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La
rivoluzione liberale |
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"Saggio sulla lotta
politica in Italia", pubblicato a Bologna nel 1924. Il
saggio gobettiano, che si muove su una tradizione che ha
per maestri Cattaneo e Oriani, Missiroli e Salvemini,
sintetizza, riferendolo al fondamento storico della
"mancata" rivoluzione risorgimentale, le ragioni di una
opposizione di principio, da organizzare unitariamente, al
fascismo. Gli studi di Gobetti
sull'Alfieri (la sua tesi di laurea) e sul pensiero
politico piemontese (Risorgimento senza eroi); la
revisione del concetto di classe dirigente e del suo
rapporto con il popolo, alla luce sia della rivoluzione
sovietica (cui aveva dedicato i soli articoli di
interpretazione storica costruttiva apparsi in quel tempo
da parte di non marxisti) sia dell'esperimento operaio
alla Fiat ispirato e guidato da Gramsci; infine la
delusione dinanzi al carattere contingente e ancora
episodico del primo antifascismo dei partiti democratici,
delusione che faceva sorgere in lui l'esigenza di un
antifascismo che andasse alle fonti e alle cause del
fascismo stesso - tutti questi materiali ideologici e
storico-culturali emergono come gli elementi costitutivi
della Rivoluzione liberale. Era, com'egli spiegava, un
libro di "teoria liberale". Il termine "liberale" non
aveva però nessun addentellato con l'omonimo partito,
formatosi ufficialmente in Italia da pochi anni (nel
1921). Acquistava al contrario un senso di "liberazione
democratica", protagonista non più la borghesia
imprenditrice (di cui Gobetti
scorgeva e giudicava cronico il vizio protezionistico) ma
il proletariato più avanzato e i ceti intellettuali e
professionali: così da saldare in una nuova esperienza la
tradizionale scissione italiana fra élite e masse
popolari. Era significativo, pertanto, che a questo punto
del suo ciclo di pensiero egli invocasse Marx in luogo di
Mazzini, Cattaneo in luogo di Gioberti, come gli
ascendenti di uno sforzo ideologico che cercasse di
immedesimarsi con le esperienze effettive del mondo del
lavoro e delle sue legittime rivendicazioni di potere.
Tentando ora una legittimazione di questa "rivoluzione"
(da non intendere nel senso di agitazione massimalistica,
ma di una attuazione senza alternative dei valori di
libertà), Gobetti
partiva anzitutto dalla "eredità del risorgimento" (libro
primo), determinata per lui dagli apporti di Cavour e di
Cattaneo (l'uno come educatore-diplomatico, l'altro come
iniziatore di una concreta ricerca di nessi tra il piano
sociale e quello politico), menomata poi dalla eredità
cattolica e dalla disgregazione sociale che durarono
tuttavia dal 1850 al 1914, dal camuffamento del
protezionismo in liberismo, dalla intrinseca debolezza del
riformismo socialista. Il decennio giolittiano era stato
tuttavia, secondo Gobetti,
un indubbio progresso di serietà amministrativa: la prima
guerra mondiale avrebbe potuto esserne una verifica in
profondità, che arrivasse davvero alle masse; fu corrotta
invece da un nazionalismo oligarchico in cui trovavano
espressione i residui retorici del risorgimento. Il
fallimento popolare della guerra fu dimostrato dalla
incapacità del socialismo di superare la propria impotenza
e farsi, nel primo dopoguerra, partito di governo. Nel
secondo libro, Gobetti
affronta l'analisi della lotta politica in Italia, la
concezione e la prassi del liberalismo, la sua ultima,
sofisticata interpretazione in Gentile ("per Gentile la
politica liberale si fa dall'alto: solo il ministro può
chiamarsi liberale"), l'immaturità delle esperienze di
democrazia sinora effettuate, e passa poi direttamente
all'esame delle correnti e degli uomini: per i popolari,
Toniolo, Meda, Sturzo, additando in quest'ultimo
l'esponente di una nuova posizione di illuminismo, che
richiama per certi aspetti in campo laico l'insegnamento
di Salvemini; per i socialisti, Turati che (come Gobetti
osserva in un bilancio di estrema obiettività) ebbe il suo
momento migliore nella lotta agl'inizi del secolo, e poi
si rivelò del tutto incapace non solo a guidare, ma anche
a concepire una lotta di classe ai fini della conquista
del potere; per i comunisti, valgono, come un saggio a sé,
le famose pagine su Torino e l'opera di Gramsci, con
analisi che tuttora restano da sviluppare. Segue infine
l'analisi del fascismo stesso: benché esaltasse una
visione volontaristica della politica, Gobetti
avversava radicalmente il fascismo, per la carica di
valori democratici e di classe che vedeva in esso negati e
repressi, e non credeva che esso avrebbe determinato una
vera potenza militare, né un autentico incremento
politico, per la sua negazione di ogni politica: "il
governo di Mussolini esilia nei conventi la critica, offre
ai deboli una religione di Stato, una guardia pretoriana,
un filosofo hegeliano a capo delle scuole: nello Stato
etico annulla le iniziative". Bisognava dunque prevedere
una vera e propria parentesi involutiva per il grande
problema dell'unità della coscienza politica italiana,
interrotto e falsato dalle soluzioni apparenti che il
fascismo offriva ai reali problemi della nostra storia
quando, "alleandosi con la plutocrazia, eliminava
provvisoriamente i due problemi che sarebbero stati la
Bastiglia del popolo italiano: i rapporti tra lo Stato e
le classi operaie - l'incontro e l'antitesi fra industria
e agricoltura". Con questa interpretazione, che tentava
spregiudicatamente una spiegazione "di classe" del nuovo
regime, il concetto di rivoluzione liberale finiva per
legare deliberatamente i problemi inerenti alla libertà
democratica in senso formale e alternativo al fascismo, e
la ricerca di "contenuti" che rinnovassero la vita
politica e sociale italiana. Di qui, come è stato anche
notato, il carattere "utopistico", cioè di prospettiva e
di efficacia ideale a lungo termine, di questo "manifesto"
gobettiano del 1924. Lo stesso titolo diede Gobetti
al settimanale politico da lui diretto e pubblicato a
Torino dal 12 febbraio 1922 all'8 novembre 1925: l'11 di
quel mese una ingiunzione prefettizia spegneva la vita del
famoso periodico. Umberto Segre |
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