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DIVINA
COMMEDIA
INTRODUZIONE
CRITICA AL CANTO |
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INTRODUZIONE
CRITICA AL CANTO |
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DIVINA COMMEDIA RIASSUNTO E
CRITICA
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CANTO XXXII
Nella
prima zona del nono cerchio (la
Caina), confitti nel ghiaccio
fino al collo si trovano i
traditori dei congiunti. Due di
essi appaiono a tal punto vicini
che i loro capelli si
confondono: sono i fratelli
Napoleone ed Alessandro degli
Alberti che l’odio di parte e
motivi d’interesse inimicarono a
tal punto da portarli ad
uccidersi l’un l’altro.
Nella seconda zona, detta
Antenora, nella quale sono
puniti i traditori della patria,
Dante colpisce col piede una
delle teste che emergono dalla
superficie ghiacciata. Il
dannato chiede con asprezza il
motivo di tanta crudeltà: « Se
non lo fai a ragion veduta, al
fine di accrescere la punizione
inflittami a causa di Montaperti,
perché infierisci contro di me?
» A tali parole Dante domanda al
peccatore di rivelargli il suo
nome e gli promette, in cambio,
fama tra i vivi. Ma è desiderio
del traditore proprio quello di
non essere ricordato, per cui
intima duramente al Poeta di non
importunarlo. Dante allora,
afferratolo per i capelli,
gliene strappa diverse ciocche,
senza che per questo il dannato
acconsenta a dichiarare il
proprio nome. E’ un suo compagno
di pena che appaga il desiderio
del pellegrino: il traditore è
Bocca degli Abati, colui che a
Montaperti recise con un colpo
di spada la mano del
portainsegna della cavalleria
fiorentina.
Allontanatisi da Bocca, i poeti
scorgono due dannati confitti in
una medesima buca, in modo che
la testa di uno sovrasta, come
cappello, quella dell’altro. A
colui che rode, come per fame,
il cranio del suo compagno di
pena, Dante rivolge la preghiera
di manifestare la causa di un
accanimento così disumano,
promettendo che, tornato nel
mondo dei vivi, rivelerà il
misfatto resosi a tal punto
meritevole di odio.
INTRODUZIONE CRITICA
Oltre che nell’alto e nel medio
inferno, neppure in Malebolge la
ferma adesione dell’animo di
Dante alla misura della
giustizia divina era mai andata
disgiunta da una sorta di
dolente, ammirato stupore per i
traguardi che la natura umana
aveva saputo talvolta
raggiungere in sfere in cui si
era, peccaminosamente, proposta
come autonoma ed
autosufficiente. Anche le più
abiette fra le anime del cerchio
ottavo risultano poeticamente
vive proprio in virtù del fatto
che la condanna non le livella
in una indifferenziata
negatività, ma fa brillare in
ciascuna di esse, diversamente
riflesso, il rimpianto per una
gerarchia di valori alla quale
non è loro più consentito
tendere. Tale rimpianto - tanto
più acuto, quanto più viva è nel
peccatore la coscienza della
propria colpa - rende
dolorosamente problematiche, pur
nella fermezza dell’insegnamento
che da esse ci viene, le
apparizioni di questi esseri
sottratti, nell’immutabilità di
un presente infinito, alla
possibilità di riscattare i loro
errori. Come ha ben veduto il
Montanari, essendo vive le
figure dell’inferno "in forza
della tensione spirituale che
sorge dalla intuizione teologica
del contrasto tra la
magnificenza naturale e la sua
insufficienza alla salvezza
eterna", la poesia della prima
cantica «nasce non da una
tranquilla esposizione
catechetica, ma...
dall’accettazione di un dramma
che resta teoreticamente
irrisolto quando sia accettato
non dal punto di vista
universale, ma dal punto di
vista della concreta individua
persona umana».
In presenza dei traditori la
disponibilità dell’animo di
Dante ad accogliere nella loro
complessità angosciosa le voci
dell’umano errore - riconoscendo
in ciascuna di esse se non altro
un tremito di inespressa verità,
un accento di sincero dolore per
il male compiuto, un fugace
ridestarsi della coscienza
immersa nelle tenebre - appare
notevolmente e, fin dai primi
versi del canto XXXII,
programmaticamente, limitata.
L’attenzione volta al dato
espressivo in quanto tale -
considerato nella sua astratta
tecnicità (s’io avessi le rime
aspre e chiocce) - preannuncia
infatti il totale, freddo
distacco del Poeta di fronte
alla sofferenza di queste anime.
Tale attenzione viene
esplicitamente manifestata nel
proposito di trovare termini che
si addicano al tristo buco, sul
quale - assunto a simbolo di
insensibilità ai valori morali -
grava il peso di tutta la
materia del mondo. Le rocce che
su di esso puntan prefigurano la
durezza del vincolo che lega le
anime dei traditori al loro
peccato, la loro irriducibilità
al rimorso, alla dialettica che
definisce lo spirito in quanto
superamento del già compiuto -
perché necessariamente
imperfetto - in quanto insaziato
protendersi verso una perfezione
che non è attuale (proiettata
nel futuro dai vivi, in un
passato che avrebbe potuto
essere diverso dai dannati).
Fino all’ultima bolgia
dell’ottavo cerchio la condanna
espressa dal Poeta nei confronti
dei peccatori - ove non si
ampliava in una dolorosa
considerazione dei motivi che
conducono l’uomo a peccare - si
era manifestata in motti recisi
dai quali emergeva una presa di
posizione morale, una prontezza
di reagire dell’intelletto volto
al bene contro le insidie
dell’intelletto sviato. Basti
pensare alla conclusione che
Dante sa trarre, con il rigore
di una deduzione sillogistica,
dalla dolorosa presentazione che
di sé fa Mosca dei Lamberti; e
morte di tua schiatta
rappresenta il colpo di grazia
che degrada - senza peraltro
privarla di una sua tragica
statura - questo personaggio da
essere capace di esprimersi ad
essere chiuso alla parola e alla
ragione, a persona trista e
matta. Ma i traditori per Dante
rappresentano - a differenza dei
dannati dei cerchi superiori -
l’assoluta identificazione della
persona viva con la categoria
del peccato, la chiusura
completa dell’ « io »
nell’isolamento dai suoi simili,
nel ripudio delle leggi che
emanano da Dio. Con essi nessun
dialogo - nemmeno se condotto
sul tono di un’aspra
requisitoria, di un’impietosa
polemica - risulta plausibile:
dove ogni residuo di coscienza
appare sommerso in una
inoperante negazione, in una
fedeltà al male compiuto che non
ha più nulla di umano, ogni
forma di intelligente
proposizione di valori, ogni
senso delle sfumature vengono da
parte del Poeta deliberatamente
abbandonati. Alla battuta recisa
che nettamente definiva, in
termini di opposizione etica ed
intellettuale, gli scontri
verbali del Poeta con le anime
use a malizia di Malebolge,
subentra nel nono cerchio, sia
da parte di Dante che dei suoi
antagonisti, il gesto impulsivo,
la carica d’odio incurante di
legittimarsi esplicitamente sul
piano della ragione. Dante dà
per scontato che i traditori
meritano solo quest’odio, non
l’analisi dei motivi che li
indussero a tradire, non il
risveglio - doloroso ma
nobilitante - in essi, della
coscienza. Tale è il significato
dell’episodio che con maggior
forza s’impone alla nostra
attenzione nel canto XXXII
(quello di Bocca degli Abati),
tale è anche il significato
della scelta lessicale e
stilistica dal Poeta operata in
questo canto. Alla pittura di
anime che il rimorso
implacabilmente devasta, alla
presentazione di situazioni
incentrate su una problematica
etica fortemente
individualizzata, si sostituisce
qui un atto d’accusa che
coinvolge i traditori
considerati, nel loro insieme,
assai più come classe degradata
(plebe) che come individui in
grado di giustificare - sia pure
con argomenti fallaci o capziosi
- le loro azioni, un’ironia
spessa ed opaca (passeggiando
tra le teste), una crudeltà
allucinante e fredda (il "cozzo"
di Napoleone ed Alessandro degli
Alberti, paragonati nella loro
immobilità a "spranghe", nel
loro destarsi al movimento a
becchi), in cui l’animus comico
e realistico di Dante trova le
sue espressioni più
impenetrabili e dure.
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