LA GENESI ED IL RITARDO DELLA
LETTERATURA ITALIANA
Il primo problema che ci si fa innanzi, alle origini
della nostra letteratura, è naturalmente quello della
sua genesi. Per tutto l'Ottocento prevale il concetto
romantico che la poesia popolare sarebbe stata la
cellula originaria della nuova letteratura e poesia, e
si amò drammatizzare l'origine delle letterature
romanze, sorte, si diceva, come esperienze oppositrici
dei laici contro la vecchia letteratura latina del
medioevo, patrimonio, privilegio e roccaforte dei
chierici. Popolo e chiericato, ecco i due grandi
antagonisti degli storici romantici; e avrebbe finito
col prevalere l'ingenua freschezza del popolo, contro il
vieto e lambiccato classicismo dei dotti.
Senonché, attraverso l'incessante studio dei documenti,
perseguito nello stesso Ottocento romantico e
positivista e in questo primo quarantennio del
Novecento, si è venuto tramutando tra le mani il canone
dell'interpretazione. La nuova poesia dei trovatori,
oggi si dice, ha la sua origine dalla cultura classica
ed ecclesiastica del chiericato, e non dal popolo. il
popolo non esiste, se non vaga metafora, e la poesia e
la letteratura non nasce mai dall'ignoranza. Anche la
letteratura religiosa non è produzione popolare, al suo
esordio. S. Francesco, sebbene esaltasse gli uomini
idioti e senza lettere, fu amantissímo e rispettosissimo
delle lettere. Tommaso da Celano racconta che il
Serafico raccoglieva qualsiasi rotuletto o pezzo di
pergamena che fosse per terra, temendo di non pestare il
nome del Signore o qualche tratto che parlasse di cose
divine. E poiché un suo discepolo gli domandava perché
ricogliesse con pari studio gli scritti dei pagani:
«Fili mi - avrebbe risposto - litterae sunt ex quibus
componitur gloriosissimum Dei nomen». E poi aggiungeva
che ciò che in tali scritti vi poteva essere di buono,
non si appartiene ai pagani, e agli altri uomini, ma a
Dio solo, da cui procede ogni bene.
In questo modo genialissimo, Francesco rispettava tutte
le letterature, le sacre, e le profane, come il più
illuminato umanista. Egli poi, è noto, si piaceva di
parlare e di cantare francese, ed è indubitato che
conoscesse bene i romanzi di cavalleria francese;
altrimenti non si spiegherebbero tante allusioni, nei
suoi discorsi, a immagini cavalleresche.
Parlando di frate Egidio, con i suoi confratelli
esclama: «Ecco il nostro cavaliere della Tavola
Rotonda». Carlo Magno, Orlando, Ulivieri e «tutti i
paladini» sono ricordati nello Speculum perfectionis, e
una volta è detto nello stesso Speculum che i buoni
frati devono sapere operare il bene e pregare in
solitudine, per non insuperbire di vanità, e in quella
occasione sono chiaamati «i fratelli miei, cavalieri
della Tavola Rotonda». «Questi sono i fratelli miei
cavalieri della Tavola rotonda, che si tengono nascosti
in luoghi deserti e riposti, per attendere con maggiore
cura all'azione e alla meditazione». Orbene, soltanto un
lettore assiduo dei romanzi di cavalleria, ha osservato
il Rajna, poteva essere bene addentro su questo
particolare della segretezza dell'operare dei cavalieri,
che vanno per il mondo celando il loro essere e
compiendo grandi gesta Lancillotto é chiamato il bel
valletto, e più tardi diventerà il cavalier bianco.
Sono anonimi e ignoti al mondo, come dovrebbero essere i
seguaci del santo frate...
Un'altra testimonianza della cultura di Francesco
d'Assisi ci sarebbe anche nell'assisiate illustre, che
egli adottò nel Cantico delle creature, se è vero che
perfino il per ripetuto sette volte in quel cantico può
essere paragonabile al par francese e al per,
complemento di agente, dell'italiano antico, che sarà
poi anche l'italiano di Dante: «Fur fossa mie per
Ottavian sepolte», «Intanto voce fu per me udita», «Più
era già per noi del mondo volto», ecc. ecc. Si pensi
alla ingegnosa interpretazione che del Cantico ha dato
Luigi Foscolo Benedetto. Ma lasciando da parte questa
ancipite testimonianza del per come par, è buona
abitudine di poeta dotto quella di far capo a delle
fonti e a dei modelli letterari. Ed è noto che il
Cantico è esemplato, e in certi punti letteralmente, sul
Cantico di Daniele dei tre fanciulli nella forrince
ardente, e sul salmo 98 di David.
Si conclude dicendo che il santo protettore ed
esaltatore degli uomini idioti e senza lettere, fu uomo
non idiota e fu uomo di molte belle lettere; e l'idiotezza
da lui vantata era soltanto la semplicità e l'umiltà
dello spirito e della mente, a quello stesso modo che
Dante disdegnò i motti e le iscene dei predicatori, i
quali facevano le loro invenzioni ingegnose sulla
Scrittura, mentre non si pensa «quanto piace chi
umilmente con essa s'accosta».
È dunque falso che il primo monumento della nostra
letteratura sia nato dalla ispirata ignoranza della
santità, comecché si dica che nei tempi antichi lo
Spirito Santo amasse calarsi frequentemente sulla lingua
degli uomini idioti: sono favole a cui non credeva più
nello stesso Trecento il Boccaccio, e anche Dante, che
si apparecchiava al suo poema, armatissimo di latino e
di teologia. Tipico esempio ancora quello di Jacopone,
presentato da Alessandro d'Ancona, attorno al 1880, come
poeta di popolo, il giullare di Dio, mentre la critica
recente, dal Gentile al Casella, dal Sapegno al Russo,
lo ha giudicato invece poeta dotto, anzi dottissimo:
poeta-teologo, che ha nelle sue vene tutto un albero
genealogico di dottrine medievali, e ha creato tutto un
suo originale linguaggio, dove l'elemento popolare è
contaminato con l'elemento classico, con quello
ecclesiastico, e ancora con motivi delle nuove civiltà
romanze di Francia e di Provenza. Un todino illustre la
lingua poetica di Jacopone, dall'apparente rozzezza, ma
che, all'analisi, si rivela compendio di una complessa
esperienza letteraria. Giullare di Dio il nostro
Jacopone, si conservi pure l'antica definizione del
d'Ancona, ma a patto che non si calchi sulla rozzezza e
sull'ignoranza del cantore: la sua giollaria, come
quella di Francesco, non era ignoranza o rozzezza, ma
una forma di umiltà, fervore di apostoli, di molte
lettere, che non disdegnavano di accomunarsi
ai volgari giullari, per contendere l'attenzione delle
moltitudini alla corruttela delle altre invenzioni e
storie profane. Le ballate dei giullari del demonio
devono diventare le laude dei giullari di Dio; alla «
ruota dei danzatori, si deve sostituire la ruota dei
devoti che si flagellano e cantano lodi alla Vergine e a
Dio; alla ruota di Satana si dovrà sostituire la ruota
di Dio. Così solo Jacopone può dirsi giullare, e così
solo da Francesco d'Assisi procede tutta una compagnia
di giullari. Bisogna adoperare gli stessi accorgimenti
dei giullari profani, servirsi anche della loro lingua,
dei loro metri, delle loro formule di raduno, anche del
modo stesso di citare le loro fonti. Quelli citavano
Turpino, e questi citeranno la Scrittura, il testo e la
glossa; l'importante era di chiamare attorno a sé il
popolo. E poeti dottissimi si trasfigurarono nella
leggenda, nella tradizione proverbiale, come umili
cantori nati dal popolo e allevati in mezzo al popolo:
l'umiltà dell'atteggiamento si scambiò per popolarità di
esperienza e di contenuto, mentre questo andare verso il
popolo era stata la caratteristica di tutte le eresie e
i movimenti religiosi dopo l'anno Mille. Le nuove idee
religiose partivano da gruppi aristocratici, e si
diffondevano in mezzo al popolo, sempre per quel
processo che si osserva in tutti i movimenti ideali, che
vanno dall'alto verso il basso, e non mai dal basso
verso l'alto. Molte verità del senso comune e del buon
senso sono le verità dei grandi filosofi che, per vie
molteplici e insospettate, sono diventate patrimonio del
popolo. Anche gli stessi movimenti politici, che pare
obbediscano talvolta a oscuri istinti economici e
insorgano dalla faticosa terra e dalle strade canicolari
della città, sono sempre un riflesso di dottrine
politiche e di idealità morali spesso aristocratiche,
che si corrompono, circolando in mezzo al popolo e
trovando in quella corruzione il loro trionfo e al tempo
stesso la loro morte...
Se ora volessimo rapidamente caratterizzare la civiltà
italiana nel suo lontano crepuscolo, dovremmo rilevare
che assai scarsi sono i documenti volgari, i quali siano
testimonianza del popolo italiano nascente, nell'alto
medioevo. Ed è stata fatica generosa ma sterile quella
di alcuni eruditi, i quali hanno voluto allontanare nel
tempo la presenza di alcuni documenti che attestino
l'esistenza di un nuovo idioma. Quale disdetta che
l'Italia, figliuola idealmente primogenita di Roma, sia
nata ultima per la sua lingua e per la sua civiltà ! Che
sarebbe rammarico analogo di chi, largamente dotato, si
dolga di essere nato ottavo o decimo fra fratelli e
sorelle, o di essere nato nel Novecento invece che
nell'Ottocento. Quello che conta è la ricchezza e la
grandezza di una civiltà, e non la priorità della
nascita.
Pure la boria piccolo-borghese che si è messa in questa
ricerca delle lontane origini, lontane più che sia
possibile, dell'Italia, della Francia, della Spagna,
della Catalogna: della Provenza, ecc., è stata forse una
piccola astuzia segreta della storia perché gli studiosi
non riposassero sulle vaghe congetture e fossero
spoltriti alla ricerca di documenti concreti di
appoggio. Si è trovato che i più antichi documenti
latini scritti in Italia, che lascerebbero intravedere
l'esistenza di un nuovo idioma, risalgono al sec. VT, ma
tutto questo non può far parlare di una civiltà
italiana; come invero non si può parlare di una civiltà
francese o di una civiltà provenzale, catalana, anche se
di questa esistono documenti più abbondanti fin dal sec.
VI. Fino al sec. X si può dire che esiste, grosso modo,
una civiltà unitaria, che si può continuare a chiamare
romana, a romanica.
È la civiltà di quei paesi che complessivamente nel
Medioevo si appellano Romànin, che è parola di origine
popolare con la quale si indicò precisamente in quell'epoca
il gruppo dei paesi latini, con la parola analogicamente
esemplata su quella di Gallia, di Grecia, di Britannia;
e Romania si disse per qualche tempo l'impero d'Oriente.
La parola Romania è il simbolo dell'unità spirituale
dell'alto medioevo, e tal verbo si adoperava in
contrasto con la Barbaries, e il romanice loqui fu
contrapposto al barbarice loqui. E i glottologi,
modernamente, è noto, in omaggio a codesta denominazione
popolare del medioevo, chiamano Romania tutto un gruppo
di paesi che ha per centro l'Italia (compresa la costa
orientale adriatica fino a tutta la Dalmazia), la
penisola iberica, la Francia, una parte della Svizzera,
e del Belgio; e, isolata in Oriente, la Rumenia con
qualche propaggine balcanica. Lingue romanze o
neo-latine sono dette le lingue di codesti paesi.
La denominazione di Romania, popolarmente, sopravvisse
fino ai Carolingi, ricevendo anzi un nuovo impulso dalla
restaurazione del vecchio impero, compiuta col genio e
con le armi di Carlo Magno. Soltanto dopo lo
smembramento di quella rinnovellata unione si va a
spegnere la coscienza comune della Romania, mentre si
delineavano, ciascuna con il suo nome particolare, le
varie individualità nazionali ormai distinte,
scioglientesi con vita propria dal ceppo comune....
Romani poi continuarono a chiamarsi isolatamente due
popoli latini, i quali si trovarono stretti d'ogni
intorno dalle gemi barbariche; e poiché non avevano da
distinguersi, latini da altri latini, ma soltanto da
barbari, conservarono il nome di Romani. Sono i romani
della Resia, i quali parlano il romancio (il volgare
neolatino dei Grigioni, recentemente riconosciuto come
la quarta lingua della Svizzera), e i Romani della
penisola balcanica, ossia i Rumeni. Coree si vede il
nome di Romania rimase a quei popoli che continuarono a
contrapporsi a dei barbari; sparisce invece per quei
popoli neolatini, che vivono e confinano tra loro, e che
sono però costretti a differenziarsi anche nel nome,
chiamandosi franchi, provenzali, catalani, ispani,
lombardi. Del resto quel nome persiste ancora nei paesi
d'Occidente, in un uso in cui si è perduta la
consapevolezza dell'origine. Romance in Spagna e in
Portogallo continua a dirsi l'idioma rispettivo. In
Francia roman ebbe poi singolare fortuna, quando la
parola fu applicata a indicare la letteratura latina
tradotta in francese, e poiché in Francia, fin dai primi
secoli, la letteratura più in fiore fu quella narrativa,
la parola roman fini con l'indicare il genere letterario
romanzo.
Questi paesi che complessivamente si appellarono
Romania, sentono anche di avere una cultura comune. Le
scuole di teologia di Parigi, quelle di filosofia
aristotelica e geografia tolemaica a Toledo, e più tardi
la scuola di medicina di Salerno, quella del giure
romano a Bologna, non sono scuole nazionali della
Francia, e della Spagna o dell'Italia, ma dell'Europa,
ancora romana e cristiana. Mai la cultura fu tanto
universale e unitaria in Europa, come nel momento stesso
in cui essa si avviava alle sue distinzioni nazionali. E
l'unità del pensiero medievale si rivela nelle crociate,
quando moltitudini varie di paesi diversi si muovono a
morire per la fede, e si rivela nell'architettura, la
quale, dopo il Mille, per adoperare una frase passata in
proverbio, copre tutta quanta l'Europa di una candida
veste di chiese.
Orbene, appunto in base a codesta vigorosa unità di
pensiero medievale, è necessariamente vano il tentativo
di venir cogliendo segni delle nuove civiltà romanze
prima del sec. XI. Le nuove civiltà romanze sorgono, si
può dire, e acquistano coscienza solo quando esse sono
adulte. Così, in particolare, per riferirsi all'Italia,
la civiltà italiana con la sua fisionomia nazionale
sorge solo nel sec. XIII, quando è matura una
letteratura italiana. Della nascita di una civiltà si
deve dire quello stesso che della genesi di un'opera
d'arte, della quale, qualche volta, si ama tracciare la
preistoria fantastica, cogliendone i segni annunciatori
in questa o quell'opera precedente dello stesso autore,
ma la cui genesi concreta è solo la storia dell'opera
d'arte compiuta, la storia degli elementi, dei motivi
confluenti in quell'opera compiuta.
Ordunque la nuova civiltà romanza italiana nasce
letterariamente non già attraverso quelle scritte tra
latine e volgari che sono state accumulate dagli
eruditi, nella speranza di respingere questa nascita
della civiltà italiana al sec. XII o al sec. XI o ancora
più in là (curiosa la falsificazione delle carte di
Arborea che tra il 1845 e il 1880 mise a rumore il mondo
della cultura europea, ciò che in ogni modo testimonia
ingenua boria nazionalee municipale) ; nasce nel sec.
XIII, e il primo notevole monumento di letteratura
italiana, imitazione o non, è il Cantico delle Creature
di S. Francesco, del primo quarto del sec. XIII, e
l'altro monumento è il Ritmo Cassinese, e, più tardivo,
una poesia tenzonante d'amore, il Contrasto di Cielo d'Alcano,
che non può essere stato composto prima del 1231 e non
più tardi del 1250 Poesia religiosa da una parte e
poesia amorosa dall'altra, ed entrambe temperate di
motivi dotti e di motivi popolareschi. Poiché, come si è
detto, se è da respingere la tesi romantica dell'origine
meramente popolare della nostra letteratura, non è
nemmeno da accettare l'altra dell'origine meramente
dotta, perché uno scrittore vivo non respira soltanto
nel chiuso di biblioteca, masi mescola sempre a tutta la
vita. In fondo, popolo e chiericato sono due astrazioni
polemiche, e l'opera letteraria nasce compendio di
umanità libera al disopra dei compartimenti sociali e
scolastici.
La letteratura in questo caso è come la consapevolezza
critica del nuovo essere che si è venuto formando, e
tale consapevolezza si può dire che non si forma una
volta per sempre nei primi decenni del sec. XIII, ma si
viene approfondendo per tutto il Duecento, e assume una
forma teoricamente tipica e manifesta nel De vulgari
Eloquentia di Dante. Per tutto il secolo XIII permane
accanto alla lontana e pigra consapevolezza della nuova
civiltà, e della nuova letteratura, anche la persuasione
che l'antica civiltà della latinità sopravviva ancora. E
questo avviene non solo in Italia, ma anche in Francia e
in Provenza che pure erano letterariamente più adulte di
almeno un secolo. In altri termini, queste nuove
letterature nazionali nascono e vivono con un afllato
universalistico.
L'antico universalismo medievale non è rinnegato. E si
direbbe che l'ispirazione nazionale delle nuove
letterature sia una forma di mancamento, di decadenza,
rispetto alla comunità universalistica di un tempo.
Quello che per gli storici nazionalistici dell'ottocento
è stato un motivo di orgoglio o di umiltà per la boria
delle loro nazioni, per uno storico medievale poteva
essere il segno di una deplorevole frattura e di uno
scadimento, o una laudabile sopravvivenza. Ciò che ci
deve confermare sulla relatività dei criteri di
progresso o di regresso, e sulla fatuità delle presunte
priorità « romanze » di questa o quella nazione.
L'universalità propria della letteratura latina,
l'universalità propria del pensiero politico e
chiesastico, l'universalità dell'architettura, e infine
l'universalità della scienza medievale per cui tutto il
mondo è patria, alimenta di sé come mito le nuove
letterature nazionali. Nei sec. XI e XII, comincia, è
vero, una specie di separazione tra le nascenti civiltà
romane, sennonché l'afflato universalistico di tutta la
cultura medievale fa sentire anche i suoi effetti sulle
chiuse letterature nazionali. Solo così possiamo
spiegarci come la letteratura provenzale e la francese
fossero così popolari e quasi indigene in Italia. Così
ci spieghiamo come Dante possa nel suo De vulgari
Eloquentia affermare che la lingua francese, la lingua
provenzale e il volgare nostro fossero una sola lingua
pronunziata diversamente da tre popoli diversi. |