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Il
diluvio |
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Farsa in tre atti del commediografo Ugo
Betti, scritta nel 1931 e rappresentata per la prima volta
a Roma nel 1943. Il professore di computisteria Arcibaldo
Mattia, se vuole procurarsi i mezzi per pubblicare il suo
scritto rivoluzionario "Il diluvio", deve prestarsi a un
gioco che metterà a repentaglio la sua vita di piccolo
borghese, già pieno di guai. Fatma, cugina di sua moglie,
e la madre Leonia devono ricevere un milionario, Lindoro
Polten-Bemoll, che hanno conosciuto al mare, ma, non
avendo a disposizione una casa degna e un uomo che, come
padre e marito, possa dare tutte le garanzie di
rispettabilità si rivolgono al cugino Arcibaldo, il quale
potrà contribuire a far si che la simpatia mostrata dal
milionario per Fatma si tramuti in un legame più concreto.
Giunge così Lindoro seguito da una schiera di creditori di
Arcibaldo. S'organizza una specie di pranzo metafisico;
pranzo prestato dal trattore a condizione che solo il
milionario mangi. Intanto le attenzioni di Lindoro, fra la
soddisfazione dei creditori, si rivolgono a Clelia, la
bella moglie di Arcibaldo; i due anzi finiscono per
trovarsi soli in una camera che l'ignaro marito fa
chiudere a chiave. E quand'egli, accortosene, si dispera,
i creditori gongolano, certi che si tratti di una commedia
inscenata per coprire il mercato. Il professore rimane il
triste bersaglio di tutti: dei creditori che temono che
nella camera non sia successo nulla; della moglie che gli
rimprovera la sua dappocaggine: persino di Lindoro che lo
accusa dello scambio a cui s'è prestato. Di fronte alla
moglie inferocita che confessa la sua colpa, Arcibaldo,
trovata per caso una pistola, cerca di sparare senza
accorgersi di avere in mano un giocattolo. Sopraffatto dal
ridicolo, scoppia in una scena veemente e denuncia il
crollo d'ogni ideale ("Dove sono i princìpi? Le parole ci
sono, ma il guaio è che non ci sono più le cose! Non c'è
un chiodo che tenga"); ma un colpo parte verso il soffitto
dalla pistola che intanto era stata sostituita. Tutti
fuggono e Arcibaldo cade al suolo. "L'avete scampata
bella", gli dice il segretario. "Muoio ugualmente,
signore. Il mio cuore è debole. Credo che possiate andare
a ordinarmi le esequie". E muore. Fanno dunque le spese di
questo grottesco la piccola borghesia, velleitaria e
compassionevole nel desiderio di evadere dal suo destino,
e la retorica dei grandi principi che "hanno perso la
colla" affondando in una realtà incapace di sostenerli
validamente. Un contenuto, quindi, tutt'altro che allegro
che l'andamento burattinesco e paradossale (entrano spunti
alla René Clair e la presa in giro di motivi ibseniani e
di molto teatro moderno) non riesce a trasfigurare del
tutto in gioco e movimento fantastico.
Alfredo Barbina
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