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IL ROMANTICISMO
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VINCENZO CUOCO
Nato a
Civitacampomarano, nel Molise,
nel 1770, giovinetto si trasferì
a Napoli per intraprendere gli
studi giuridici, rivolgendosi,
però, di preferenza alla storia,
alla filosofia ed al mondo
classico. Fu discepolo del
Genovesi e del Pagano ed
appassionato studioso del
Machiavelli e del Vico,
maturando così un vivo interesse
per la politica. Nel 1799 fu tra
gli artefici della Repubblica
Partenopea, benché non
condividesse i metodi
rivoluzionari dei patrioti, e
non mancò di dare il proprio
apporto alla stesura della
Costituzione redatta dal Pagano,
sicché dovette anch’egli subire
il carcere e l’esilio al rientro
di Ferdinando IV. Riparò a
Parigi e da qui a Milano, dopo
Marengo, nel 1801, ove pubblicò
l’opera sua maggiore, il Saggio
storico sulla rivoluzione
napoletana del 1799, la cui
seconda edizione, rivista e
corretta, vide la luce, sempre a
Milano, nel 1806, ad opera
dell’editore Sonzogno. Nel
capoluogo lombardo fondò, nel
1804, e diresse per due anni il
“Giornale italiano”, mentre
andava compilando, in forma
epistolare, il famoso romanzo
archeologico Platone in Italia.
All’avvento sul trono di Napoli
di Giuseppe Bonaparte, nel 1806,
il Cuoco poté ritornare in
patria, ove ricoprì incarichi
pubblici di grande importanza
(consigliere di Cassazione,
componente della commissione per
la compilazione del nuovo codice
civile, direttore del Tesoro,
ecc.). Intensa fu pure la sua
attività pubblica durante il
regno di Gioacchino Murat, al
quale indirizzò una “Relazione”
sullo stato della pubblica
istruzione, scendendo in
polemica con i maggiori
pedagogisti di Napoli. Al
ritorno dei Borboni a Napoli, a
seguito del Congresso di Vienna,
egli fu risparmiato dalla nuova
persecuzione ed anzi si vide
riconfermata la carica di
direttore del Tesoro, ma intanto
fu vittima di una grave malattia
mentale e visse in uno stato di
totale follia dal 1816 fino
all'anno della morte, che lo
colse nel 1823.
Nel Saggio storico sulla
rivoluzione napoletana del 1799
il Cuoco affronta con molta
lucidità il problema del
fallimento della rivoluzione
partenopea, ricercandone le
cause e raffrontando
l’esperienza napoletana con
quella francese.
Nell’introduzione il Cuoco
esprime la massima
considerazione per tutti quei
patrioti che, in buona fede,
sbagliarono una rivoluzione e
pagarono a caro prezzo il loro
entusiasmo per la libertà, ma
avverte pure che egli non può e
non deve, per il rispetto dovuto
a quegli eroi, falsare la verità
ed ingannare le generazioni
future:
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«Narro le vicende della
mia patria; racconto
avvenimenti che io
stesso ho veduto, e de'
quali sono stato io
stesso un giorno non
ultima parte; scrivo pei
miei concittadini, che
non debbo, che non
posso, che non voglio
ingannare. Coloro i
quali, colle più pure
intenzioni e col più
ardente zelo per la
buona causa, per la
mancanza di lumi o di
coraggio, l'han fatta
rovinare; coloro i quali
o son morti
gloriosamente o gemono
tuttavia vittime del
buon partito oppresso,
mi debbono perdonare se
nemmen per amicizia
offendo quella verità
che deve esser sempre
cara a chiunque ama la
patria, e debbono esser
lieti se non avendo
potuto giovare ai
posteri colle loro
operazioni, possano
almen esser utili cogli
esempi de' loro errori e
delle sventure loro.» |
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Il Cuoco poi analizza i
presupposti ideologici su cui si
fondò la rivoluzione francese e
trova che essi furono
eccessivamente astratti, poco
aderenti alla realtà effettuale
della nazione ed al momento
storico e, quindi, non idonei a
realizzare una rivoluzione
compiuta:
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«I Francesi furono
costretti a dedurre i
princìpi loro dalla più
astrusa metafisica, e
caddero nell'errore nel
qual cadono per
l’ordinario gli uomini
che seguono idee
soverchiamente astratte,
che è quello di
confonder le proprie
idee con le leggi della
natura.» |
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Ancor più grave fu l’errore dei
patrioti napoletani, i quali non
solo non tennero in alcun conto
il fatto che «una rivoluzione
non si può fare senza il popolo»
e che «il popolo non si move per
raziocinio, ma per bisogno», ma
pretesero anche di trasferire
nel Meridione d’Italia i
princìpi astrusi di una
filosofia nata molto lontana e
in condizioni assai diverse («le
vedute de' patrioti e quelle del
popolo non erano le stesse: essi
avevano diverse idee, diversi
costumi e finanche due lingue
diverse»). Sicché la rivoluzione
partenopea era fatalmente
destinata all’insuccesso:
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«Le idee della
rivoluzione di Napoli
avrebbero potuto esser
popolari, ove si avesse
voluto trarle dal fondo
istesso della nazione.
Tratte da una
costituzione straniera,
erano lontanissime da'
sensi... Se mai la
repubblica si fosse
fondata da noi medesimi;
se la costituzione,
diretta dalle idee
eterne della giustizia,
si fosse fondata sui
bisogni e sugli usi del
popolo; se un'autorità,
che il popolo credeva
legittima e nazionale,
invece di parlargli un
astruso linguaggio che
esso non intendeva, gli
avesse procurato de'
beni reali, e liberato
lo avesse da que' mali
che soffriva; forse...
noi non piangeremmo ora
sui miseri avanzi di una
patria desolata e degna
di una sorte migliore». |
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Le idee espresse dal Cuoco nel
Saggio e negli articoli
pubblicati sul Giornale italiano
lasciano chiaramente intendere
che egli non condivise mai i
programmi dei più accesi
rivoluzionari e fu piuttosto
incline ad accettare le istanze
di quei liberali moderati, che
miravano all’unità ed
all’indipendenza della Nazione
mediante un processo graduale di
riforme politiche e sociali che
i tempi stessi avrebbero
favorito. Egli era infatti
convinto che l’indipendenza
italiana era essenziale
all’equilibrio europeo e che
pertanto sarebbe stato
interesse di tutte le potenze
promuoverla prima o poi. Entro
questa ottica valutava
positivamente l’opera di
Napoleone in Italia, il quale
pure aveva dato ordine e
legalità alle popolazioni a lui
soggette, sforzandosi di
promuovere riforme sociali utili
al popolo e soprattutto
rispettose dei sentimenti e dei
costumi delle singole regioni.
Con questa fede
nell’indipendenza dell’Italia
egli espresse il suo spirito
nazionalistico nel Platone in
Italia.
Nel Platone in Italia, che,
secondo il Sapegno, “in parte
precorre il mito giobertiano del
primato”, l’Autore immagina che
il filosofo greco del V sec.
A.C., durante un viaggio nella
Magna Grecia in compagnia del
discepolo Cleobolo, avesse modo
di constatare ed ammirare l’alto
grado di civiltà raggiunto da
quelle popolazioni sia nel campo
delle scienze e delle arti che
in quello delle istituzioni
civili, ancor prima che l’antica
civiltà si sviluppasse
pienamente in Grecia. E'
evidente l’intento del Cuoco di
riscattare l’autenticità di una
tradizione culturale tutta
nostra, per nulla debitrice
verso altre popolazioni, ed è
anche abbastanza chiaro che il
suo romanzo tragga ispirazione
da una intuizione del Vico
espressa nel “De antiquissima
Italorum sapientia”. D’altronde
la presenza del Vico non è solo
questa, cioè di origine
storiografica, ma si estende
anche al discorso filosofico più
generale. Per esempio è di
stampo vichiano questo passo:
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«(I popoli primitivi)
ricercarono la cagione
di ciò che temevano, e
credettero ritrovarla
nella idea sublimemente
tenebrosa di un ente
indefinitamente forte,
che lo stesso timore
aveva fatto immaginare.
Il timore fece nascere
la religione, e tutte le
scienze in origine non
furono che religiose. Si
cercava la cagione del
fulmine? Era negl'iddii,
perché la loro idea era
la prima che gli uomini
avessero immaginata...
Quindi, per i primi
popoli, i sapienti non
eran altri che gli
stessi sacerdoti: la
scienza della natura non
era che la scienza degli
àuguri, cioè della
volontà degl'iddii; la
scienza dell’uomo non
era che la scienza de'
sacrifici e delle
espiazioni, cioè de’
modi di propiziarsi la
volontà di quegl'iddii
che il popolo temeva.» |
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E ancora, nel fare
romanticamente l’esaltazione del
“vero” come unico possibile
oggetto della poesia, egli così
dice:
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«Se l'arte
dell'eloquenza è l'arte
di persuadere, non vi è
altra eloquenza che
quella di dire sempre il
vero, il solo vero, il
nudo vero. Le parole,
onde è necessità di
nostra inferma natura di
rivestire il pensiero,
saranno tanto più
potenti, quanto più atte
al fine, cioè più nudo
lasceranno il vero, che
è nel pensiero.» |
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L’eccessiva esposizione di
dottrine scientifiche condotta
in modo aridamente sistematico,
le numerosissime citazioni di
autori antichi, le innumerevoli
descrizioni di reperti
archeologici non giovano
certamente alla speditezza del
discorso essenziale. Giustamente
il Sapegno afferma che il
Platone «è riuscita un'opera
disorganica e frammentaria,
incerta tra l'ispirazione
fantastica e i propositi
dottrinali, e anche
stilisticamente infelice,
redatta in una prosa che sta a
mezzo fra la sciatteria
settecentesca e i modi enfatici
e declamatori della letteratura
del tempo.»
La grandezza del Cuoco, anche
come scrittore, è tutta da
ricercare nel Saggio storico,
nel quale si sposano
egregiamente l'acutezza dello
storico con l’ardore del maestro
di civili costumi, dando origine
ad una prosa che rispecchia in
pieno l’ideale di stile del
Cuoco, che, in contrasto con le
mode correnti della spumeggiante
retorica neoclassica e della
concitata e sfrenata baldanza
romantica (ci riferiamo
ovviamente alle mode instaurate
e seguite dai mediocri), attua
invece «un'eloquenza popolare,
senza fronzoli e senza aridità,
altrettanto aliena dagli
espedienti retorici di scuola,
quanto esperta a derivare
potenza di commozione e
concitazione di ritmo
dall'evidenza dei fatti a dalla
forza... delle idee trasformate
in sentimenti e sostanza di
fede.» (Sapegno).
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