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DIVINA
COMMEDIA
INTRODUZIONE
CRITICA AL CANTO |
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INTRODUZIONE
CRITICA AL CANTO |
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DIVINA COMMEDIA RIASSUNTO E
CRITICA
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CANTO XII
I due
poeti scendono per un dirupo dal
sesto al settimo cerchio. Qui
trovano, a sbarrare il cammino,
il frutto dell’innaturale
connubio di Parsifae con un
toro, il Minotauro. Nel vederli,
accecato dall’ira, il mostro
morde se stesso, poi, quando ode
rievocati da Virgilio la propria
uccisione ad opera di Teseo e il
tradimento della sorella
Arianna, saltella qua e là come
toro colpito a morte. I due ne
approfittano per scendere ai
piedi della frana. Virgilio
spiega a Dante come essa sia la
conseguenza del terremoto che
precedette la discesa di Cristo
nel limbo, allorché l’intero
universo sembrò per un attimo
volersi nuovamente convertire
nel caos originario. Il settimo
cerchio è tutto occupato da un
fiume di sangue bollente, in cui
sono immersi i violenti contro
il prossimo. A guardia dei
dannati sono posti i centauri.
Armati di arco e di frecce, come
quando, in terra, solevano
andare a caccia, hanno il
compito di impedire alle ombre
di emergere dal sangue più di
quanto la loro pena comporti. Il
centauro Nesso scambia i
viandanti per due anime e chiede
loro a quale pena siano
destinati. Ma Virgilio vuole
parlare soltanto con Chirone, il
leggendario maestro di Achille;
giunto in sua presenza, gli
fornisce esaurienti spiegazioni
sul loro viaggio nel regno delle
ombre: "Sì, Dante è vivo e devo
mostrargli l’inferno;
l’itinerario che percorre è
necessario alla salvezza della
sua anima; dall’alto dei cieli
un’anima beata scese per
affidarmi l’incarico di guidarlo
nel cammino; non siamo anime di
peccatori".
Poi chiede a Chirone una guida
che mostri loro il punto dove si
può guadare il fossato, e il
saggio centauro designa a questo
incarico Nesso. A mano a mano
che i tre avanzano lungo la
riva, Nesso elenca i dannati che
sono immersi nel sangue: dei
tiranni sono visibili soltanto i
capelli, degli omicidi l’intera
testa, dei predoni la testa e il
petto. Giunti al guado, i tre
passano sulla riva opposta; poi
Nesso, adempiuto il suo compito,
torna indietro.
INTRODUZIONE CRITICA
In questo canto l’attenzione del
Poeta non si ferma sullo
spettacolo del castigo infernale
(l’accenno al fiume di sangue
non va oltre la menzione
generica - riviera del sangue,
bollor vermiglio, bulicame -
alla quale fa eco il
caricaturale bolliti) o sulla
caratterizzazione di un dannato:
protagonisti ne sono i centauri,
custodi del primo girone del
cerchio dei violenti. Ad essi si
contrappone, sul piano
simbolico, una figura anch’essa
per metà umana e per metà ferina
la quale, tuttavia, nella
rielaborazione in senso etico e
religioso dei miti antichi
operata dal Poeta, ne
rappresenta la più diretta
antitesi: il Minotauro.
Posto inutilmente (giace inerte,
all’improvviso la sua ira lo
colpisce - se stesso morse -
prima ancora che Virgilio gli
parli) a guardia dell’ingresso
al cerchio, il Minotauro appare
animato da una vitalità
innaturale, come in un presagio
di morte. Le parole che Virgilio
gli rivolge sono di scherno
feroce: apparentemente intese a
placarlo, mirano in realtà a
fargli perdere ogni capacità di
discernimento, sono il colpo
mortale che la ragione infligge
alla bestialità di null’altro
armata che del proprio furore.
Nell’immagine del toro
saltellante il crepuscolo della
coscienza è ritratto con
attenzione divertita, senza
alcun indugio nel descrittivo:
come sempre in Dante, attraverso
la notazione realistica si fa
strada il giudizio morale.
La figura del Minotauro è
infatti, non meno di quella
degli altri custodi infernali,
anche un simbolo: rappresenta la
matta bestialità, il progressivo
ottenebrarsi della chiarezza
razionale nel caos degli
istinti. La brutale, scena del
macello si inquadra - trovando
in essa il suo compimento
ideale, la suprema definizione
del suo significato - in una
cornice mitologica. Fin dal suo
primo apparire Dante riconosce,
in quella massa pesantemente
adagiata, l’infamia di Creti,
quasi l’infamia per antonomasia.
L’atteggiamento esteriore del
mostro, la sua animalità,
torpida ma non rassegnata, ne
denunciano, senza possibilità di
equivoci, l’esatto collocamento
nella gerarchia degli esseri e
dei valori.
Cosi, anche in questa figura che
esprime, come tante altre della
Commedia, un’interpretazione
cristiana dei miti del
paganesimo, passato remotissimo
e attualità della cosa vista,
tradizione letteraria (Ovidio)
ed esperienza diretta si
compongono in un rapporto tanto
più intimo e persuasivo, quanto
più rispondente ad un intento di
esemplificazione e di
ammaestramento.
Mentre il Minotauro rappresenta
il degradarsi dell’umano
nell’animalità, i centauri
simboleggiano il processo
inverso, l’armonico dominio
della volontà cosciente sulle
passioni, il contemperamento
della forza con la saggezza.
Chirone è ricordato come il
maestro di Achille (e nel verbo
nodrì, come ha osservato il
Mazzoni, sono affettuosamente
riassunte le paterne
sollecitudini di quell’insegnamento),
Nesso prende il posto di
Virgilio nell’illustrare a Dante
la topografia fisica e morale
dei girone e, se all’inizio il
poeta latino gli ricorda, in
tono di rimprovero, le funeste
conseguenze della sua
impazienza, la presentazione che
ne fa poi al discepolo appare
elogiativa. Un verso come che
morì per la bella Deianira
potrebbe inserirsi senza stonare
nell’enumerazione, fatta da
Virgilio (Inferno V, 61-69), dei
generosi che perdettero la vita
per amore. Come nelle favole, le
qualità della donna amata si
compendiano in questo
endecasillabo nel solo attributo
bella. Basta questa sola qualità
perché l’uomo, animo nobile,
eroe, quasi gioisca di offrire
attraverso il proprio sacrificio
una prova che si adegui
all’infinità del suo amore. Ma
il centauro, a differenza dei
morti per amore del quinto
canto, seppe predisporre,
morendo, lo strumento della
propria vendetta (il clima
dell’evocazione delle donne
antiche e dei cavalieri prepara
la tragedia; i centauri si
inquadrano invece in una
prestigiosa aura di leggenda).
L’attenzione di Dante è rivolta
soprattutto a Chirone, ritratto
al centro di un gruppo
scultoreo, in cui sembra quasi
rivivere il ritmo luminoso e
solenne dei rilievi di Olimpia.
Il grande centauro riflette, il
suo sguardo si astrae da ogni
oggetto circostante, il suo
pensiero si ripiega su se
stesso: al petto si mira.
Quindi, prima dì parlare, si
pettina la grande barba, con la
cocca di una freccia. Nei
centauri non troviamo traccia di
quell’automatismo feroce, di
quella spaventosa cecità
spirituale che
contraddistinguono, gli altri
custodi infernali.
Anche Caronte, la più umana di
queste figure, appare demoniaco
se paragonato ai saettatori del
settimo cerchio. Questi, "più
solenni che selvaggi, fanno
pensare alla primitiva umanità
eroica. del Vico" (Momigliano),
a quel mitico periodo agli
albori della storia in cui
l’uomo, emergendo a poco a poco,
dalla barbarie, ma di questa
conservando inalterata la
schiettezza, seppe creare le
prime forme del vivere civile.
Il Minotauro è invece
l’espressione di una fase
anteriore, nella cronologia dei
miti: quella in cui l’uomo, non
ancora soggetto alle leggi,
credeva di poter impunemente
sfidare la volontà degli dei e
l’ordine della natura.
Nell’ultima parte del canto,
occupata da un elenco di tiranni
e di predoni, la storia, si
sostituisce, come fonte
d’insegnamento morale, alla
leggenda. La figura dei centauro
Nesso è qui quella di un
pedagogo diligente e
impersonale. Ma le sue parole
riflettono, in due punti almeno
del suo discorso, un’intensa
partecipazione. Là dove
delineano, fortemente rilevate
in campo rosso (il sangue da
essi versato), le capigliature
di Ezzelino da Romano e di
Obizzo d’Este, non un cenno è
fatto alle azioni nefande di
questi tiranni. Solo un nero e
un giallo s’imprimono nella
nostra mente, accostati con quel
gusto del colore pieno,
compatto, prezioso, che si
ritrova nella pittura romanica.
Poi, dopo alcuni versi, alto sul
fluire del Tamigi, isolato nella
maestà della morte, il cuore di
un innocente assassinato in una
chiesa.
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