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IL REALISMO
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GIOVANNI VERGA
La
formazione artistica
Giovanni Verga è unanimemente
riconosciuto come il più grande
dei nostri scrittori veristi.
Nato a Catania nel 1840, vi
restò fino all’età di
venticinque anni, fino a quando,
dopo aver interrotto gli studi
di giurisprudenza per tentare la
via dell’arte e dopo avere
scritto i suoi primi romanzi sul
modello dei romanzi storici
risorgimentali (“Amore e
patria”, “I carbonari della
montagna”, “Sulle lagune”) si
trasferì a Firenze, ove
frequentò i maggiori salotti
letterari e compose le sue prime
opere di successo, “Una
peccatrice” e “Storia di una
capinera”, che risentono
spiccatamente dell’influenza del
secondo romanticismo, quello
languido e voluttuoso del Prati
e dell’Aleardi, ma già rivelano
la tendenza del Verga alla
ricostruzione oggettiva di
ambienti e personaggi. C’è,
infatti, specie nel secondo
romanzo (che tratta di una
giovane costretta dai familiari
a vestire l’abito monacale senza
alcuna vocazione e che,
innamoratasi perdutamente di un
uomo, si lascia consumare dalla
tisi), assai palese lo sforzo di
ritrarre oggettivamente
l’ambiente monacale, su cui
l’Autore operò una minuziosa
ricerca di informazioni. Nel
1872 si trasferì a Milano ed
anche qui fu bene accolto negli
ambienti culturali e dell’alta
borghesia e proseguì nella sua
attività di scrittore di
successo e compose altri
romanzi, “Eva”, “Tigre reale” ed
“Eros”, nei quali persiste la
volontà di compiacere al
pubblico dei suoi ammiratori
tardo-romantici, ma si accentua
la tendenza verso una più
attenta ed oggettiva analisi
della psicologia umana (visibili
i segni dell’influenza degli
“scapigliati”) e affiora
l’esigenza di scoprire un mondo
umano più autentico, che fosse
cioè espressione più vera
dell’universo umano, un mondo in
cui vivono le genuine passioni
primordiali legate ai bisogni
elementari della sopravvivenza e
depurate delle angosce fittizie
e delle lacrime false, tipiche
degli ambienti borghesi
intristiti ed annoiati in una
vita vanamente lussuosa e
profondamente viziata. Si
avvertono, cioè, i primi segni
del bisogno impellente di una
nuova moralità personale, di una
rigenerazione spirituale, che lo
porterà al ripudio della vita
salottiera fino allora condotta
ed alla intuizione che l’umanità
più vera è quella che si è
lasciata alle spalle, nelle
desolate terre malariche della
Sicilia, quella che stenta la
vita giorno dopo giorno nelle
cave di pietra, nelle saline, o
su di una barca sgangherata che
affronta i rischi di un mare a
volte spietato nella sua
violenza, quasi sempre avaro dei
suoi pesci. Si matura così nel
Verga, a poco a poco, una sorta
di redenzione, prima morale e
poi poetica, lucida e
consapevole, che lo porta alla
cosiddetta conversione al
verismo, ma che è piuttosto uno
sbocco naturale della sua
personalità di uomo e di
artista, una riscoperta della
propria umanità più pura che si
era lasciata un po' deviare dal
suo corso naturale dalla
suggestione dei primi successi
mondani.
L'adesione al Verismo
Già un anno prima di “Tigre
reale” e di “Eros” aveva tentato
di dare una risposta alla sua
più genuina vocazione scrivendo
la novella “Nedda” (1874),
ambientata in Sicilia ed
ispirata alla poetica verista.
Non tarderà a rendersi conto di
aver imboccato la strada giusta
proprio con questa novella che
tanto si distaccava, nel motivo
e nello stile, dalle sue opere
precedenti, e proseguirà poi
sempre per questa via, fino a
quando, stanco e deluso per la
scarsa considerazione
tributatagli sia dal pubblico
che dalla critica, deciderà di
far ritorno alla sua città
natale e di non scrivere più.
Il 1880 segna l’ingresso
ufficiale del Verga nell’area
del verismo italiano. E' di
quest'anno, infatti, la
pubblicazione della prima
raccolta di novelle
dichiaratamente veriste, “Vita
dei campi”, tra le quali
compaiono alcune fra le più
famose novelle del Verga
(“Cavalleria rusticana”, “Jeli
il pastore”, “Rosso Malpelo”,
“La lupa”, oltre a “L’amante di
Gramigna”, nella cui breve
prefazione traccia le linee
della sua nuova poetica, di cui
abbiamo già detto) e la prosa
lirica “Fantasticheria”, nella
quale annuncia l’idea di volere
scrivere un romanzo sulla
condizione esistenziale degli
umili pescatori di Aci-Trezza
(il non lontano romanzo de “I
Malavoglia”) e mostra
chiaramente di essere
consapevole che il suo approdo
all’arte verista è
essenzialmente una conquista
morale e, ad un tempo, un
ritorno alle origini. Infatti in
“Fantasticheria” il Verga
immagina di scrivere una lettera
ad una nobile dama del bel mondo
che lo ha accompagnato per una
vacanza ad Aci-Trezza. Qui la
coppia avrebbe dovuto
soggiornare per un mese, ma dopo
solo quarantott’ore la dama era
già in fuga verso i salotti
festosi della grande città, per
raggiungere la folla dei suoi
corteggiatori elegantissimi e
profumatissimi e allontanarsi da
quella plebaglia schifosa e da
quelle viuzze tutte ciottoli e
polvere. Alcuni squarci di
questa prosa sono utili per
capire non solo le ragioni più
profonde per cui il Verga
rinnega quel mondo frivolo e
slavato, che pure lo aveva visto
protagonista per un decennio,
per accostarsi agli umili di
Aci-Trezza, ma anche lo stato
d’animo con cui opera questa
conversione:
|
«...Diceste soltanto
ingenuamente: "Non
capisco come si possa
viver qui tutta la
vita".
Eppure, vedete, la cosa
è più facile che non
sembri: basta non
possedere centomila lire
di entrata, prima di
tutto; e in compenso
patire un po' di tutti
gli stenti fra quegli
scogli giganteschi,
incastonati
nell'azzurro, che vi
facevano batter le mani
per ammirazione. Così
poco basta perché quei
poveri diavoli che ci
aspettavano
sonnecchiando nella
barca, trovino fra
quelle loro casupole
sgangherate e
pittoresche, che viste
da lontano vi sembravano
avessero il mal di mare
anch’esse, tutto ciò che
vi affannate a cercare a
Parigi, a Nizza ed a
Napoli.
Vi siete mai trovata,
dopo una pioggia di
autunno, a sbaragliare
un esercito di formiche,
tracciando sbadatamente
il nome del vostro
ultimo ballerino sulla
sabbia del viale?
Qualcuna di quelle
povere bestioline sarà
rimasta attaccata alla
ghiera del vostro
ombrellino, torcendosi
di spasimo; ma tutte le
altre, dopo cinque
minuti di pànico e di
viavai, saranno tornate
ad aggrapparsi
disperatamente al loro
monticello bruno. - Voi
non ci tornereste
davvero, e nemmeno io; -
ma per poter comprendere
siffatta caparbietà, che
è per certi aspettati
eroica, bisogna farci
piccini anche noi,
chiudere tutto
l’orizzonte fra due
zolle, e guardare col
microscopio le piccole
cause che fanno battere
i piccoli cuori.
Vi ricordate anche di
quel vecchietto che
stava al timone della
nostra barca? Voi gli
dovete questo tributo di
riconoscenza, perché
egli vi ha impedito
dieci volte di bagnarvi
le vostre belle calze
azzurre. Ora è morto
laggiù, all’ospedale
della città, il povero
diavolo, in una gran
corsìa tutta bianca, fra
dei lenzuoli bianchi,
masticando del pane
bianco, servito dalle
bianche mani delle suore
di carità, le quali non
avevano altro difetto
che di non saper capire
i meschini guai che il
poveretto biascicava nel
suo dialetto
semibarbaro.
Ma se avesse potuto
desiderare qualche cosa,
egli avrebbe voluto
morire in quel cantuccio
nero, vicino al
focolare, dove tanti
anni era stata la sua
cuccia “sotto le sue
tegole”, tanto che
quando lo portarono via
piangeva, guaiolando
come fanno i vecchi.
Egli era vissuto sempre
fra quei quattro sassi,
e di faccia a quel mare
bello e traditore col
quale dové lottare ogni
giorno per trarre da
esso tanto da campare la
vita e non lasciargli le
ossa; eppure in quei
momenti in cui si godeva
cheto cheto la sua
“occhiata di sole”
accoccolato sulla
pedagna della barca, coi
ginocchi tra le braccia,
non avrebbe voltato la
testa per vedervi, ed
avreste cercato invano
in quegli occhi attoniti
il riflesso più superbo
della vostra bellezza;
come quando tante fronti
altere si inchinano a
farvi ala nei saloni
splendenti, e vi
specchiate negli occhi
invidiosi delle vostre
migliori amiche.
Ora rimangono quei
monellacci che vi
scortavano come
sciacalli e assediavano
le arancie; rimangono a
ronzare attorno alla
mendìca, a brancicarle
le vesti come se ci
avesse sotto del pane, a
raccattar torsi di
cavolo, buccie d'arancie
e mozziconi di sigari,
tutte quelle cose che si
lasciano cadere per via,
ma che pure devono avere
ancora qualche valore,
poiché c'è della povera
gente che ci campa su;
ci campa anzi così bene,
che quei pezzentelli
paffuti e affamati
cresceranno in mezzo al
fango e alla polvere
della strada, e si
faranno grandi e grossi
come il loro babbo e
come il loro nonno, e
popoleranno Aci-Trezza
di altri pezzentelli, i
quali tireranno
allegramente la vita coi
denti più a lungo che
potranno, come il
vecchio nonno, senza
desiderare altro, solo
pregando Iddio di
chiudere gli occhi là
dove li hanno aperti, in
mano del medico del
paese che viene tutti i
giorni sull'asinello,
come Gesù, ad aiutare la
buona gente che se ne
va.
- Insomma l'ideale
dell'ostrica! - direte
voi - Proprio l’ideale
dell'ostrica! e noi non
abbiamo altro motivo di
trovarlo ridicolo che
quello di non essere
nati ostriche anche noi.
Forse perché ho troppo
cercato di scorgere
entro al turbine che vi
circonda e vi segue, mi
è parso ora di leggere
una fatale necessità
nelle tenaci affezioni
dei deboli, nell’istinto
che hanno i piccoli di
stringersi fra loro per
resistere alle tempeste
della vita, e ho cercato
di decifrare il dramma
modesto e ignoto che
deve aver sgominati gli
attori plebei che
conoscemmo insieme. Un
dramma che qualche volta
forse vi racconterò, e
di cui parmi tutto il
nodo debba consistere in
ciò: - che allorquando
uno di quei piccoli, o
più debole, o più
incauto, o più egoista
degli altri, volle
staccarsi dai suoi per
vaghezza dell'ignoto, o
per brama di meglio, o
per curiosità di
conoscere il mondo; il
mondo, da pesce vorace
ch'egli è, se lo ingoiò,
e i suoi prossimi con
lui. E sotto questo
aspetto vedrete che il
dramma non manca
d'interesse. Per le
ostriche l'argomento più
interessante deve esser
quello che tratta delle
insidie del gambero, o
del coltello del
palombaro che le stacca
dallo scoglio.» |
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Il mondo poetico
Queste pagine sono essenziali
per capire il mondo poetico del
Verga ed il suo atteggiamento
morale nei confronti
dell'esistenza umana.
La sottile ma esplicita polemica
contro il bel mondo borghese,
cui appartiene la dama
destinataria della lettera,
mette a chiare note in luce
l’inconsistenza di quel mondo e
fa emergere per contrasto tutta
la serietà della misera
condizione della plebe del sud,
che in modo naturale rappresenta
la realtà drammatica della vita,
ove è legge fondamentale la
lotta per la sopravvivenza, ove
il pesce grosso divora il
piccolo: un mondo questo in cui
le reazioni umane derivano
direttamente dall’istinto, sono
per lo più dettate dai bisogni
più immediati ed elementari, da
motivi, che in termini
sociologici si direbbero
“economici”, che sembrano
espressione di egoismo e sono
invece segni di una necessità
non eludibile in alcun modo. E
sono questi stessi motivi che
tengono caparbiamente aggrappati
alle scogliere del proprio mare
i miseri pescatori siciliani e
che li rendono così legati al
loro nucleo familiare, in cui il
“patto sociale” è semplificato
nella norma del mutuo soccorso
ed è amministrato dall’autorità
del patriarca, del nonno, del
“padron”, che è il depositario
dell’antica primordiale
“scienza” umana trasmessasi, di
generazione in generazione,
attraverso i proverbi popolari.
Questa solidarietà, che nasce
pur sempre da un bisogno di
protezione reciproca, assume la
dimensione di moralità perché è
regolata da rigide norme di
comportamento ed è ispirata
dalla subconscia paura di essere
divorati da quel pesce vorace
che è il mondo esterno. L’ideale
dell’ostrica che accomuna gli
“umili” del Verga non nasce in
loro da una conquista del
pensiero, da una speculazione
filosofica di alto livello, non
è frutto di una libera scelta: è
una necessità dettata da una
caparbia volontà di sopravvivere
e fronteggiata da un istintivo
buon senso.
Le opere che seguiranno daranno
appunto la rappresentazione
della drammatica esistenza degli
“umili” e saranno espressione di
un pessimismo cupo, non
riscattato da alcuna visione di
vita ultraterrena, non
confortato da alcuna fede
religiosa, da alcuna speranza di
redenzione: un pessimismo
sofferto nel segno della pietà
verso un mondo di diseredati che
rappresentano l’aspetto più
autentico dell’esistenza umana,
che sono soggetti ad una
“fatalità” che li costringe al
ruolo di “vinti”, la cui dignità
è salvata solo dall’eroica
caparbietà di tirare “la vita
coi denti più a lungo che
potranno” e da quella sorta di
“religione del focolare
domestico” che li tiene uniti.
"I Malavoglia"
Nasce così il primo dei
capolavori verghiani, il romanzo
de “I Malavoglia”, pubblicato
per la prima volta a Milano,
dall’editore Treves, nel
febbraio del 1881.
Narra le vicende dolorose d’una
famiglia di pescatori di
Aci-Trezza, i Malavoglia
(«veramente nel libro della
parrocchia si chiamavano
Toscano, ma questo non voleva
dir nulla, poiché da che mondo
era mondo, all'Ognina, a Trezza
e ad Aci-Castello, li avevano
sempre conosciuti per
Malavoglia, di padre in figlio,
che avevano sempre avuto delle
barche sull'acqua, e delle
tegole al sole»), sulla quale si
abbatte pesantemente la mala
sorte con un crescendo
spaventoso che porta alla
dissoluzione della famiglia, che
è il guaio peggiore che potesse
capitare a quella povera gente
in cui il culto dell’unità
familiare era profondamente
radicato nella coscienza (il
vecchio patriarca soleva
ripetere: «Per menare il remo
bisogna che le cinque dita
s’aiutino l'un l’altro» e «Gli
uomini sono come le dita della
mano: il dito grosso deve far da
dito grosso, e il dito piccolo
deve far da dito piccolo»). La
famiglia era composta, oltre che
dal vecchio Padron 'Ntoni, dal
figlio Bastianazzo con la
moglie, la Longa, e dai cinque
figli di questi, 'Ntoni, Luca,
Mena, Alessi e Lia. Campavano di
pesca, ma un giorno decisero di
tentare la via del progresso e
di dedicarsi al commercio dei
lupini. Ne acquistarono una
prima partita a credito, ma la
loro barca che li trasportava fu
capovolta dalla burrasca e i
Malavoglia si trovarono senza
lupini, con un debito da pagare
e senza più l’aiuto delle forti
braccia di Bastianazzo, che nel
naufragio aveva perso la vita.
Da quel momento i guai non
cessarono più, ed il primo
bilancio della sciagura, le
prime previsioni sulla sorte
“economica” della famiglia furon
fatti lì per lì, il giorno
stesso del funerale:
|
«La casa del nespolo era
piena di gente; e il
proverbio dice: “triste
quella casa dove ci è la
visita pel marito!”.
Ognuno che passava, al
vedere sull'uscio quei
piccoli Malavoglia col
viso sudicio e le mani
nelle tasche, scrollava
il capo e diceva:
- Povera comare Maruzza!
ora cominciano i guai
per la sua casa!
La Mena, appoggiata alla
porta della cucina,
colla faccia nel
grembiale, si sentiva il
cuore che gli sbatteva e
gli voleva scappare dal
petto, come quelle
povere bestie che teneva
in mano. La dote di
sant' Agata se n’era
andata colla Provvidenza
[la barca affondata],e
quelli che erano a
visita nella casa del
nespolo [la casa di
proprietà dei
Malavoglia], pensavano
che lo zio Crocifisso
[l’usuraio che aveva
prestato il denaro per
l'acquisto dei lupini e
che andava blaterando
che lui il prestito
l'aveva fatto “perché
aveva sempre conosciuto
padron 'Ntoni per
galantuomo; ma se
volevano truffargli la
sua roba, col pretesto
che Bastianazzo s'era
annegato, la truffavano
a Cristo, com’è vero
Dio! ché quello era un
credito sacrosanto come
l'ostia consacrata, e
quelle cinquecento lire
ei l'appendeva ai piedi
di Gesù crocifisso; ma
santo diavolone! padron
'Ntoni sarebbe andato in
galera! La legge c’era
anche a Trezza!”] ci
avrebbe messo le unghie
addosso.
Compare Cipolla
raccontava che sulle
acciughe c'era un
aumento di due tarì per
barile, questo poteva
interessargli a Padron 'Ntoni,
se ci aveva ancora delle
acciughe da vendere.
Don Silvestro per far
ridere un po' tirò il
discorso sulla tassa di
successione di compar
Bastianazzo, e ci ficcò
così una barzelletta che
aveva raccolta dal suo
avvocato, e gli era
piaciuta tanto, quando
gliel’avevano spiegata
bene, che non mancava di
farla cascare nel
discorso ogniqualvolta
si trovava a visita da
morto.
- Almeno avete il
piacere di essere
parenti di Vittorio
Emanuele, giacché dovete
dar la sua parte anche a
lui!
E tutti si tenevano la
pancia dalle risate, ché
il proverbio dice “Né
visita di morto senza
riso, né sposalizio
senza pianto”.» |
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La realtà fu peggiore delle già
pessimistiche previsioni: Luca
muore in guerra, nella battaglia
di Lissa; la Longa è vittima del
colera; 'Ntoni, che si ribella
alla sorte e si allontana dalla
famiglia, imbocca la strada del
vizio e del facile guadagno e
finisce in galera per aver
accoltellato il brigadiere che
voleva arrestarlo; Lia, poiché
gli avvocati difensori di 'Ntoni
hanno messo in giro la voce che
il giovane col suo atto
delittuoso ha voluto salvare
l’onore della sorella, per la
vergogna fugge dal paese natio e
viene anch’essa inghiottita dal
vortice del vizio della città;
la “casa del nespolo” passa in
proprietà allo zio Crocifisso in
cambio del debito non
soddisfatto dai Malavoglia; il
nonno muore in ospedale
distrutto più nell’anima che nel
corpo. Solo Alessi, che ha
resistito ai colpi della
malasorte, non ha voluto cedere,
ed ha assunto per sé l’eredità
morale del nonno, riesce, dopo
tanti stenti, a riacquistare la
casa del nespolo ed a metter su
famiglia che porterà avanti nel
solco delle vecchie tradizioni.
Con lui resterà Mena, che, per
mancanza di dote, ha visto
sfumare i suoi progetti
matrimoniali. 'Ntoni, uscito dal
carcere, farà ritorno alla casa
del nespolo e conoscerà la
triste storia della famiglia.
Dopo aver divorato una scodella
di minestra messagli innanzi
dalla generosità di Alessi,
prende il suo misero bagaglio e
si allontana per sempre da
quella casa e da quel paese che
egli un tempo ha tradito ed ora
avverte come estranei.
Ne “I Malavoglia”, oltre al tema
della religione del focolare
domestico, dell’ideale
dell'ostrica, della fatalità che
incombe sull’umanità primitiva
dei diseredati di Aci-Trezza,
della saggezza popolare che è
fatta di rassegnazione ed è
tutta racchiusa in massime
proverbiali, c’è anche il tema
dell’infausto desiderio di
progresso che prende un po'
tutti gli uomini, a vari
livelli, ed è sempre la fonte
primaria dell’insoddisfazione e
dell’infelicità, e in definitiva
rende tutti gli uomini dei
“vinti”.
Il ciclo dei vinti
Il Verga, durante la
composizione de “I Malavoglia”,
aveva già ben preciso in mente
un “ciclo” di romanzi che
svolgesse per intero
l’evoluzione di questo desiderio
di progresso, di benessere e di
potenza, che si manifesta
anzitutto con la sete di
possesso della “roba”, per poi
arrivare più in alto, al
blasone, al potere, alla gloria.
E di questo “ciclo dei vinti”,
che doveva comprendere ben
cinque romanzi, egli ci parla
nella prefazione a “I
Malavoglia”, che diviene il
primo romanzo del ciclo:
|
«Il movente
dell'attività umana che
produce la fiumana del
progresso è preso qui
alle sue sorgenti, nelle
proporzioni più modeste
e materiali. Il
meccanismo delle
passioni che la
determinano in quelle
basse sfere è meno
complicato, e potrà
quindi osservarsi con
maggior precisione.
Basta lasciare al quadro
le sue tinte schiette e
tranquille, e il suo
disegno semplice. Man
mano che cotesta ricerca
del meglio di cui l'uomo
è travagliato cresce e
si dilata, tende ad
elevarsi, e segue il suo
moto ascendente nelle
classi sociali. Nei
Malavoglia non è ancora
che la lotta pei bisogni
materiali. Soddisfatti
questi, la ricerca
diviene avidità di
ricchezze, e si
incarnerà in un tipo
borghese, Mastro don
Gesualdo, incorniciato
nel quadro ancora
ristretto di una piccola
città di provincia, ma
del quale i colori
cominceranno ad essere
più vivaci, e il disegno
a farsi più ampio e
variato. Poi diventerà
vanità aristocratica
nella Duchessa di Leyra;
e ambizione
nell'Onorevole Scipione,
per arrivare all'Uomo di
lusso, il quale riunisce
tutte coteste bramosìe,
tutte coteste vanità,
tutte coteste ambizioni,
per comprenderle e
soffrirne, se le sente
nel sangue e ne è
consunto. A misura che
la sfera dell’azione
umana si allarga, il
congegno delle passioni
va complicandosi; i tipi
si disegnano certamente
meno originali, ma più
curiosi, per la sottile
influenza che esercita
sui caratteri
l'educazione, ed anche
tutto quello che ci può
essere di artificiale
nella civiltà.» |
|
In effetti il Verga non portò a
termine il suo piano di lavoro e
di tutto il ciclo ci diede solo
l’altro suo capolavoro,
“Mastro-don Gesualdo” ed un
capitolo della “Duchessa di
Leyra”. Ma prima di comporre il
suo secondo grande romanzo,
scrisse altre famose novelle,
raccolte in “Novelle rusticane”
(fra cui è famosa “La roba” che
ci presenta il personaggio
Mazzarò, un vero e proprio
abbozzo di Mastro-don Gesualdo)
ed il dramma “Cavalleria
rusticana”, tratto dall’omonima
novella di “Vita dei campi”.
"Mastro-don Gesualdo"
Nel romanzo “Mastro-don Gesualdo”
il tema predominante non è più
quello del “focolare domestico”,
ma quello della “roba”.
Bianca Trao, di famiglia nobile
ma finanziariamente ridotta al
lumicino, è scoperta dai
familiari in intimo colloquio
col ricco cugino Ninì Rubiera. I
Trao pretendono la riparazione
ed invitano il giovane a sposare
Bianca: pensano così di trarre
anche un qualche beneficio
economico. Ma la energica madre
di Ninì, la baronessa, rifiuta
decisamente tale soluzione,
affermando senza mezzi termini
che i suoi antenati non fecero
suo figlio barone e “non si
ammazzarono a lavorare perché la
loro roba poi andasse in mano di
questo o di quello”. Promette
solo di punire il figlio
costringendolo a sposare chi
dice lei e di aiutare la nipote
Bianca a trovare un “galantuomo”
che la sposi prima che risulti
evidente l’errore della donna e
scoppi uno scandalo in città. Il
galantuomo è presto scelto nella
persona di Gesualdo Motta, un
ex-manovale che ha stentato la
vita per farsi, pezzo a pezzo,
una proprietà tra le maggiori
del paese e che aspira a salire
qualche gradino nella scala
sociale. Il matrimonio si fa
così in fretta che quando nasce
il frutto della colpa Gesualdo è
convinto di aver avuto una
figlia. Isabella cresce con
tutti gli agi possibili e nei
migliori collegi frequentati dai
nobili, ma è angustiata dai
pettegolezzi che si fanno sulle
sue origini (figlia di una
nobildonna e di un manovale!).
Per questo motivo la fanciulla
verrà su con un sordo rancore
verso il presunto padre. Un
giorno fuggirà con un giovane,
ma il padre la perdona ed
organizza per lei le nozze
sontuose col nobile Alvaro
Filippo Maria Ferdinando
Gargantas di Leyra. Isabella si
allontana ancora di più dal
padre per aver dovuto subire
questo matrimonio; la moglie
Bianca non si è mai presa cura
di lui; il genero pensa solo a
sperperargli il patrimonio con
le sue dissolutezze. Alla fine
mastro-don Gesualdo, affetto da
una malattia inguaribile, viene
trascinato a forza nel palazzo
palermitano del genero e
relegato in una camera
appartata, dove alcuni servi si
prendono cura sgarbatamente di
lui fino a quando muore. E
quando nottetempo muore, essi
attenderanno l’alba prima di
darne l’annunzio, per non
turbare il sonno dei padroni:
|
«Il servitore tolse il
paralume, per vederlo in
faccia. Allora si fregò
bene gli occhi, e la
voglia di tornare a
dormire gli andò via a
un tratto.
- Ohi! ohi! Che facciamo
adesso? - balbettò,
grattandosi il capo.
Stette un momento a
guardarlo così, col lume
in mano, pensando se era
meglio aspettare ancora
un po', o scendere
subito a svegliare la
padrona e mettere la
casa sottosopra. Don
Gesualdo intanto
andavasi calmando, col
respiro più corto, preso
da un tremito, facendo
solo di tanto in tanto
qualche boccaccia, cogli
occhi sempre fissi e
spalancati. A un tratto
s'irrigidì e si chetò
tutto. La finestra
cominciava a imbiancare.
Suonavano le prime
campane. Nella corte
udivasi scalpitare dei
cavalli, e picchiare di
striglie sul selciato.
Il domestico andò a
vestirsi, e poi tornò a
rassettare la camera.
Tirò le cortine del
letto, spalancò le
vetrate, e s'affacciò a
prendere una boccata
d'aria, fumando.
Lo stalliere che faceva
passeggiare un cavallo
malato, alzò il capo
verso la finestra.
- Mattinata, eh, don
Leopoldo?
- E nottata pure! -
rispose il cameriere
sbadigliando. - M’è
toccato a me questo
regalo!
L’altro scosse il capo,
come a chiedere che
c’era di nuovo, e don
Leopoldo fece segno che
il vecchio se n’era
andato, grazie a Dio.
- Ah...così...alla
chetichella?... -
osservò il portinaio che
strascicava la scopa e
le ciabatte per
l’androne.
Degli altri domestici
s'erano affacciati
intanto, e vollero
andare a vedere. Di lì a
un po' la camera del
morto si riempì di gente
in manica di camicia e
colla pipa in bocca. La
guardarobiera, vedendo
tutti quegli uomini
dalla finestra,
dirimpetto, venne anche
lei a far capolino nella
stanza accanto.
- Quanto onore, donna
Carmelina! Entrate pure;
non vi mangiano mica...
E neanche lui... non vi
mette più le mani
addosso di sicuro...
- Zitto, scomunicato!...
No, ho paura,
poveretto!... Ha cessato
di penare.
- Ed io pure - soggiunse
don Leopoldo.
Così, nel crocchio,
narrava le noie che gli
aveva dato quel
cristiano - uno che
faceva della notte
giorno, e non si sapeva
come pigliarlo, e non
era contento mai. -
Pazienza servire quelli
che realmente son nati
meglio di noi... Basta,
dei morti non si parla.
- Si vede com'era
nato... - osservò
gravemente il cocchiere
maggiore .- Guardate che
mani!
- Già, son le mani cha
hanno fatto la pappa!...
Vedete cos’è nascere
fortunati... Intanto vi
muore nella battista
come un principe!...
- Allora - disse il
portinaio - devo andare
a chiudere il portone?
- Sicuro, eh! E' roba di
famiglia. Adesso bisogna
avvertire la cameriera
della duchessa.» |
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Durante questi anni il Verga
volle tentare pure la
descrizione degli umili
settentrionali nei racconti
raccolti in “Per le vie” (1883),
“Vagabondaggio” (1887) e “Don
Candeloro e C.” (1894), ma
questo mondo non gli apparteneva
e l’esito artistico fu assai
meno felice. Come poco felici
furono i suoi ritorni alla prima
maniera (forse per una sorta di
rivalsa sulle tiepide
accoglienze riservate dai
critici ai suoi capolavori): “Il
marito di Elena” (1882) e “I
ricordi del capitano d’Arce”
(1891).
Lo stile
Lo stile del Verga rispecchia il
tono ed il colore del mondo di
pescatori e contadini siciliani
che popolano le sue novelle ed i
suoi maggiori romanzi: è
estremamente elementare,
pittoresco, decisamente
antiletterario: esso aderisce
intimamente alla psicologia dei
personaggi e per questo motivo
usa con molta frequenza la
citazione di proverbi (che
racchiudono l'antica saggezza
popolare) e il dialogo, la cui
struttura a volte viene
utilizzata anche nel discorso
indiretto.
Nota acutamente il Sapegno che
«Poetica è...la qualità della
sua prosa nei libri più grandi:
quel lessico ritrovato alle
sorgenti con uno strano sapore
di arcaicità dialettale; quel
discorso infittito di formule e
di proverbi, che richiama Omero
e la Bibbia; quella sintassi
scarna e povera, ma
originalissima, segnata di
musicali cadenze, con un ritmo
di canzone di gesta; quella
tecnica del disegno e del
colore, di un impressionismo
primitivo e sommario, che ripete
e varia all'infinito il suo
gruzzolo di immagini e di toni;
quel linguaggio di Verga,
insomma, che è senza dubbio,
dopo Manzoni, e in perfetta
coerenza con le idee sulla
lingua e lo stile della poetica
verista, l’apporto più nuovo e
di più alto rigore stilistico
nella storia della nostra
letteratura fino ad oggi».
La fortuna
Abbiamo già detto che
l’accoglienza alle opere veriste
del Verga fu assai fredda da
parte del pubblico e della
critica e assai lontana dagli
entusiasmi che avevano provocato
i suoi precedenti romanzi. Le
ragioni di ciò sono molteplici:
intanto c’era una dichiarata
avversione al verismo in
generale che si estese all'opera
del Verga, la cui originalità
non fu per niente avvertita;
c’era poi il fatto che la
sensibilità dominante era in
quegli anni fortemente
suggestionata dal misticismo e
dal sensualismo dei primi autori
del decadentismo italiano, dal
Fogazzaro, dal Pascoli e dal
D’Annunzio; e infine dominava il
pregiudizio che la buona prosa
non dovesse allontanarsi dal
solco della tradizione
letteraria e quella del Verga
appariva pertanto
eccessivamente volgare e
plebea: l’unico a capire la
necessità artistica di quel
linguaggio fu Luigi Capuana, ma
la sua difesa non trovò che
scarsi consensi.
Perché l’opera del Verga venisse
chiarita e rivalutata, si dovrà
attendere il saggio del Croce
apparso su “La critica” nel
1903. Il Croce nega ogni
validità alla teoria dell’
“impersonalità dell’arte” e nel
contempo afferma che tale
principio fu affatto assente
nell'opera verghiana, alla quale
riconosce una sincera
partecipazione “fatta di bontà e
di malinconia”.
Tuttavia nemmeno il saggio del
Croce riuscì a rimuovere le
diffidenze verso l’arte del
Verga, la quale dovrà attendere
ancora sedici anni per ottenere
il giusto riconoscimento ed
un’ampia divulgazione, grazie
alla vasta monografia dedicatale
da Luigi Russo.
Il Russo mise a fuoco i problemi
essenziali che era necessario
risolvere per intendere l’opera
del Verga. Anzitutto chiarì il
rapporto fra il verismo italiano
ed il naturalismo francese; poi
quello fra il verismo ed il
romanticismo. Con un’analisi
attenta e scrupolosa di tutte le
opere del Verga, ne tracciò poi
lo svolgimento, mettendone in
luce la continuità e
l’intrinseca coerenza
(approfondendo un'intuizione
crociana) e individuandone i
motivi ispiratori ed
originalissimi e spiegandone la
singolarità dello stile: il
Verga «ha risvegliato l’uomo,
dove gli altri vedevano il
bruto, ed egli ha saputo calarsi
nella profondità misteriosa del
mondo interiore del barbaro.
Stilisticamente, questa
miracolosa adesione alla logica
dei primitivi, si è tradotta in
una specie di musica triste e
monotona con cui lo scrittore
viene accompagnando la
narrazione». L’ispirazione
profonda de “I Malavoglia” - che
per il Russo rappresentano il
vero capolavoro verghiano -
consiste nella “religione del
focolare domestico” mentre
quella di “Mastro-don Gesualdo”
consiste nella “religione della
roba”. In entrambe le
definizioni il critico usa il
termine “religione” perché la
fedeltà dei personaggi verghiani
“alla vita, alle costumanze
antiche e severe, agli affetti
semplici e patriarcali” gli
appare profondamente segnata di
senso religioso, anche se questa
religiosità primitiva non si
accompagna ad una condizione di
serenità né ad alcuna speranza.
La critica successiva ha
approfondito questo e quello dei
vari aspetti dell’opera, a volte
allontanandosi dalle valutazioni
del Russo, il cui saggio
tuttavia resta fondamentale per
intendere il Verga. Chi ha
scorto una dimensione più
altamente universale
nell'ispirazione verghiana è il
Ramat, che così nota:
«Ritroviamo in Verga il senso
religioso del mistero, la
domanda religiosamente
angosciata di cosa sia l’uomo,
la ricerca spietata e insieme
compassionevole del rapporto fra
l'uomo e l’universo. Ritroviamo
il tragico impegno leopardiano
in una ribellione conoscitiva di
fronte al fato, e il suo piegare
in elegia: e il ridurre
all’essenziale, fuor dei termini
filosofici, il dolore del mondo,
la storia del mondo come dolore,
calata in motivi realisticamente
quotidiani; e lo scavare la
sostanza universale ed eterna
dell'uomo d’ogni tempo e spazio
per entro alla crosta di
civiltà, convenzioni sociali,
per ritrovarne l'essenza
primitiva e costante. Recanati è
tutto il mondo come Aci-Trezza:
Jeli, Rosso Malpelo, sono tutti
gli uomini, come il Pastore
errante».
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