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DIVINA
COMMEDIA
INTRODUZIONE
CRITICA AL CANTO |
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INTRODUZIONE
CRITICA AL CANTO |
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DIVINA COMMEDIA RIASSUNTO E
CRITICA
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CANTO XXIX
Prima di
lasciare la nona bolgia Dante
cerca con gli occhi in essa un
suo congiunto, Geri del Bello,
seminatore di discordia, la cui
morte violenta è rimasta
invendicata, ma Virgilio gli
ricorda che l’ombra di questo
suo parente è passata sotto il
ponte, mostrando sdegno e
minacciandolo col dito, quando
egli era tutto intento ad
osservare Bertran de Born.
Ripreso il cammino, i due
pellegrini giungono sopra
l’ultima bolgia dell’ottavo
cerchio, nella quale si trovano
i falsatori, divisi in quattro
categorie: falsatori di metalli
con alchimia, falsatori di
persone, falsatori di monete,
falsatori di parole. Con il
corpo deformato da orribili
morbi giacciono a mucchi o si
trascinano carponi gli
alchimisti. Due di questi
dannati attirano l’attenzione di
Dante: stanno seduti,
appoggiandosi l’uno alla schiena
dell’altro, e cercano, con
furiosa impazienza, di liberarsi
delle croste che li ricoprono
interamente. Furono arsi sul
rogo dai Senesi, il primo,
Griffolino d’Arezzo, per non
avere mantenuto fede alla
promessa di far alzare in volo,
novello Dedalo, uno sciocco; il
secondo, Capocchio, per aver
falsificato i metalli, da quell’eccellente
imitatore della natura che fu in
vita.
INTRODUZIONE CRITICA
Dispersivo e discontinuo, il
primo canto dei falsari segna un
attenuarsi della tesa indagine
morale del Poeta, una pausa nel
suo vigoroso impegno stilistico.
Se per i romantici la poesia di
Dante spiccava con più risoluta
nettezza di contorni nel suo
concretarsi in un contrasto di
passioni e di caratteri - quasi
anticipando, entro la ferma
cornice medievale, il libero
dispiegarsi del "tragico"
rinascimentale (Shakespeare) -
oggi dobbiamo riconoscere che
essa si identifica, nella
Commedia, innanzi tutto con il
dramma del pellegrino posto di
fronte alla realtà del peccato,
dell’espiazione, della
beatitudine raggiunta, per cui
molte pagine sulle quali i
romantici sorvolavano assumono,
ai nostri occhi, una funzione di
primo piano, anche e soprattutto
ai fini di una considerazione
dei valori espressivi. La
cornice medievale - il dramma
dell’anima che rende a se stessa
presenti le fasi della propria
esperienza morale - non può più
essere ritenuta qualcosa di
estrinseco rispetto ai drammi
dei singoli personaggi, poiché
ciascuno di questi singoli
drammi acquista le sue reali
proporzioni soltanto se
collocato entro questa cornice.
Le tragedie di Francesca, di
Farinata o di Ulisse non
esistono in sé - sul
palcoscenico di un mondo che da
queste figure attende la
definizione del proprio
significato - ma hanno un senso,
al contrario, soltanto nella
misura in cui si presentano già
oggettivate, davanti al Poeta,
nelle forme del giudizio divino
(il posto dell’inferno in cui
questi personaggi si trovano, la
loro pena). Esse diventano
soggettive nell’animo del
pellegrino senza nulla perdere
della loro oggettività: in
questo loro essere dolorosamente
rivissute dal Poeta, in questo
interiorizzarsi del giudizio
divino è la fonte della loro
problematicità inesauribile.
Oggi non possiamo più assumere
pertanto come criterio di
valutazione della poesia di
Dante la presenza o meno del
grande personaggio, della
individualità preminente che in
certo modo sfida il giudizio
divino, proprio perché non
possiamo trascurare la continua
e attiva presenza, nel poema,
dell’autore, l’angoscioso
cammino da lui percorso per
sollevarsi, dall’opacità del suo
sentire iniziale, alla
trasparenza di una oggettività
eterna. Un criterio per
distinguere, nella Commedia, le
pagine più riuscite da quelle
che lo sono meno può invece
essere rappresentato da
un’interrogazione del dato
stilistico, interrogazione che,
in Dante, ci conduce
direttamente sul piano del suo
impegno etico. Mentre infatti,
nelle poetiche umanistiche e
rinascimentali il fattore
<stile> ha sempre rappresentato
un elemento di evasione dalla
insufficienza del reale, di fuga
dall’impegno etico, in Dante al
contrario esso costituisce il
punto di convergenza delle sue
convinzioni e reazioni morali,
il momento in cui queste trovano
la loro espressione definitiva
e, sul piano dell’arte,
incontrovertibile. Su questo
accordarsi del momento etico e
di quello stilistico sono
unanimi i critici più recenti.
Per il Fubini nella Commedia può
esservi a volte retorica, ma
"retorica che si fa strumento di
un fine etico, che giova a dar
risalto coi suoi modi a un
giudizio morale ". Il Terracini
dal canto suo rileva che "quando
Dante è eloquente... si può
essere sicuri che la sua visione
poetica si ammanta di un motivo
di carattere, comunque, etico; è
come un pedale che Dante mette
ai suoi versi". Il Bigi infine -
e questa considerazione ci
riconduce sul terreno del canto
XXIX - osserva che «dove
effettivamente si allenta la
tensione morale del giudice, si
attenua l’impegno erudito e
retorico dell’artista come...
nel colloquio con Grifiolino e
Capocchio (XXIX, versi 109-139),
in cui, non che similitudini
elaborate ed erudite, sono
pressoché assenti i
caratteristici procedimenti
della retorica dantesca".
Mancano, al canto XXIX, quella
compattezza di visione, quello
svolgimento coerente di motivi,
che caratterizzano i canti fra i
quali si trova inserito. Pur
offrendo alla nostra attenzione
temi in comune con il canto
precedente (ad esempio la
presentazione dello spettacolo
della bolgia attraverso
similitudini ipotetiche: s’el s’aunasse
nel canto XXVIII, verso 7; qual
dolor fora nel XXIX, verso 46; o
il motivo della meraviglia dei
dannati nell’apprendere che
Dante è vivo, motivo che proprio
nel canto XXIX trova
un’espressione, di inusitato
vigore, tutta calata in
raffigurazione concreta: allor
si ruppe lo comun rincalzo) e
con il successivo (i colloqui
con Griffolino e Capocchio
anticipano in certo modo
l’atmosfera pettegola
dell’alterco fra Sinone e
maestro Adamo senza per altro
rasentare la violenza, la
degradazione che in quello si
esprimono), esso non li
approfondisce in modo unitario.
Questa pagina del poema, che
inizia su un tono di accorata
elegia per concludersi in una
serie di disegni schizzati "in
punta di penna", con un gusto
del particolare incisivo ma fine
a se stesso - che li accomuna a
certi ritratti della
novellistica medievale (tra il
Novellino e il Decamerone) -
risulta incerta, scarsamente
determinata tanto sotto il
profilo etico che sotto quello
stilistico. Osserva il Sapegno
che nella seconda parte del
canto Dante "non insiste tanto
sull’oggetto dell’ironia e dello
scherno, quanto piuttosto sembra
compiacersi di ritrarre in atto
l’arte appunto dell’ironizzare e
dello schernire, vista come un
bel gioco che aguzza l’ingegno e
gli offre campo di dispiegarsi e
di accendersi in un divertente,
se pur futile, scoppiettio di
frasi maliziose" e conclude che
le figure di Griffolino e
Capocchio "non sono più che
macchiette garbate di secondo
piano; e, anziché raccogliere e
concentrare in sé una diffusa
atmosfera di tragedia, giovano
se mai a distrarre per un
istante lo spirito da quel mondo
e a trasportarlo in un’aria più
leggiera".
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