso popolare -
magari condiviso nella sostanza
ma non nella forma - e non
potevano pertanto valere una
“conversione” al cattolicesimo
(che forse non ci fu mai,
sebbene un sacerdote dichiarasse
di aver avuto dal Poeta morente
la “confidenza” di una sua
conversione).
Quanto al giudizio positivo
espresso sulla funzione storica
del cattolicesimo, questo si
spiega o con un onesto e per
altro fondato ripensamento sui
giudizi espressi nell’epoca
della più accesa polemica fra
Stato e Chiesa, o con una
precisa e studiata volontà di
favorire l’intesa politica fra
le due istituzioni, un’intesa
che in quegli anni appariva
quanto mai necessaria per le
future sorti del giovane Stato
unitario.
In chiusura del volume di “Rime
e Ritmi” il Poeta collocò, come
“Congedo”, uno stornello di
appena tre versi scritti anni
addietro in una lettera a Lidia,
ma ora rivolto all’Italia per
annunziarle il suo malinconico
commiato dalla poesia:
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Fior tricolore,
tramontano le stelle in
mezzo al mare
e si spengono i canti
entro il mio cuore. |
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Infine, in appendice, vi
aggiunse “Il parlamento”, in
tredici lasse di dieci versi
ciascuna (le lasse sono strofe
tipiche dei poemi epici
medievali), scritto nel 1876,
che rappresentava la prima parte
del poemetto “La canzone di
Legnano”, che avrebbe dovuto
avere altre due parti, nelle
quali sarebbero state narrate
rispettivamente la battaglia di
Legnano e la fuga notturna del
Barbarossa.
L'oratore e il polemista
Del Carducci critico letterario
tratteremo nel capitolo dedicato
alla critica. Qui ricorderemo
solo che egli fu anche un grande
prosatore ed un geniale oratore:
sono famosi i discorsi su
“L’opera di Dante”, su “La
libertà perpetua di San Marino”,
“Presso la tomba di Francesco
Petrarca” nel quinto centenario
della morte, “Per la morte di
Giuseppe Garibaldi” e i numerosi
scritti polemici raccolti sotto
il titolo di “Confessioni e
battaglie”
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