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DIVINA
COMMEDIA
INTRODUZIONE
CRITICA AL CANTO |
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INTRODUZIONE
CRITICA AL CANTO |
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DIVINA COMMEDIA RIASSUNTO E
CRITICA
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CANTO XXXIII
Confitti
nel ghiaccio dell’Antenora Dante
incontra due dannati e
interpella colui che rode
rabbiosamente la nuca del suo
compagno di pena (fine del canto
XXXII). E’ Ugolino della
Gherardesca che, già
potentissimo a Pisa, fu fatto
prigioniero dal Ghibellini e fu
lasciato morire di fame insieme
a due figli e a due nipoti.
L’altro è l’arcivescovo Ruggieri
degli Ubaldini, alla cui frode e
alla cui crudeltà egli dovette
la cattura e la fine orribile.
Traditori ambedue (il conte
Ugolino era accusato di avere
consegnato a Lucca ed a Firenze
alcuni castelli pisani),
scontano la colpa nello stesso
luogo, ma le loro pene non sono
certo pari: Ruggieri oltre al
tormento del gelo eterno ha
quello che gli infligge la
rabbia del suo nemico; per
Ugolino al dramma della
dannazione si aggiunge l’ira e
la sete inesausta di vendetta
contro il suo nemico.
Solo la cattura, la prigionia,
la morte inflitta in forma
orrenda a lui e ai quattro
giovani innocenti occupano
l’animo di Ugolino; le vicende
culminate in quella tragedia
sono troppo note perché sia
necessario ricordarle. Lo sdegno
che la narrazione di Ugolino
accende nel Poeta lo fa
prorompere in una fiera
invettiva contro Pisa. Nella
terza zona di Cocito, la
Tolomea, dove sono puniti i
traditori degli ospiti, Dante e
Virgilio trovano il faentino
Alberigo dei Manfredi, che
invitò a banchetto alcuni
consanguinei per ucciderli.
Il dannato spiega a Dante,
meravigliato perché sapeva
Alberigo ancora nel mondo dei
vivi, che per una legge propria
della Tolomea egli è all’inferno
solo con l’anima, mentre il suo
corpo sulla terra è governato da
un demonio. Nella medesima
condizione è anche il genovese
Branca d’Oria, reo di avere
ucciso il suocero Michele Zanche
mediante una frode dello stesso
genere. Il canto si conclude con
una dura invettiva di Dante
contro i Genovesi.
INTRODUZIONE CRITICA
Questo canto si apre in modo
inusitato. Se ritorniamo a
quelli che lo precedono dal II
al XXXII noteremo che l’inizio
di ciascuno è l’inizio di un
nuovo episodio. (Può appena
essere considerato una deroga
l’incontro con Vanni Fucci, che
dal canto XXIV sconfina nei
primi versi del successivo). A
volte l’apertura è preceduta da
una digressione di carattere
meditativo (nel XIX: O Simon
mago, o miseri seguaci . ...;
nel XXIV: In quella parte del
giovanetto anno...): digressione
che segna ancora meglio il
distacco tra episodio ed
episodio. L’effetto sul lettore
è ben preciso, e fu certamente
voluto dal Poeta, perché in tal
modo l’attenzione di chi legge è
messa a fuoco sui due visitatori
dell’inferno; nel canto XXXIII,
invece, essa rimane incentrata
sulla vicenda e sull’eroe della
vicenda introdotta
drammaticamente nelle ultime
terzine del canto che precede.
La figura posta così in primo
piano è grandiosa, forse la più
imponente che sia mai nata in un
testo poetico. Nel costruirla
Dante mette una passione che
soverchia in ogni senso quella
che anima ogni altra parte
dell’Inferno; vi spende tutte le
sue risorse interiori, tutti i
suoi accorgimenti stilistici.
E’ una passione diversa da
quella che il Poeta intese
tradurre, e tradusse, nel testo
intero del suo poema. Si è
tentati a credere anzi che sia
diversa da quella che lo ispirò
primitivamente a portare in
scena Ugolino e la sua vicenda.
Nell’economia visibile del poema
il personaggio ed il suo caso
tragico sono entrati come
documento del male che Dante
imputa alla società del suo
tempo e del suo paese: il
disordine politico, causa ed
effetto dell’intemperanza dei
singoli; l’Italia smembrata, non
solo, ma la disunione che
sgretola ciascuno dei suoi
frammenti. Non è casuale che
quando Ugolino ha parlato ed è
la volta del Poeta, Dante sfoghi
lo sdegno e la pietà di cui lo
hanno colmato le parole di
Ugolino in un’invettiva rivolta
a tutt’altro bersaglio da quello
(l’arcivescovo Ruggieri) a cui
il personaggio mirava: cioè a
Pisa, all’esempio infame di
discordia dato dai cittadini di
Pisa.
L’Ugolino storico fu un uomo in
una società; è certo che provò
passioni di parte e ambizioni,
ed è probabile che avesse idee e
dubbi. Fu un attore sulla scena
della storia pisana, ed è come
tale che Dante lo porta sulla
scena dei suo poema, sicché la
sua evocazione si chiude in
un’invettiva a Pisa. Ma di ciò,
che fu certo molta parte di lui
vivo, il dannato non ritiene più
nulla. E’ solo un padre. Anche
la sua paternità è scarna e come
pietrosa: nella torre dove lui e
i figli attendono di morire
quasi non corre parola, e non ne
esce una dalla bocca di Ugolino;
lo sentiremo ululare solo sui
loro corpi inerti. Nemmeno nel
rievocare la sventura immeritata
di quei giovani egli avrà una
parola intenerita: il suo lutto
è diventato subito rancore
implacabile per chi lo causò. Si
direbbe che Dante lo vuole
inumano, ma egli lo vuole solo
essenziale. La sua figura è
costruita con tratti violenti,
ma soprattutto a farcela sentire
violentemente è la sua fissità
rocciosa. Il Poeta vi ha speso,
nel calcolo delle sfumature
verbali e nell’uso delle
metafore, una estrema scienza
che possiamo chiamare retorica
senza timore di venire
fraintesi. Ad esempio, un esame
attento è sufficiente a rilevare
con quale cura il Poeta ha
sfruttato il potere suggestivo
delle vocali. Le u di certi
versi come breve pertugio dentro
dalla muda... cacciando il lupo
e’ lupicini al monte, non sono
casuali; né i suoni stretti
della i e della e in versi dove
è espresso un dolore acuto e non
cupo, né le a e le o quando è
evocata l’innocenza dei figli
condannati ad una fine
orribile...
L’interpretazione di questi
versi offerta dal De Sanctis,
ricca di notazioni molto
penetranti sui singoli momenti,
ha abituato a sottolineare
l’ampiezza del dramma e la
profondità dei patetico, ma non
ha tenuto conto - secondo
l’esatta critica del Mattalia -
che «lo strumento con cui il
Poeta consegue i suoi effetti è
il distacco, l’impassibilità, il
superiore dominio formale».
Liberandoci dell’affermazione
romantica secondo la quale
l’episodio scaturisce di getto
dall’animo di Dante, riesce più
facile comprendere che quando
Dante fa parlare Ugolino, cerca
"sì di delinearne la figura, ma
interpretandolo nel proprio
stile; poiché,(e qui la fonte di
molti equivoci) l’idea di uno
stile immediatamente connaturato
al personaggio è fuori della sua
poetica. Lo stile del narrare
ugoliniano è soprattutto lo
stile di Dante, ed è poi la
fantasia del Poeta che con
lucido dominio costruisce
l’episodio".
La parte rimanente del canto,
assai meno della metà, è
sembrata ad alcuni critici, tra
cui il Chiari, che patisse nel
trovarsi accostata al tremendo
episodio di Ugolino, che la
diversità di tensione tra le due
parti provocasse squilibrio. Ma
Dante non poteva sentire così,
perché lo schema preordinato al
suo poema era l’anima stessa
della Commedia.
Certo la schematizzazione,
frutto della persuasione
scolastica che un sistema per
provarsi valido doveva essere
costruito con perfetta
armonicità geometrica e perfetta
simmetria, è il fondamento
caratteristico del pensiero
medievale. Dante aveva di
continuo presente quello che a
noi la drammaticità grandiosa
dell’episodio di Ugolino fa
scordare: che Cocito aveva
quattro zone, ciascuna per una
categoria di traditori di coloro
che si fidano, e che,
attraversata la regione
dell’Antenora, egli entrava in
quella dei traditori degli
ospiti. E se molti commentatori
hanno tentato di spiegare
variamente l’eccezione di
Alberigo dei Manfredi e di
Branca d’Oria, il corpo dei
quali vive ancora nel mondo, a
noi basta osservare con il Getto
che «un canto della Commedia, se
anche non determina sempre una
unità lirica, sta sempre a
rappresentare una unità
strutturale o un dato per lo
meno del proposito costruttivo e
dell’intenzione d’arte del
Poeta, il cui peso non può
essere con troppa disinvoltura
ignorato nel definitivo calcolo
di un’integrale esegesi".
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