1 |
Nel mezzo
del cammin di nostra vita
mi ritrovai per una selva oscura,
ché la diritta via era smarrita. |
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1 |
A metà
della nostra esistenza terrena mi trovai a vagare in una
buia foresta, nella condizione di chi ha smarrito la via
del retto vivere. |
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Nel mezzo
del cammin di nostra vita:
" [la nostra vita] procede a imagine... di arco,
montando e discendendo... lo punto sommo di questo
arco... io credo, che... sia nel trentacinquesimo anno"`
(Convivio IV, XXIII, 6 e 9).
Mi
ritrovai per una selva oscura:
la selva oscura ("la selva erronea di questa vita:
Convivio IV. XXIV, 12), che ciascuno di noi
singolarmente, e il genere umano nel suo complesso, è
costretto ad attraversare, simboleggia il peccato e le
difficoltà che dobbiamo superare per vincerlo. Per aver
ceduto alle lusinghe di una vita che lo ha allontanato
da Dio, il Poeta si accorge all'improvviso, con terrore,
di non aver più alcun saldo punto di riferimento che
possa guidarlo nelle sue azioni, cammina nel buio, e le
passioni, non più frenate da un principio razionale, Io
dilaniano crudelmente. La sua vicenda è quella di ognuno
di noi. Fin da questi primi versi Dante trasferisce
quindi la sua esperienza personale su un piano di
validità universale. |
4 |
Ahi quanto a
dir qual era è cosa dura
esta selva selvaggia e aspra e forte
che nel pensier rinova la paura! |
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4 |
Mi è assai
difficile descrivere questa selva inospitale, irta di
ostacoli e ardua da attraversare, che al solo pensarci
risuscita in me lo sgomento. |
7 |
Tant' è
amara che poco è più morte;
ma per trattar del ben ch'i' vi trovai,
dirò de l'altre cose ch'i' v'ho scorte. |
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7 |
Il
tormento che provoca è di poco inferiore all’angoscia
della morte; ma per giungere a parlare del bene
incontratovi, dirò prima delle altre cose che in essa ho
vedute. |
|
Tant'è
amara che poco è più morte:
allegoricamente: il peccato è vicino alla dannazione, la
morte dell'anima. |
10 |
Io non so
ben ridir com' i' v'intrai,
tant' era pien di sonno a quel punto
che la verace via abbandonai. |
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10 |
Non sono
in grado di spiegare il modo in cui vi entrai, tanto la
mia mente era ottenebrata dall’errore, quando abbandonai
il cammino della verità. |
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Tant'era
pieno di sonno:
l'abbandono della via del bene è graduale e progressivo,
e perciò non può essere determinato il momento in cui si
comincia a peccare. |
13 |
Ma poi ch'i'
fui al piè d'un colle giunto,
là dove terminava quella valle
che m'avea di paura il cor compunto, |
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13 |
Ma, giunto alle pendici di
un colle, dove terminava la selva che mi aveva trafitto
il cuore di angoscia, |
16 |
guardai in
alto e vidi le sue spalle
vestite già de' raggi del pianeta
che mena dritto altrui per ogne calle. |
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16 |
volsi lo
sguardo in alto, e vidi i declivi presso la cima già
illuminati dai raggi dell’astro (il sole) che guida
secondo verità ciascuno nel suo cammino. |
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Per Dante,
come per tutti i dotti del suo tempo, che seguivano su
questo punto la teoria dell'astronomo egiziano Tolomeo,
vissuto nel Il sec. d. C., centro dell'universo era la
terra ( teoria geocentrica ).
Nel sistema tolemaico il sole era un pianeta come gli
altri e come gli altri ruotava intorno alla terra.
Qui, sul piano allegorico, il sole è simbolo della
grazia divina ('Nullo sensibile in tutto lo mondo è più
degno di farsi esempio di Dio che 'l sole"; Convivio
III, XII, 7). È Dio, che, a un certo momento, nella sua
infinita misericordia, si manifesta al peccatore; le
cose, rischiarate da questa luce, riacquistano un senso,
il loro vero senso: chi disperava intravede finalmente
la via della salvezza. |
19 |
Allor fu la
paura un poco queta,
che nel lago del cor m'era durata
la notte ch'i' passai con tanta pieta. |
|
19 |
Allora la
paura che, per tutta la notte da me trascorsa in così
compassionevole affanno, mi aveva attanagliato nel
profondo del cuore, placò in parte la sua violenza,
|
|
La notte
ch'i' passai con tanta pièta:
naturalmente le tenebre. contrapposte alla luce, hanno
in Dante, e particolarmente in questo canto
introduttivo, una portata simbolico-allusiva che, al di
là della lettera, ci pone in presenza di quello che è il
dramma della coscienza impegnata a vivere moralmente.
Esse stanno a significare il caotico contrastare degli
istinti, laddove la luce, principio ordinatore,
rappresenta il sorgere di un'armonia, di un'equa
contemperazione del bene concepito secondo il principio
dell'unicuique suum.
Lago del cor:
la parte più interna del cuore. Si tratta di quella
parte che lo stesso Dante, nella Vita Nova (II), chiama
"la secretissima camera" del cuore. Il Boccaccio, nel
suo commento ai primi diciassette canti dell'inferno.
riferisce l'opinione dei suoi contemporanei, secondo
cui, in questa cavità, abiterebbero "gli spiriti vitali"
ed aggiunge: "è quella parte ricettacolo di ogni nostra
passione: e perciò [Dante] dice che in quella gli era
perseverata la passione della paura avuta". |
22 |
E come quei
che con lena affannata,
uscito fuor del pelago a la riva,
si volge a l'acqua perigliosa e guata, |
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22 |
E con
l’aspetto del naufrago che, appena raggiunta con
affannoso respiro la terraferma, si volge ad abbracciare
con lo sguardo crucciato l’immensità degli elementi
scatenati, |
25 |
così l'animo
mio, ch'ancor fuggiva,
si volse a retro a rimirar lo passo
che non lasciò già mai persona viva. |
|
25 |
mi volsi
indietro, con l’animo ancora atterrito, a rimirare la
impervia plaga da cui nessun essere vivente riuscì mai a
venir fuori. |
|
Così il
paragone del naufrago rivive nella partecipe
interpretazione di un poeta: "... ancora fora è senza
storia, se non latente, ancora a se stesso il naufrago è
solo, il naufrago che ancora non s'è riavuto d'essersi
dibattuto con la burrasca; è ancora l'assonnato, il "
pieno di sonno " che si sta sbrogliando dalla notte,
trattenuto nella sorpresa del risveglio. E' l'ora
deserta, in mezzo alla quale, solo, sta un uomo"
(Ungaretti ) .
Lo
passo:
il luogo attraverso il quale Dante era passato, cioè la
selva, ma anche, sul piano allegorico, il passaggio che
congiunge il peccato alla dannazione. |
28 |
Poi ch'èi
posato un poco il corpo lasso,
ripresi via per la piaggia diserta,
sì che 'l piè fermo sempre era 'l più basso. |
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28 |
Dopo aver
riposato un poco il corpo stanco, ripresi ( senza
interruzioni) la mia salita lungo il pendio desolato, in
modo che il piede fermo era sempre più basso rispetto a
quello in movimento. |
31 |
Ed ecco,
quasi al cominciar de l'erta,
una lonza leggiera e presta molto,
che di pel macolato era coverta; |
|
31 |
Ma, giunto
quasi all’inizio della salita vera e propria, ecco
apparirmi una lince snella e veloce, dal manto
chiazzato: |
34 |
e non mi si
partia dinanzi al volto,
anzi 'mpediva tanto il mio cammino,
ch'i' fui per ritornar più volte vòlto. |
|
34 |
essa non
si allontanava dal mio cospetto, ma al contrario
ostacolava a tal punto il mio procedere, che più di una
volta fui sul punto di tornarmene indietro. |
|
Più che un
animale reale, la lonza, il cui nome ci ricorda quello
della lince (lonce francese antico), è una fantasiosa
creazione del Poeta. Questi ce la presenta come un
felino di singolare eleganza, snello e quasi attraente;
il suo aspetto piacevole alla vista può forse alludere
alle multiformi (il pel maculato e, più sotto, la gaetta
pelle) tentazioni del peccato. Terribile sarà invece
l'aspetto del leone: forza, ostinazione, furore si
sprigionano dalla sua statuaria figura, tanto che lo
sgomento sembra da essa propagarsi a tutto il paesaggio
circostante. Nella terza delle tre fiere, la lupa, il
male supremo l'allegoria sembra quasi soverchiare la
evidenza plastica, mentre s'infittisce l'alone di
mistero e di angoscia che la circonda. Ma anche la lupa,
la bestia sanza pace, vive ai nostri occhi di vita
poetica propria, al di là di ogni angusta determinazione
concettuale; né può parlarsi al riguardo di una
raffigurazione "lievemente grottesca" (Rossi). Proprio
la sua famelica magrezza, il controsenso logico che in
essa s'incarna, l'aspetto irreale, continuamente
contraddetto dalla sua viva presenza e in cui pare
configurarsi una minaccia che non e di questo mondo,
costringeranno alla fine il Poeta a tornarsene sui
propri passi, a disperare. Che le tre fiere propongano
una lettura in chiave allegorica è chiaro. Non facile è
apparsa tuttavia ai commentatori l'identificazione delle
tre inclinazioni al male che esse simboleggiano. Gli
antichi hanno visto nella lonza la lussuria, nel leone
la superbia, nella lupa l'avarizia, intesa in senso lato
come cupidigia, avidità: "tre vizi che comunemente più
occupano l'umana generazione" (Ottimo). Dei moderni
alcuni hanno visto in esse le tre faville c'hanno i
cuori accesi ( Inferno VI, 75 ), cioè superbia, invidia,
avarizia; altri, le tre disposizion che 'l ciel non vole
( Inferno XI, 81 ), cioè malizia, matta bestialità e
incontinenza. |
37 |
Temp' era
dal principio del mattino,
e 'l sol montava 'n sù con quelle stelle
ch'eran con lui quando l'amor divino |
|
37 |
Era l’alba
e il sole saliva in cielo nella costellazione
dell’Ariete, con la quale si era trovato in congiunzione
allorché Iddio |
40 |
mosse di
prima quelle cose belle;
sì ch'a bene sperar m'era cagione
di quella fiera a la gaetta pelle |
|
40 |
creò,
imprimendo loro il movimento, gli astri; per questa
ragione erano per me auspicio di vittoria su quella
belva dalla pelle screziata |
43 |
l'ora del
tempo e la dolce stagione;
ma non sì che paura non mi desse
la vista che m'apparve d'un leone. |
|
43 |
l’ora
mattutina e la primavera (la dolce stagione: il sole è
nel segno dell’Ariete appunto in questa stagione), non
tanto tuttavia da far si ch’io non restassi nuovamente
atterrito all’apparizione di un leone. |
46 |
Questi parea
che contra me venisse
con la test' alta e con rabbiosa fame,
sì che parea che l'aere ne tremesse. |
|
46 |
Questo
sembrava venirmi incontro rabbioso e famelico, col capo
eretto, e diffondeva intorno a sé tanto spavento che
l’aria stessa sembrava rabbrividirne. |
49 |
Ed una lupa,
che di tutte brame
sembiava carca ne la sua magrezza,
e molte genti fé già viver grame, |
|
49 |
E (oltre
al leone) una lupa, nella cui macilenta figura covavano
brame insaziabili, e che già molte genti aveva reso
infelici, |
52 |
questa mi
porse tanto di gravezza
con la paura ch'uscia di sua vista,
ch'io perdei la speranza de l'altezza. |
|
52 |
mi
oppresse di tale sbigottimento con il suo aspetto, che
disperai di raggiungere la cima del colle. |
|
La Lupa
simboleggia probabilmente la avarizia, intesa nel suo
significato originario, come avidità, brama smodata di
possesso. Per San Paolo, che la definisce "radice di
tutti i mali, l'avidità è il vizio che ha più
contribuito ad allontanare gli uomini da Dio (I Timoteo
VI, 10).
In questi versi, come altrove nella Commedia,
l'allegoria riflette un pensiero della Sacra Scrittura.
Occorre tuttavia aggiungere che qui, come quasi ovunque
nel poema, Dante non precisa l'allegoria fino a farla
corrispondere, in tutti i suoi particolari, a un
concetto. Una simile puntuale corrispondenza non farebbe
che immeschinire la poesia, privandola di quell'alone di
indefinito che è ad essa essenziale. In questa pagina,
ad esempio, la viva presenza delle tre fiere si
ripercuote di continuo in un mondo di sublimi
significati, tanto più ricco e universale quanto meno
precisato. Dio, la legge morale, l'ordine del creato
pervadono ogni aspetto della realtà, ma si manifestano
per cenni, per balenanti illuminazioni; non possono
essere imprigionati nella pochezza dei nostri concetti.
Questo ha sentito Dante, questo più volte ha ribadito
esplicitamente, questo è riuscito a far dire ai suoi
versi, anche là dove questi sembrano più gravati da
intenti dottrinali o di edificazione. |
55 |
E qual è
quei che volontieri acquista,
e giugne 'l tempo che perder lo face,
che 'n tutti suoi pensier piange e s'attrista; |
|
55 |
E come
colui che, avido di guadagni, quando arriva il momento
che gli fa perdere ciò che ha acquistato, si cruccia e
si addolora nel profondo del suo animo, |
58 |
tal mi fece
la bestia sanza pace,
che, venendomi 'ncontro, a poco a poco
mi ripigneva là dove 'l sol tace. |
|
58 |
tale mi
rese la insaziabile lupa, che, dirigendosi verso di me,
mi respingeva nuovamente verso la selva, là dove il sole
non penetra con i suoi raggi. |
61 |
Mentre ch'i'
rovinava in basso loco,
dinanzi a li occhi mi si fu offerto
chi per lungo silenzio parea fioco. |
|
61 |
Mentre
stavo precipitando in basso, mi apparve all’improvviso
colui che, per essere stato a lungo silenzioso, sembrava
ormai incapace di far intendere la sua voce. |
|
Ruvinava:
precipitavo. "Ma il sovrassenso si fonde col significato
letterale perché in quel "ruinare" - che rappresenta
piuttosto l'entità che la velocità della caduta - e in
quel basso loco, che si riferisce ugualmente bene alla
bassura della selva e alla bassezza della vita viziosa,
c'è l'immagine della doppia caduta: materiale e morale.
" ( Grabher )
Chi
per lungo silenzio parea fioco:
allegoricamente: la voce della ragione, dopo un lungo
silenzio, stenta a farsi intendere. Ma, al di là di ogni
intento allegorico, quest'ombra ingigantita dal
silenzio, isolata in uno spazio vuoto, si annuncia come
portatrice di un mistero ed esercita una profonda
suggestione.n |
64 |
Quando vidi
costui nel gran diserto,
«Miserere di me», gridai a lui,
«qual che tu sii, od ombra od omo certo!». |
|
64 |
Quando lo
scorsi nella grande solitudine, implorai il suo aiuto: "
Abbi pietà di me, chiunque tu sia, fantasma o uomo in
carne ed ossa !" |
|
Miserere:
la forma latina conferisce tragica solennità
all'invocazione del Poeta. |
67 |
Rispuosemi:
«Non omo, omo già fui,
e li parenti miei furon lombardi,
mantoani per patrïa ambedui. |
|
67 |
Mi
rispose: " Non sono vivo, ma lo sono stato, e i miei
genitori furono entrambi lombardi, originari di Mantova. |
|
Non omo,
omo già fui:
la risposta di Virgilio "articolata, intorno a quella
realtà umana, in negazione rispetto al presente e in
affermazione rispetto al passato, sembra definitivamente
ribadire la distinzione tonale del canto fra mondo
infraumano e sovrumano, metafisico e simbolico,
trascendente e biblico, e mondo umano, della storia e
della poesia" (Getto). |
70 |
Nacqui sub
Iulio, ancor che fosse tardi,
e vissi a Roma sotto 'l buono Augusto
nel tempo de li dèi falsi e bugiardi. |
|
70 |
Vidi la
luce mentre era ancora in vita Giulio Cesare, benché
troppo tardi (per esserne conosciuto e apprezzato), e
vissi a Roma al tempo di Ottaviano Augusto, principe di
gran valore, in un’età in cui vigeva il culto di
divinità non vere e ingannevoli. |
|
Virgilio
nacque nel 70 a.C. ad Andes, presso Mantova. Giulio
Cesare morì nel 44 a.C. Non poté quindi conoscere ed
apprezzare l'autore dell'Eneide. |
73 |
Poeta fui, e
cantai di quel giusto
figliuol d'Anchise che venne di Troia,
poi che 'l superbo Ilïón fu combusto. |
|
73 |
Fui poeta,
e celebrai in versi le imprese di quel paladino della
giustizia (Enea), figlio di Anchise, che venne da Troia
( a stabilirsi in Italia ), dopo che la superba città fu
incendiata. |
76 |
Ma tu perché
ritorni a tanta noia?
perché non sali il dilettoso monte
ch'è principio e cagion di tutta gioia?». |
|
76 |
Ma tu
perché vuoi ridiscendere a tanta pena, giù nella valle?
Perché non ascendi invece il gaudioso colle,
dispensatore e origine di ogni perfetta letizia?" |
|
La
risposta di Virgilio contrasta, nella sua distaccata
serenità, che è quella del saggio, dell'anima ormai
immune da ogni passione - con la concitata ammirazione
di Dante. Già in queste prime battute si delinea il
rapporto da maestro a discepolo che caratterizzerà i
dialoghi dei due personaggi. |
79 |
«Or se' tu
quel Virgilio e quella fonte
che spandi di parlar sì largo fiume?»,
rispuos' io lui con vergognosa fronte. |
|
79 |
"Sei
proprio tu " risposi reverente ed umile " il grande
Virgilio, sorgente copiosa d’inesauribile poesia? |
82 |
«O de li
altri poeti onore e lume,
vagliami 'l lungo studio e 'l grande amore
che m'ha fatto cercar lo tuo volume. |
|
82 |
O tu che
onori e illumini chiunque coltivi l’arte del poetare, mi
acquistino la tua benevolenza l’assidua consuetudine e
il grande amore che mi ha spinto ad accostarmi alla tua
opera. |
85 |
Tu se' lo
mio maestro e 'l mio autore,
tu se' solo colui da cu' io tolsi
lo bello stilo che m'ha fatto onore. |
|
85 |
Tu sei lo
scrittore e il maestro che ha avuto su di me autorità
indiscussa; sei l’unico dal quale ho appreso il bello
scrivere che mi ha arrecato fama. |
88 |
Vedi la
bestia per cu' io mi volsi;
aiutami da lei, famoso saggio,
ch'ella mi fa tremar le vene e i polsi». |
|
88 |
Guarda la
lupa che mi ha fatto tornare sui miei passi: chiedo il
tuo aiuto, famoso sapiente, poiché essa mi fa tremare di
paura in ogni fibra" |
|
Famoso
saggio:
per Dante il poeta deve anzitutto essere un maestro, un
sapiente.
I
polsi:
le arterie, nell'atto di pulsare. |
91 |
«A te
convien tenere altro vïaggio»,
rispuose, poi che lagrimar mi vide,
«se vuo' campar d'esto loco selvaggio; |
|
91 |
Virgilio,
reso pietoso dalle mie lagrime: "Tu devi, se vuoi uscire
da questo luogo impervio, seguire una altra strada: |
94 |
ché questa
bestia, per la qual tu gride,
non lascia altrui passar per la sua via,
ma tanto lo 'mpedisce che l'uccide; |
|
94 |
perché la
belva, per la quale tanto ti lamenti, ostacola il
cammino a chiunque in essa si imbatte, perseguitandolo
senza tregua sino ad ucciderlo; |
97 |
e ha natura
sì malvagia e ria,
che mai non empie la bramosa voglia,
e dopo 'l pasto ha più fame che pria. |
|
97 |
e tanto
perversa e malvagia è la sua indole, che nulla può
placarne le smodate cupidigie e, invece di saziarla. il
cibo ne accresce gli appetiti. |
100 |
Molti son li
animali a cui s'ammoglia,
e più saranno ancora, infin che 'l veltro
verrà, che la farà morir con doglia. |
|
100 |
Numerosi
sono gli animali ai quali si accoppia, e il loro numero
è destinato a crescere, fino alla venuta ( in veste di
liberatore) di un Veltro, che la ucciderà crudelmente. |
|
Animali:
esseri animati in genere e quindi anche uomini.
'l
Veltro:
per aver ragione della lupa, occorre un veloce cane da
caccia. In quest'allegoria dobbiamo vedere l'attesa
messianica di un papa riformatore o di un imperatore
giusto.
Tutta l'umanità per Dante avrebbe dovuto essere
ricondotta sotto una sola autorità nel campo temporale,
sotto un solo magistero in quello spirituale. Ma ai suoi
tempi egli vedeva questi due poteri, da Dio ordinati
alla guida degli uomini, degradarsi in abusi e
compromessi, offuscarsi nella mediocrità di coloro che
li rappresentavano. L'interpretazione dei fatti politici
di cui fu testimone è in Dante improntata al più deciso
pessimismo. Da qui, da questa considerazione negativa
del presente, prendono l'avvio alcune delle sue pagine
di più alta poesia, animate da un ardore profetico che
trova riscontro soltanto nell'Antico Testamento. I
commentatori hanno dissertato a lungo nella speranza di
giungere ad una plausibile identificazione del
personaggio storico che si celerebbe dietro l'allegoria
del Veltro. Ma anche a proposito del Veltro giova
ricordare che la poesia ha una sua vita autonoma, e che
l'allegoria può trasfigurarsi in lirica, nella misura in
cui dà voce a un sentimento. La figura della lupa e
quella del Veltro esprimono una profonda ansia di
rinnovamento morale, una fede saldissima.
Per quel che riguarda l'interpretazione degli eruditi,
alcuni hanno visto nel Veltro un capo ghibellino (
Cangrande della Scala, di cui Dante fu ospite nel suo
esilio, o Arrigo VII di Lussemburgo); altri Benedetto XI,
pontefice dal 1303 al 1304. Non esistono però documenti
che permettano di risolvere la questione in modo
probante. |
103 |
Questi non
ciberà terra né peltro,
ma sapïenza, amore e virtute,
e sua nazion sarà tra feltro e feltro. |
|
103 |
Né il
potere né la ricchezza saranno il suo nutrimento, ma
soltanto le qualità della mente e dell’animo, e la sua
nascita avverrà tra poveri panni. |
|
Questi non
ciberà terra né peltro: l'azione politica del Veltro non
sarà dettata né da cupidigia di possedimenti (terra) né
da brama di denaro (peltro: lega metallica di stagno,
piombo e mercurio ) .
Sapienza, amore e virtute:
più che qualità generiche, suggeriscono le tre persone
della Trinità: virtute (nel senso latino di potenza,
capacità ), il Padre onnipotente; sapienza, il Figlio
("il Verbo si è fatto carne"; Giovanni I, 14); amore,
l'afflato di carità dello Spirito Santo. |
106 |
Di quella
umile Italia fia salute
per cui morì la vergine Cammilla,
Eurialo e Turno e Niso di ferute. |
|
106 |
Sarà la
salvezza di quella Italia, ora umiliata, per la quale si
immolarono in combattimento la giovinetta Camilla,
Eurialo e Turno e Niso. |
|
Camilla e
Turno combatterono e morirono in guerra contro
l'esercito di Enea sbarcato nel Lazio. Eurialo e Niso
s'immolarono invece per la salvezza dei Troiani. "
L'aver unito nella esaltazione i vincitori e i vinti che
combatterono per la patria è tratto virgiliano, ma anche
dantesco." (Gallardo) |
109 |
Questi la
caccerà per ogne villa,
fin che l'avrà rimessa ne lo 'nferno,
là onde 'nvidia prima dipartilla. |
|
109 |
Egli darà
la caccia alla lupa in ogni città, fino a costringerla a
tornarsene nella sua sede naturale, l’inferno, da dove
Lucifero, odio primigenio, la fece uscire. |
112 |
Ond' io per
lo tuo me' penso e discerno
che tu mi segui, e io sarò tua guida,
e trarrotti di qui per loco etterno; |
|
112 |
Perciò
penso e giudico che, per la tua salvezza, tu mi debba
seguire, e io sarà tua guida, e ti condurrò da qui nel
luogo della pena eterna, |
115 |
ove udirai
le disperate strida,
vedrai li antichi spiriti dolenti,
ch'a la seconda morte ciascun grida; |
|
115 |
dove udrai
i disperati lamenti dei malvagi, vedrai gli spiriti di
coloro che, fin dalla più remota antichità, soffrono per
l’inappellabile dannazione; |
|
La seconda
morte ciascun grida:
lamentano la loro condizione di reprobi, la morte
dell'anima; secondo altri interpreti, i dannati
invocherebbero, dopo quello del corpo, l'annullamento
anche dell'anima, la loro definitiva estinzione anche
come spiriti. E' questo il primo alto annunzio della
condizione morale dei dannati, del loro tormento
spirituale. Alla forza della disperazione morale dei
dannati si contrappone la forza della speranza delle
anime purganti: perché sperano nel paradiso, son
contenti nel foco. Le parole di Virgilio sono già una
viva sintesi della fisionomia morale dei due regni." (Momigliano) |
118 |
e vederai
color che son contenti
nel foco, perché speran di venire
quando che sia a le beate genti. |
|
118 |
e vedrai
coloro che sono contenti di espiare le loro colpe nei
tormenti purificatori del purgatorio, certi di salire
prima o poi al cielo. |
121 |
A le quai poi se tu vorrai salire,
anima fia a ciò più di me degna:
con lei ti lascerò nel mio partire; |
|
121 |
Se tu
vorrai giungere fin lassù, un’anima più nobile di me ti
accompagnerà: con lei ti lascerò al momento del mio
distacco; |
124 |
ché quello
imperador che là sù regna,
perch' i' fu' ribellante a la sua legge,
non vuol che 'n sua città per me si vegna. |
|
124 |
poiché
Dio, che lassù regna, non permette che qualcuno possa
penetrare nella sua città (tra i beati) senza essere
stato in terra sottomesso alla sua legge ( cioè
cristiano ). |
127 |
In tutte
parti impera e quivi regge;
quivi è la sua città e l'alto seggio:
oh felice colui cu' ivi elegge!». |
|
127 |
Dio è in
ogni luogo sovrano onnipotente e ha nel cielo la sua
sede; qui si trovano la sua città e l’eccelso trono:
felice colui che Dio sceglie perché risieda in cielo" |
130 |
E io a lui:
«Poeta, io ti richeggio
per quello Dio che tu non conoscesti,
a ciò ch'io fugga questo male e peggio, |
|
130 |
Ed io:
"Poeta, ti chiedo in nome di quel Dio che non hai potuto
conoscere, per la mia salvezza temporale ed eterna,
|
|
Acciò
ch'io fugga...:
perché io eviti "lo smarrimento presente (questo male) e
poi la dannazione, sua naturale conseguenza (e peggio)"
( Grabher) .
La
porta di san Pietro:
la porta del paradiso, a guardia della quale, nella
immaginazione popolare, era posto San Pietro ("a te darò
le chiavi del regno dei cieli"; Matteo XVI, 19). |
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che tu mi
meni là dov' or dicesti,
sì ch'io veggia la porta di san Pietro
e color cui tu fai cotanto mesti». |
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di
condurmi là dove ora hai detto, tanto che io possa
vedere la porta del paradiso e le anime che dici immerse
in così grandi pene". |
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Allor si
mosse, e io li tenni dietro. |
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Virgilio
sì incamminò, e io lo seguii. |
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