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DIVINA
COMMEDIA
INTRODUZIONE
CRITICA AL CANTO |
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INTRODUZIONE
CRITICA AL CANTO |
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DIVINA COMMEDIA RIASSUNTO E
CRITICA
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CANTO XX
Dall’alto
del ponte Dante dirige il suo
sguardo verso il fondo della
quarta bolgia, dove una
moltitudine di anime - quelle
degli indovini - avanza in
silenzio piangendo. Ciascuna di
esse ha il viso completamente
rivolto all’indietro, in modo
che le lagrime bagnano la parte
posteriore del corpo. Nel vedere
la figura umana così stravolta
Dante non riesce a trattenere un
moto di commozione, ma Virgilio
lo rimprovera aspramente,
facendogli notare che essere
pietosi verso siffatti peccatori
significa ignorare la vera
pietà. Poi gli rivela il nome di
alcuni di loro: Anfiarao, che la
terra inghiotti sotto le mura di
Tebe assediata, Tiresia, che un
arcano prodigio trasformò in
donna e che poi riprese le
sembianze maschili, Arunte, che
contemplava il cielo e il mare
da una spelonca nel monti dell’Etruria,
Manto, la figlia di Tiresia, la
quale, dopo aver errato a lungo
per il mondo, si stabilì in una
regione deserta dell’Italia, nel
punto in cui il Mincio,
alimentato dalle acque del
Garda, formava una palude.
Qui l’indovina morì e qui gli
abitanti sparsi nei luoghi
vicini fondarono, dopo la sua
morte, una città che chiamarono
Mantova. Tra gli indovini
dell’antichità Virgilio addita
ancora al suo discepolo
Euripilo, che insieme a Calcante
dette alla flotta greca ancorata
in Aulíde il segnale della
partenza per Troia, poi menziona
alcuni tra i dannati che si
resero celebri nel Medioevo per
aver esercitato l’arte della
magia.
INTRODUZIONE CRITICA
E’ sul personaggio di Virgilio
che la critica di indirizzo
positivistico (D’Ovidio, Porena),
analizzando il canto XX
dell’Inferno, si è soffermata
con particolare attenzione. Essa
ha rilevato, nella durezza del
tutto insolita con la quale il
poeta latino contrappone il
proprio scherno alla pietà
manifestata da Dante alla vista
della pena degli indovini, e
nella lunga digressione che egli
fa sulle origini di Mantova, i
motivi di maggior interesse del
canto. Per il Porena
nell’episodio degli indovini
Dante "fa indirettamente
l’apologia di Virgilio,
mostrandolo tanto alieno dalle
arti magiche da essere fin
troppo severo con quella specie
di peccatori, e spaventato
all’idea che si potessero
credere i mantovani discendenti
da un’indovina famosa". Nel
saggio del Croce sulla poesia di
Dante i motivi addotti a
sostegno di questa
interpretazione vengono
dichiarati del tutto
insussistenti, e la difesa che
in esso Dante farebbe della fama
di Virgilio considerata una mera
invenzione dei critici : "di
questa presunta difesa, di
questo calcolo, e dell’orrore
per la magia e stregoneria, non
è nulla nel canto degli indovini
e maliardi, che è per eccellenza
il canto delle leggende e dei
personaggi strani e misteriosi".
Analogo è il punto di vista del
Momigliano: Dante,
nell’esprimere la propria
condanna per l’arte degli
indovini, non sarebbe riuscito a
sottrarsi al fascino che da
quest’arte emana, per cui "le
figure di Anfiarao, di Arunte,
di Manto, e un po’ anche di
Tiresia, sono avvolte da un’aura
d’incantesimo, che non allontana
il lettore ma lo attrae". Se il
canto non raggiunge una sua
persuasiva unità, ciò sarebbe
dovuto al sovrapporsi, sul
momento contemplativo ("il
fascino di quelle figure"), di
un momento pratico, consistente
nel "proposito di ripudiare la
credenza che esse
rappresentano". Questa
interpretazione del canto,
tendente, sulle orme del Croce,
a scindere in Dante il momento
poetico da quello dell’impegno
morale ed intellettuale fino a
considerarli interamente
estranei l’uno all’altro ed a
bloccare in una astratta
incomunicabilità reciproca le
zone dichiarate poetiche da
quelle della non-poesia, viene
decisamente respinta dal
Sanguineti, il quale insiste sul
fatto che, nella Commedia, il
momento contemplativo è sempre
riassorbito nel momento etico,
per cui, nel XX canto, "né la
caduta infernale di Anfiarao, né
il cangiamento di membra di
Tiresia, né le successive
evocazioni virgiliane... si
dispongono quali liberi recuperi
di una affascinante aura di
mito, ma come saggi esemplari...
di uno Stazio e di un Ovidio (e
di un Lucano e di un Virgilio)
moralizzati". Ciascuna di queste
posizioni critiche ha
approfondito la lettura di
questa pagina del poema.
Se ora ci volgiamo a considerare
nella loro concretezza le
soluzioni dal Poeta adottate nel
canto degli indovini, vediamo
come in esso l’intrecciarsi del
motivo dichiarato poetico dal
Croce e dal Momigliano con
quello della "moralizzazione"
prospettato dal Sanguineti,
anziché irrigidire la pagina in
un inerte giustapporsi di
frammenti, la arricchisca di
nuove suggestioni e ponga le
basi per un discorso critico più
complesso. Così, per quel che
riguarda lo stile, alla
precisione tecnica, amaramente
definitoria, che caratterizza il
motivo del contrappasso, si
oppone l’indefinita ampiezza di
orizzonti che circonda le figure
degli antichi indovini. Ciò che
Dante vede, ha i confini netti
di un incubo della ragione, ci
colpisce per la paradossalità
con la quale il male si propone
in figure visibili: la
processione dei dannati ricorda
un corteo religioso, la falsa
fede che li impegnò a scrutare
nei disegni della Provvidenza si
converte, nell’immagine della
parlasia, in ammonimento e
dolore.
Il tema dello stravolgimento si
riflette nei versi 23-24 - ove
la specificazione degli occhi si
contrappone con brutale evidenza
a le natiche - fin nella
struttura più minuta
dell’immagine, per emergere poi
nuovamente in definizioni
taglienti nei versi 37 (mira
c’ha fatto petto delle spalle) e
46 (Aronta è quei ch’al ventre
li s’atterga).
Quanto invece Dante intorno alle
figure degli antichi indovini
immagina o rievoca, sfugge a
quel senso di costrizione che
caratterizza l’apparizione dei
dannati nella bolgia.
Un’affermazione di libertà e
solitudine intatte, di
raccoglimento nella natura
selvaggia, si trova alla base
delle loro leggendarie
biografie, rapidamente colte, in
uno o più tratti significativi,
attraverso la parola di
Virgilio. Arunte ebbe la sua
spelonca là dove il Carrarese
non si attenta di salire; l’oasi
della meditazione è alta, tra
rupi durissime e vergini, dove
il tempo propone immobile, nelle
forme del cielo e del mare, nel
ritmo dei giorni e delle notti,
la suggestione dell’eterno;
l’operare dell’uomo, la fatica
di chi umanamente nobilita, in
un umile impegno quotidiano, la
condizione del dolore, sono
superbamente ignorati. Manto si
apparta con la sua vocazione in
una terra abbandonata dal vivi,
dove le acque del Mincio
ristagnano in una quiete
assorta, sognante.
La morte di Anfiarao riveste
dimensioni sovrumane di
cataclisma geologico
(s’aperse... la terra), è un
precipitare nelle tenebre (rui,
ruinare a valle) fino al momento
del dichiararsi univoco, senza
appello, della giustizia di Dio
(Minòs).
Tiresia sconta una maledizione
misteriosa e da essa
misteriosamente si riscatta.
La figura di Euripilo spicca
sullo sfondo di una Grecia
desolata, resa più vasta dalla
partenza di tanti eserciti e dal
prospettarsi di un avvenire
ignoto.
Il tema degli spazi illimitati e
del mistero culmina nella
determinazione astronomica con
la quale il canto si conclude:
si inquadra grandiosamente
nell’atmosfera tragica e
rarefatta della quarta bolgia la
figura di Caino, che, oppresso
dal suo fascio di spine - nelle
quali è difficile non scorgere
un’allusione alla sterilità del
peccato - tocca, quasi
sfiorandola appena, l’onda del
Mediterraneo, contrapposta al
suo carico dì spine come
principio di vita, dì mobilità
perenne.
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