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DIVINA
COMMEDIA
INTRODUZIONE
CRITICA AL CANTO |
PARADISO |
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INTRODUZIONE
CRITICA AL CANTO |
PARADISO |
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DIVINA COMMEDIA RIASSUNTO E
CRITICA
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CANTO XV
I beati
del cielo di Marte interrompono
il canto perché Dante possa
indirizzare loro le sue domande.
Intanto una delle luci che
costellano la croce scende lungo
il braccio destro e la parte
mediana fino ai piedi di essa e
si rivolge al Poeta con tono
particolarmente affettuoso: è
l’anima di Cacciaguida,
trisavolo di Dante, il quale,
tuttavia, non riesce ad
afferrare il senso delle sue
parole, essendo queste troppo al
di sopra delle umane possibilità
di comprensione. Solo in un
secondo tempo il discorso di
Cacciaguida si chiarisce alla
mente del Poeta, il quale viene
invitato ad esprimere i propri
desideri. Poiché Dante gli ha
chiesto di poter conoscere il
suo nome, l’anima beata glielo
rivela. Subito dopo Cacciaguida
delinea l’aspetto dell’antica
Firenze, allorché la città
viveva in pace e nell’osservanza
di tutte le leggi morali,
contrapponendo a questa serena
visione quella della Firenze
attuale, dilaniata dalle lotte e
corrosa dall’immoralità.
Cacciaguida ricorda i retti
costumi dei Fiorentini antichi,
la loro serena vita familiare,
il culto delle memorie del
passato. Nella parte finale del
canto Cacciaguida, dopo aver
ricordato il nome dei suoi due
fratelli, Moronto ed Eliseo, e
quello della moglie, parla della
propria vita. Entrò al servizio
dell’imperatore Corrado III, dal
quale fu fatto cavaliere. Lo
seguì nella seconda crociata per
la riconquista della Terrasanta
e morì combattendo contro i
Saraceni.
INTRODUZIONE CRITICA
Nell’interpretazione del canto
XV, come di tutta la trilogia di
Cacciaguida, si ripropone con
un’evidenza particolarissima la
rottura fra la fase romantica
della critica dantesca e
l’interpretazione moderna. La
prima, nonostante le qualità di
gusto e di penetrazione
psicologica (basti pensare alle
pagine che il Donadoni dedica al
canto XV e allo studio del
Momigliano, "La personalità di
Dante e i canti di Cacciaguida",
pubblicato nel 1927), non riesce
a rendersi conto che anche la
descrizione di Firenze chiusa
nella cerchia antica non è uno
sfogo autobiografico, ma una
rappresentazione "figurale"
(Auerbach) nella quale prende
vita l’utopia politica di Dante.
E’ su questa posizione,
lumeggiata anche dal Montano,
che si muovono le analisi di
critici sicuri e attenti come il
Binni e il Vallone. Dante
respinge la rivoluzione
economica e sociale maturata nel
corso del secolo XIII, il crollo
o la limitazione del feudalismo,
il nuovo spirito mercantile,
l’urbanesimo, i costumi di vita
raffinati e spregiudicati che il
Boccaccio alcuni anni dopo
descriverà nel suo Decamerone.
"Per la prima volta i grandi
fattori metafisici del mondo
politico erano sottoposti a una
valutazione e a uno sfruttamento
ormai soltanto politici... per
la prima volta prevalse, in modo
cosciente e coerente, fino nei
più bassi strati del popolo, lo
spirito che con freddo calcolo
inserisce nel gioco delle forze
ogni istituzione terrena, senza
riguardo alla sua provenienza
ultraterrena e all’autorità."
(Auerbach) Nasceva una
generazione di uomini freddi,
preoccupati del successo e del
proprio vantaggio, decisi a
liberarsi di ogni legame con
l’ordine tradizionale del mondo
e a vedere nella cultura non una
saggezza saldamente ancorata
alla parola di Dio e capace di
penetrare e nutrire ogni aspetto
della vita terrena, ma un
godimento dei sensi oltre che
della mente, un ornamento della
vita, senza alcuna forza
praticamente impegnativa. Dante
rifiuta tutto questo e con esso
rifiuta anche ciò che di
positivo presentava il nuovo
spirito borghese. "Ma se si
pensa - conclude l’Auerbach -
con quali sacrifici fu pagato
quel futuro, la civiltà moderna,
come la scissione tra vita
interiore e esteriore sia
diventata sempre più opprimente,
come l’unità di vita umana e
europea andasse. perduta, come
il frantumarsi e l’inefficacia
di ogni ideologia sia diventata
sensibile a ognuno... ci si
guarderà dal disprezzare e
condannare lo spirito
sapientemente ordinatore di
Dante." Il Poeta, profilando con
accenti di desiderio e di sogno
i costumi sobri, la semplicità,
la lealtà, la pace del tempo
passato, attribuisce al passato
i caratteri morali e religiosi
che egli sogna per l’avvenire:
una società civile non corrotta
dal denaro, non sopraffatta da
meri interessi politici,
ancorata ai valori eterni
dell’uomo. Ma la poesia di Dante
ha bisogno di conferire alle
astrazioni del pensiero e alle
idealità del sogno il vigore
della concretezza, il nerbo
delle azioni, la realtà delle
vicende storiche. Come la
Firenze dei tempi del Poeta era
stata nell’lnferno il modello
esemplare del male, il parallelo
di Dite nel mondo dei vivi, così
nel Paradiso egli alla mitica
Firenze del passato - in pace,
sobria e pudica - chiede
ispirazione per tracciare le
linee della società nuova e
rigenerata che egli intende
prospettare: perché la Commedia,
nella sua sostanza profonda, è
"espressione di una grande
attesa e speranza di bene"
(Vallone) e "il reale serve
proprio, com’è nell’arte del
Medioevo e nello stile di Dante,
a dare sostanza e concretezza a
questa attesa, tanto più vasta e
incommensurabile quanto proprio
quel reale è minuto, particolare
e personale". Ancora una volta,
dunque, il tono della poesia
dantesca nasce dalla fusione di
un concetto universale e di una
esperienza individuale: in
Firenze egli non solo sperimenta
il suo amore di figlio e la sua
dolorosa nostalgia di esule, ma
i valori eterni dello spirito e
della società umana. La poesia
del canto XV è da cogliere nello
straordinario equilibrio e nel
sapiente comporsi e fondersi di
questi due termini. Secondo il
De Sanctis dopo i versi 97-99
"la rappresentazione da Firenze
si va a restringere nelle
famiglie fiorentine e nella
persona di Dante". Invece subito
dopo l’immagine di Firenze
dentro dalla cerchia antica,
chiusa nella sua staticità
maestosa ma inarticolata, si
inseriscono, attraverso la
rappresentazione delle
consuetudini interne e dei
rapporti familiari, i grandi
temi e i grandi problemi
politico-morali.Il quadro si
anima, si carica di motivi
polemici e sentimentali, Si
popola di personaggi, si
arricchisce degli sfondi
architettonici di case e di
strade. Il pericolo di
trasformare la ricostruzione
dell’antica Firenze in un elogio
astratto o in un simbolo corposo
e statuario (l’osservazione è
del Vallone) si dissolve subito
in virtù del procedimento
adottato, quello della
comparatio per contrarium: i due
volti di Firenze, quello passato
e quello attuale, accostati,
confrontati, allontanati in un
gioco mobilissimo di figure e di
prospettive. Una soluzione
retorica che è adeguata
rappresentazione dell’intimo di
Dante, dove quei due volti
coesistono, fonte di tenerezza e
di speranza l’uno, causa di
struggimento l’altro, ma l’uno e
l’altro calati nella realtà e
rappresentati nel concreto degli
abitanti e degli usi civili.
Scarna semplicità dello stile,
andamento paratattico del
fraseggiare, essenzialità della
descrizione dominano questa
parte del canto, nella quale la
polemica non sfocia nella
invettiva, il sarcasmo viene
smussato in mestizia, la poesia
non si carica di toni cupi e di
tormento di passioni: il Poeta
sembra ormai certo che il
presente falso e corrotto sia
destinato a scomparire.
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