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DIVINA
COMMEDIA
INTRODUZIONE
CRITICA AL CANTO |
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INTRODUZIONE
CRITICA AL CANTO |
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DIVINA COMMEDIA RIASSUNTO E
CRITICA
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CANTO XXXI
Mentre i
due pellegrini, voltate le
spalle all’ultima bolgia
dell’ottavo cerchio, si avviano
in silenzio verso l’orlo del
pozzo in cui sono puniti i
fraudolenti contro chi si fida,
alto, terribile, lacera l’aria
il suono di un corno. Dante
volge lo sguardo nella direzione
dalla quale il suono è
provenuto; crede di vedere molte
torri, per cui domanda al
maestro verso quale città si
stiano dirigendo. Virgilio
risponde che quelle che a Dante
sembrano, da lontano, le torri
di una cerchia di mura sono in
realtà le forme immani dei corpi
dei giganti; questi sovrastano
con la parte superiore del corpo
l’orlo del pozzo dei traditori.
I due poeti s’imbattono dapprima
in Nembrot, l’ideatore della
torre di Babele, per la cui
colpa gli uomini non parlano più
la medesima lingua. Poiché le
parole da lui pronunciate sono
incomprensibili, Virgilio lo
schernisce, esortandolo a
sfogare la sua ira con il corno
che porta appeso al collo. Alla
distanza di un tiro di balestra
da Nembrot si trova, saldamente
avvinto da una catena, un altro
gigante: è Fialte, distintosi
nella lotta dei titani contro
gli dei; ora non può più muovere
le braccia che si avventarono
contro i signori dell’Olimpo.
Allorché i due giungono presso
Anteo, Virgilio si rivolge
cortesemente a questo gigante,
adulandolo: gli ricorda i leoni
innumerevoli catturati nella
valle poi divenuta insigne per
la vittoria di Scipione su
Annibale e ne elogia la forza.
Il poeta latino prega quindi
Anteo di deporre lui e il suo
discepolo sulla superficie
ghiacciata di Cocito,
promettendogli in cambio fama
nel mondo dei vivi. Senza
pronunciare parola il gigante
acconsente alla richiesta di
Virgilio. Nell’attimo in cui si
china per afferrare i due
pellegrini, la sua figura
richiama alla mente di Dante
l’immagine della torre della
Garisenda, minacciosamente
incombente su chi la contempla
dal basso; ma delicato è il
movimento eseguito dalla sua
mano per posarli sul fondo della
voragine infernale.
INTRODUZIONE CRITICA
I titani simboleggiavano, nella
concezione greca del sorgere e
definirsi del cosmo, lo
smisurato, il difforme, ciò che
non può inquadrarsi in uno
schema concettuale o visivo:
errore logico e metafisico,
ripugnante tanto ai dettami
dell’evidenza - la quale
prescrive a cose o idee un
contorno tale da racchiuderle
nella loro identità - quanto
alla necessità che spinge l’uomo
a trasferire in miti, metafore,
simboli il contenuto dei propri
concetti, onde trovare un
accordo tra l’unitario
dispiegarsi del pensiero e la
multiforme accidentalità del
percepire. Insieme ai titani,
derivati dalla tradizione
classica torreggia nell’Inferno,
a custodia del pozzo dei
traditori, Nembrot, la cui
colpa, per la pretesa di
raggiungere la volta celeste,
sede del Dio degli Ebrei,
corrispose - nei moventi e nei
mezzi posti in opera per
attuarla - al tentativo di dare
l’assalto all’Olimpo degli
smisurati figli della terra. Nel
canto XXXI pertanto i giganti
esprimono la medesima idea
balenante nei miti greci e nel
racconto biblico della
costruzione della torre di
Babele: idea morale, fondata su
un religioso consenso dall’uomo
accordato all’ordine
dell’universo, e quindi assai
lontana da quelle che sono alla
base delle creazioni di un
Cervantes, di un Rabelais, di
uno Swift, volte a satireggiare
amabilmente gli errori in cui
può indurci una fede acritica
nella nostra soggettività, senza
peraltro destituire quest’ultima
dei suoi diritti di legislatrice
assoluta del reale. Collocati
fuori del tempo, i giganti
danteschi non propongono alla
nostra attenzione l’attimo del
loro libero, fremente insorgere;
immobili, convertiti in oggetti,
simboleggiano la punizione che
li ha annientati, la divina
onnipotenza assai più che un
loro personale modo di essere.
Mentre in Malebolge ciascun
peccatore appariva così
pervicacemente legato alla
propria individualità, da
riuscire a dimenticare persino
la propria condizione di
dannato, concedendosi alla
battuta scherzosa per il puro
gusto di scherzare (gli
alchimisti del canto XXIX) o,
sul piano di una più drammatica
e ferma caratterizzazione,
all’insulto Fine a se stesso (Sinone
e maestro Adamo nel canto XXX),
i giganti esprimono uno stato di
totale sottomissione alla
sentenza che li ha colpiti, in
ciò attuandosi una forma
evidente di contrappasso, per
cui, quanto più alta si tese la
loro presunzione, tanto più
prostrata appare, nell’al di là,
l’energia che li travolse a
peccare. Nulla hanno di
smisurato le loro moli, pur
travalicando i confini della
nostra quotidiana percezione. Il
Poeta infatti ne determina le
dimensioni, riducendole,
attraverso un processo di
scomposizione, ad una somma di
elementi eterogenei (i tre
Frison, la pina di San Pietro).
Conferisce un sapore di
distaccata ironia all’insieme
della rappresentazione
l’accostamento livellatore
dell’essere vivente (determinato
peraltro attraverso una
connotazione - Prison - che lo
inquadra in un genere, anziché
farne risaltare l’individualità)
al manufatto (I’architettura
fornisce in questo canto i
termini più appropriati di
confronto, imponendo alla nostra
immaginazione la staticità
pesante e maestosa di forme che
il principio vitale sembra aver
interamente disertato). Nessuna
tensione tragica turba
l’impassibile solennità di
queste torri, nulla essendovi in
esse di michelangiolesco,
contrariamente a quanto
sostenuto, più per enfasi che
attraverso un controllo diretto
del testo, dal Ghignoni. Alle
affermazioni del Ghignoni
opportunamente si contrappongono
i seguenti rilievi del Frascino:
"Nelle creazioni di Michelangelo
è la vita che domina la massa,
qui è la massa che opprime e
quasi annulla la vita. I colossi
michelangioleschi tendono
spasmodicamente le loro membra,
indomiti, nello sforzo di
spezzare, quasi, delle
invisibili catene avvincenti il
loro corpo. I giganti di Dante
sono, invece, i vinti che
soggiacciono, domati, al peso
delle loro catene; non li scuote
lo spirito della epica lotta di
Flegra, bensì qualche accesso di
fraterna gelosia! Essi
adempiono, nell’inferno
dantesco, ad una funzione più
che altro decorativa, adornando
tutt’intorno, nella loro
statuaria monumentalità, la
reggia ghiacciata di Lucifero.
La stessa immobilità forzata,
cui sono costretti, è una
necessità della decorazione, non
meno che della pena". La
verticalità di queste masse
abitate da intelligenze
infantili (le convulsioni di
Fialte, la docilità di Anteo
esprimono una medesima aderenza
agli aspetti più esteriori del
reale, una medesima acribia, una
vanità scoperta e candida) se,
nell’ambito di uno sguardo
d’assieme, suggerisce l’idea di
una forza compatta ed elegante
(la corona di torri sugli spalti
di Montereggioni, l’incombere
vertiginoso della Garisenda
sullo sfondo di un cielo
percorso da nuvole in fuga
propongono questa soluzione),
risulta, ad un’analisi più
attenta, materialità inerte, che
il Poeta considera "sempre
secondo la forza di gravità,
dall’alto in basso:
dall’umbilico in giuso tutti
quanti - e per le coste giù ambo
le braccia - dal luogo in giù
dov’uomo affibbia il manto" (Frascino).
Lo stato d’animo di Dante di
fronte a queste creazioni della
sua fantasia non è di dura
polemica, come quella che lo ha
opposto ai maliziosi del cerchio
ottavo, né di odio esplicito,
come quello che proromperà nei
suoi incontri con i traditori,
ma di riposata tensione, di
quasi serena (nella misura in
cui tali attributi possono
applicarsi all’arte della
Commedia) contemplazione. Pur
ricordandone il misfatto, egli
considera i giganti come forze
della natura prima che come
esseri responsabili e li
contempla quindi con curiosità e
stupore, né l’ironico distacco
che isola queste figure nella
loro estrema impotenza appare
esente da una sfumatura di
cordialità indulgente e bonaria:
la lode rivolta alla natura "per
aver smesso tal sorta di
generazione non significa
affatto rimprovero per aver
voluto dare, una volta tanto,
tale saggio della sua potenza"
(Frascino).
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