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DIVINA
COMMEDIA
INTRODUZIONE
CRITICA AL CANTO |
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INTRODUZIONE
CRITICA AL CANTO |
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DIVINA COMMEDIA RIASSUNTO E
CRITICA
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CANTO XXV
Dopo aver
predetto a Dante la sconfitta
dei Bianchi ad opera di Moroello
Malaspina, Vanni Fucci alza le
mani in un gesto osceno contro
Dio, ma due serpenti si
avventano immediatamente contro
di lui, ponendo termine
all’ostentazione di tanta
superbia. Il ladro pistoiese,
con le braccia e il collo
chiusi, nelle loro spire, fugge
inseguito dal centauro Caco,
colpevole anche quest’ultimo di
furto eseguito con frode. Tre
dannati vengono nel frattempo a
fermarsi sotto l’argine roccioso
dal quale i due pellegrini hanno
assistito alla trasformazione di
Vanni Fucci in cenere, alla sua
riconversione in figura di uomo,
alla sua punizione ad opera dei
serpenti. Nuove, più allucinanti
metamorfosi si svolgono sotto i
loro occhi. Un serpente munito
di sei piedi si lancia contro
uno di questi ladri e si
abbarbica al suo corpo come
l’edera ad un albero. Come se
fosse di cera la forma umana si
trasferisce in quella del
serpente, mentre questa, a sua
volta, si perde in quella
dell’uomo. Il risultato di
questa innaturale fusione è un
mostro dall’aspetto
indefinibile, che incomincia a
percorrere in silenzio, con
lento passo, il fondo della
bolgia. Non appena questa
metamorfosi si è compiuta, un
serpentello - che è uno dei
peccatori già trasformati - con
la velocità di un fulmine
trafigge l’ombelico ad un altro
dei tre ladri, ricadendo poi a
terra davanti a lui come privo
di forze, stregato. Mentre il
serpente e l’uomo si guardano
negli occhi attraverso il fumo
che, uscendo dalla bocca del
rettile si scontra con quello
che si sprigiona dalla ferita
dell’uomo, avviene la terza
delle trasformazioni della
settima bolgia, quella che
nessuno dei poeti antichi è
riuscito ad immaginare: l’uomo
assume a poco a poco le fattezze
del serpente che gli sta
davanti, questo si . trasforma
nel dannato che ha ferito. La
pena di coloro che in vita
privarono il prossimo di beni
materiali sui quali non potevano
accampare alcun diritto, è di
essere privati del solo bene
inalienabile di cui, per legge
di natura, un uomo può disporre:
la propria figura umana.
INTRODUZIONE CRITICA
Il tratto più saliente della
figura di Vanni Fucci non è,
come vorrebbero alcuni studiosi,
la bestialità allo stato puro
(in altre parole: l’assenza in
lui di qualsiasi sensibilità
morale) quanto piuttosto la
consapevolezza esasperata di
questa bestialità, un dolore che
non trova misure umane cui
adeguarsi, una disperazione che
arriva a prescindere dal mondo,
dagli esseri, dai valori, per
negare direttamente, in Dio, il
loro principio. Poiché la
superbia del ladro pistoiese
ricorda al Poeta quella di
Capaneo, il parallelo tra il
personaggio di Vanni Fucci e
quello del grande che cadde a
Tebe giù da’ muri è divenuto un
luogo comune della critica
dantesca. Ciò che occorre
tuttavia rilevare non sono tanto
gli aspetti che accomunano
queste due figure di dannati,
quanto i tratti che li
distinguono. Capaneo esprime una
concezione ancora
fondamentalmente precristiana
del senso della nostra presenza
nel mondo. Sulla base delle
suggestioni classiche (Stazio),
Dante propone nell’episodio del
canto XIV, la contrapposizione,
tipica della tragedia antica,
dell’eroe al fato, della volontà
cosciente (qual io fui vivo, tal
son morto) - che in sé sola
trova il proprio sostegno, la
propria legittimazione ultima -
all’arbitrio del mondo, e degli
eventi. Questa contrapposizione,
mentre esalta al massimo la
grandezza dell’uomo, finisce col
separarlo dal senso dell’essere
in generale, ne rende
incomprensibili, assurde,
l’origine e la destinazione: tra
uomo e mondo, nella concezione
tragica del paganesimo, esiste
un divario incolmabile. Capaneo
dipinge Giove, Vulcano, i
Ciclopi, in chiave ironica:
l’universo intero, campo nel
quale agiscono forze smisurate
ma cieche, volte alla
sopraffazione reciproca più che
ad un armonico coesistere
(l’Olimpo, come lo vede il
grande vinto, somiglia più ad un
caos che ad un cosmo), è colto
dal panico, esita, rivela la
propria insufficienza (non ne
potrebbe aver vendetta allegra)
di fronte alla razionalità che
nell’eroe si manifesta e lo
sottopone a giudizio. In Capaneo
non c’è scissione interiore, ma
limpida coerenza. La sua
colpevolezza è tale soltanto
agli occhi di Dante, il quale,
dopo essere stato colpito dalla
sua statura morale (l’essere
indomabile, il grande, colui che
non si piega), la nega
violentemente, attraverso le
parole di Virgilio, in nome di
una concezione superiore. Un
cristiano non può vedere infatti
nel mondo solo il dispiegarsi
dell’irrazionale e nell’uomo la
negazione, intransigente ed
astratta, di questo irrazionale,
ma considera mondo e uomo
radicati in una stessa sapienza
che li trascende e volti a
recuperare, attraverso l’errore
e il dolore, il senso della loro
perfezione originaria.
Ciò che distingue in primo luogo
Vanni Fucci da Capaneo è la
piena consapevolezza che il
primo ha della propria miseria
morale: in lui la giustizia
divina opera anzitutto
dall’interno, come
incancellabile rimprovero della
coscienza. La sua sfrontata
autoglorificazione iniziale (son
Vanni Fucci bestia..) non è in
alcun modo contraddetta dalla
vergogna (e di trista vergogna
si dipinse) che lo coglie in un
secondo tempo, originandosi
entrambe entro uno stesso abisso
di disperazione, nel consenso,
che il dannato non può rifiutare
(se non, per un attimo -
sfuggendo a se stesso -
attraverso l’irrazionalità della
bestemmia), alla giustizia della
condanna infertagli da Dio.
Vanni Fucci cerca di evadere
dalla prigione della propria
coscienza prima attraverso il
male che la sua profezia è
destinata ad arrecare a Dante (e
detto l’ho perché doler ti
debbia!), poi, con scatto
imprevedibile e assurdo,
attraverso il gesto sacrilego
delle fiche, accompagnato dalla
sua apostrofe a Dio.
Se proprio nell’affermazione
che, con parole e con atti,
Vanni Fucci fa della propria
natura inumana, lo spirito è
continuamente presente a se
stesso e i valori etici
dolorosamente illuminano la
coscienza di questo peccatore,
ai ladri fiorentini,
protagonisti del canto XXV,
«l’arte del poeta ha negato
qualsiasi tratto di
individuazione umana». Nel ladro
pistoiese "lo spirito muore
nell’abbrutimento dopo essersi
esaltato; qui lo spirito è morto
non rimane se non la materia
eternamente affaticata da una
necessità che pare meccanica" (Rossì-Frascino).
La tonalità del canto XXV è
stata magistralmente additata
dal Momigliano - in un suo
saggio del 1916 nello
smarrimento del Poeta di fronte
al perdersi di ciò che è
peculiarmente umano (forma del
corpo, capacità di esprimersi,
coscienza) nella materia.
"Sotto la fredda malia della
nitida metamorfosi palpita,
muto, tremendo, religioso, il
dramma dell’anima che si
smarrisce nel corpo bruto. La
precisa materialità di quelle
descrizioni, la mancanza di ogni
suggestione sentimentale, non
sono che il mezzo onde si rileva
la silenziosa morte dello
spirito."
Ma la religiosità dantesca non è
mai disgiunta dalla fermezza di
un lucido possesso
intellettuale. Il tema delle
metamorfosi cantate da Ovidio e
Lucano acquista, nel canto dei
ladri, una dimensione ignorata
dagli antichi, non solo per la
presenza in esso degli elementi
religioso e morale, ma anche per
il fatto di essere ripensato in
chiave scientifico-dottrinale.
La favola antica perde ogni
vaghezza di contorni, per essere
sottoposta al vaglio di una
mentalità logica, incurante
dello scintillio delle
apparenze. Tradotto nei termini
della filosofia aristotelica, il
mito si rivela incredibile,
fallace (cfr. in particolare i
versi 100-102), ma il Poeta -
secondo quanto ha chiaramente
mostrato il Mattalia - lo
correda "di un nuovo attributo
di credibilità o verosimiglianza
dedotto dal postulato teologico
che Dio, quei che puote, può
realmente, con la sua divina
arte, operare infrangendo le
barriere delle leggi naturali.
Restando cosi salvo... il valore
divinatorio che la cultura
medievale... riconosceva alle
favole dei grandi poeti pagani".
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