1 |
Di nova pena
mi conven far versi
e dar matera al ventesimo canto
de la prima canzon, ch'è d'i sommersi. |
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1 |
Devo ora scrivere versi intorno ad una pena mai prima
vista e fornire argomento al ventesimo canto della prima
cantica, che è quella dei dannati sprofondati
(nell’inferno). |
4 |
Io era già
disposto tutto quanto
a riguardar ne lo scoperto fondo,
che si bagnava d'angoscioso pianto; |
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4 |
Io ero già del tutto
pronto a scrutare nel fondo visibile (della bolgia), che
era bagnato da lagrime d’angoscia; |
7 |
e vidi gente
per lo vallon tondo
venir, tacendo e lagrimando, al passo
che fanno le letane in questo mondo. |
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7 |
e notai una folla che
avanzava nella gran valle circolare, silenziosa e
piangente, col passo che tengono nel nostro mondo le
processioni. |
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Nel ritmo di questa processione di anime si avverte già
quella che sarà la tonalità fondamentale del canto,
tutto pervaso dal fascino di miti arcani e remoti.
Osserva in merito il Caccia: "qui tutta la scena si
slarga improvvisamente: il vallon dà al quadro una
vastità e una risonanza che oseremmo dire più arcana, e
si prolunga in quell’attributo tondo che lo estende in
una curva infinita, mentre il verbo venir rende, con il
suo suggestivo accamparsi all’inizio del verso, il lento
procedere dei peccatori, che tacciono e piangono". |
10 |
Come 'l viso
mi scese in lor più basso,
mirabilmente apparve esser travolto
ciascun tra 'l mento e 'l principio del casso, |
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10 |
Quando il mio sguardo
scese più in basso su di loro, ognuno mi apparve essere
rivolto all’indietro in modo mostruoso tra il mento e
l’inizio del petto; |
13 |
ché da le
reni era tornato 'l volto,
e in dietro venir li convenia,
perché 'l veder dinanzi era lor tolto. |
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13 |
poiché il viso era girato verso le reni, e dovevano
camminare all’indietro, in quanto davanti la vista era
loro preclusa. |
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E’ uno dei più chiari esempi di contrappasso: le anime
di coloro che vollero vedere troppo avanti a sé sono ora
costrette a vedere solo all’indietro; vollero parlare di
ciò di cui sarebbe stato meglio tacere ed ora tacciono
per sempre; vollero, come nota il Pietrobono,
"stravolgere il senso delle Scritture ed ora sono
stravolte". Questi significati "non restano cosa
cerebrale, ma si fanno vivi, si respirano come se
fossero sospesi nel clima allucinante di questa bolgia
suggellata dal silenzio"(Grabher). |
16 |
Forse per
forza già di parlasia
si travolse così alcun del tutto;
ma io nol vidi, né credo che sia. |
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16 |
Forse già qualcuno si
stravolse così completamente a causa di una paralisi; ma
io non lo vidi mai, né credo che ciò avvenga. |
19 |
Se Dio ti
lasci, lettor, prender frutto
di tua lezione, or pensa per te stesso
com' io potea tener lo viso asciutto, |
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19 |
Lettore,
voglia Dio lasciarti trarre profitto dalla tua lettura,
(in nome di questo augurio) pensa adesso da te come
avrei potuto trattenermi dal piangere, |
22 |
quando la
nostra imagine di presso
vidi sì torta, che 'l pianto de li occhi
le natiche bagnava per lo fesso. |
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22 |
allorché vidi da vicino la nostra figura umana così
stravolta, che le lagrime bagnavano la fenditura che si
apre tra le natiche. |
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L’uomo, con il suo corpo fatto ad immagine e somiglianza
di Dio, pareva a Dante essere "intra li effetti della
divino sapienza... mirabilissimo" (Convivío III, VIII,
1). Qui, in questo spaventoso stravolgimento, viene
offesa la sua dignità, viene degradata la sua nobiltà e
la sua perfezione nella scala delle creature; per questo
il Poeta prova un dolore profondo, un sentimento di
orrore e, insieme, di avvilimento, di fronte a questa
umiliazione che, in quanto uomo, sente come anche sua. |
25 |
Certo io
piangea, poggiato a un de' rocchi
del duro scoglio, sì che la mia scorta
mi disse: «Ancor se' tu de li altri sciocchi? |
|
25 |
In verità io piangevo, appoggiato ad una delle sporgenze
dello scoglio pietroso, così che il mio accompagnatore
mi disse: "Fai ancora parte degli altri stolti (che si
commuovono di fronte alla punizione dei malvagi)? |
28 |
Qui vive la
pietà quand' è ben morta;
chi è più scellerato che colui
che al giudicio divin passion comporta? |
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28 |
Qui la pietà ha valore
quando è del tutto spenta: chi é più empio di colui che
mostra compassione là dove Dio ha giudicato? |
|
Il significato di questi versi è assai controverso. Per
il D’Ovidio e il Barbi si deve intendere - e questa
spiegazione appare assai convincente -: "Chi più
scellerato di colui che prova compassione di fronte agli
effetti di una giusta sentenza divina?
Per il Casini, la scelleratezza non è di colui che prova
compassione, ma degli indovini, i quali "osarono
prevenire il giudizio divino e portarvi le umane
passioni". Interessante la spiegazione fornita dal
Parodi, con particolare riferimento al termine passion:
"chi più scellerato di colui che pretende di portar
passione al giudizio di Dio; che cioè crede di render
passivo, di sottomettere all’azione umana,
contrastandovi o favorendolo, il consiglio di Dio, che è
attività per essenza? |
31 |
Drizza la
testa, drizza, e vedi a cui
s'aperse a li occhi d'i Teban la terra;
per ch'ei gridavan tutti: "Dove rui, |
|
31 |
Alza il capo, alzalo, e
guarda colui al quale sotto gli occhi dei Tebani si
spalancò la terra, così che tutti gridavano: "Dove
precipiti, |
34 |
Anfïarao?
perché lasci la guerra?".
E non restò di ruinare a valle
fino a Minòs che ciascheduno afferra. |
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34 |
Anfiarao? perché abbandoni
la guerra?" E non smise di precipitare in basso fino a
Minosse che ghermisce tutti. |
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Virgilio vuole che il suo discepolo osservi con occhio
severo, con animo impietoso, questi personaggi, in modo
da potersi sottrarre al fascino che emana dalle loro
figure, fascino profondamente sentito da un poeta come
Dante che, proprio nell’antichità classica trova gli
esempi più meravigliosi del potere della ragione umana.
Come scrive il Comparetti, Dante, "pur considerandola
come limitata, venera coloro che la rappresentarono
indipendentemente dalla rivelazione e anteriormente alla
missione i Cristo".Virgilio dunque, che nel poema
rappresenta l’antichità classica e la sua tradizione
letteraria, richiama bruscamente Dante alla verità
cristiana, per la quale la magia e la superstizione sono
peccato. Il rimprovero di Virgilio al suo discepolo è
una decisa condanna dell’umana superbia, del desiderio
di conoscere ciò che deve essere lasciato alla sapienza
divina. Da tutto questo insieme di motivi nasce
l’esortazione ad osservare i peccatori. Il primo di
questi, Anfiarao, fu uno dei sette re che assediarono
Tebe e, secondo quanto narra Stazio (Tebaide VII,
690-893), perì durante l’assedio essendoglisi aperta la
terra sotto i piedi. |
37 |
Mira c'ha
fatto petto de le spalle;
perché volse veder troppo davante,
di retro guarda e fa retroso calle. |
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37 |
Osserva come ha trasformato in petto le
spalle: poiché volle veder troppo davanti a sé, (ora)
guarda all’indietro e cammina a ritroso. |
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Nell’insistenza con cui il Poeta fa sottolineare da
Virgilio gli aspetti fisici e morali della pena degli
indovini è stata vista da alcuni una implicita smentita
alla fama di mago e indovino che nel Medioevo circondava
l’autore dell’Eneide. Dante stesso, del resto, fu
creduto ai suoi tempi un mago: gli venne infatti
attribuita una corresponsabilità nei sortilegi fatti da
Gian Galeazzo Visconti contro papa Giovanni XXII. |
40 |
Vedi
Tiresia, che mutò sembiante
quando di maschio femmina divenne,
cangiandosi le membra tutte quante; |
|
40 |
Vedi Tiresia, che cambiò
aspetto quando si tramutò da maschio in femmina mentre
tutte le membra si trasformavano; |
43 |
e prima,
poi, ribatter li convenne
li duo serpenti avvolti, con la verga,
che rïavesse le maschili penne. |
|
43 |
e dovette poi percuotere
nuovamente, con la verga, i due serpenti avvinti prima
di riavere le forme maschili. |
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L’indovino tebano Tiresia fu trasformato in donna,
secondo quanto narra Ovidío (Metamorfosi III, 324-33l),
per aver separato, colpendoli con la sua verga, due
serpenti in amore; dopo parecchi anni dovette percuotere
ancora gli stessi serpenti per poter riacquistare il
sesso maschile. Troviamo, in questa metamorfosi terrena
così umiliante, come un presagio della trasformazione
infernale. |
46 |
Aronta è
quel ch'al ventre li s'atterga,
che ne' monti di Luni, dove ronca
lo Carrarese che di sotto alberga, |
|
46 |
Quello che volge la
schiena al ventre di Tiresia è Arunte, il quale nei
monti di Luni, dove i Carraresi che abitano in basso
dissodano la terra, |
49 |
ebbe tra '
bianchi marmi la spelonca
per sua dimora; onde a guardar le stelle
e 'l mar non li era la veduta tronca. |
|
49 |
ebbe come sua dimora la
grotta tra i marmi bianchi; dalla quale la vista rivolta
alle stelle e al mare non gli era impedita. |
|
L’indovino etrusco Arunte previde, secondo quanto
riferisce Lucano nella Forsaglia (I, 584 sgg.), la
guerra civile fra Cesare e Pompeo e la vittoria di
Cesare. Sempre Lucano scrive che Arunte abitò "le mura
spopolate di Luni" (città etrusca situata alle foci
della Magra). Dante tuttavia preferisce mostrarcelo
intento a scrutare gli astri nella solitudine di una
spelonca montana, in mezzo al candore dei marmi: "il
Carrarese "roncava" giù in basso, affaticandosi nel duro
e aspro terreno: egli, lassù in alto, in una marmorea
spelonca, alieno dalle opere consuete degli uomini,
guardava, superbamente confidando di strappar loro il
segreto dei loro misteri, le stelle ed il mare"
(Parodi). In questi versi non dobbiamo vedere soltanto
l’evocazione di un paesaggio; essi contengono anche
un’evocazione indiretta di quei misteri di magia nei
quali Arunte fu esperto e della vita da lui trascorsa
lontano dagli uomini e dal loro quotidiano affannarsi:
"di contro alla virtuosa fatica dell’uomo e alle
bellezze della natura da lui vinta con l’onesto lavoro,
sta la semplice e selvaggia spelonca in cui abitò
l’indovino, sta la vanità ma anche la nobiltà del suo
sogno: quel suo sguardo fisso alle stelle e al mare
lontani, in cui la bellezza della natura non vinta
dall’uomo si ammanta di un fascino misterioso" (Caccia). |
52 |
E quella che
ricuopre le mammelle,
che tu non vedi, con le trecce sciolte,
e ha di là ogne pilosa pelle, |
|
52 |
E colei che si copre il
seno, che tu non puoi vedere, con le trecce sciolte, e
ha dall’altra parte tutte le parti pelose del corpo, |
55 |
Manto fu,
che cercò per terre molte;
poscia si puose là dove nacqu' io;
onde un poco mi piace che m'ascolte. |
|
55 |
fu Manto, che peregrinò
per molti paesi; poi si fermò là dove io nacqui: per cui
sarei lieto che tu mi prestassi un po’ d’attenzione. |
|
Come Tiresia, di cui era figlia, anche Manto è un
personaggio della mitologia greca. Gli antichi poeti
narrano che fuggì da Tebe dopo la morte del padre e che,
venuta in Italia, si fermò nel luogo dove in seguito fu
fondata la città di Mantova.
Tutte le figure degli indovini di questa bolgia appaiono
dominate da un destino che le isola dal consorzio umano.
Come Arunte anche Manto ha cercato la lontananza dai
suoi simili: nel racconto sulle origini di Mantova, che
qui inizia, domina "il motivo della solitudine di questa
donna che non volle essere donna" (Caccia) e la sua
vicenda "sembra definirsi in quattro potenti aggettivi:
le trecce sciolte, le terre incolte, la vergine cruda,
il corpo vano. Anche qui una biografia poetica toccata
nei suoi tratti essenziali sino alla tragedia di quel
cadavere vano nella solitaria pianura". |
58 |
Poscia che
'l padre suo di vita uscìo
e venne serva la città di Baco,
questa gran tempo per lo mondo gio. |
|
58 |
Dopo che il padre morì, e la città di
Tebe (di Baco: di Bacco, sacra a Bacco) fu asservita,
costei andò per il mondo lungamente. |
|
Tebe era sacra a Bacco perché là il dio aveva avuto i
suoi natali. Dopo la guerra che vide schierati in campi
opposti i due figli di Edipo, Eteocle e Polinice, cadde
sotto il dominio del tiranno Creonte. |
61 |
Suso in
Italia bella giace un laco,
a piè de l'Alpe che serra Lamagna
sovra Tiralli, c'ha nome Benaco. |
|
61 |
Lassù nella bella Italia vi è un lago,
ai piedi dei monti che segnano i confini della Germania
sopra il Tirolo, il quale si chiama Benaco. |
|
Incomincia qui con l’accorata ed affettuosa evocazione
della Italia bella una minuta descrizione geografica
della regione in cui si trova Mantova, tributo d’affetto
del discepolo al maestro mantovano. |
64 |
Per mille
fonti, credo, e più si bagna
tra Garda e Val Camonica e Pennino
de l'acqua che nel detto laco stagna. |
|
64 |
Attraverso mille e più sorgenti, credo,
la regione tra il Garda, la Val Camonica e l’Appennino,
è irrigata dall’acqua che poi ristagna nel lago
suddetto. |
|
Col nome di Appennino è qui designata una parte della
catena delle Alpi (le Alpi Venoste), tra la Val Camonica
e la riva veronese del lago di Garda. |
67 |
Loco è nel
mezzo là dove 'l trentino
pastore e quel di Brescia e 'l veronese
segnar poria, s'e' fesse quel cammino. |
|
67 |
In mezzo ad esso è un posto dove il
vescovo di Trento, quello di Brescia e quello di Verona
potrebbero dare la benedizione, se facessero quel
percorso. |
|
In questo luogo immaginario o reale che sia (alcuni
hanno creduto di poterlo identificare nell’isola dei
Frati, oggi chiamata Lechi, in cui la chiesa di Santa
Margherita era soggetta alla giurisdizione dei tre
vescovi), si sarebbe potuto esercitare, secondo quanto
afferma Dante, il ministero dei tre pastori. |
70 |
Siede
Peschiera, bello e forte arnese
da fronteggiar Bresciani e Bergamaschi,
ove la riva 'ntorno più discese. |
|
70 |
Peschiera, bella e robusta fortezza
atta a fronteggiare Bresciani e Bergamaschi, è posta
dove la riva intorno è più bassa. |
|
La fortezza dì Peschiera faceva parte del sistema
difensivo allestito dagli Scaligeri intorno a Verona.
Dante, che fu ospitato durante il suo esilio da
Cangrande della Scala, rende implicitamente omaggio con
questo verso alla potenza dei signori di Verona. |
73 |
Ivi convien
che tutto quanto caschi
ciò che 'n grembo a Benaco star non può,
e fassi fiume giù per verdi paschi. |
|
73 |
Lì (presso Peschiera)
necessariamente trabocca tutto quello che non può essere
contenuto nel Benaco, e diventa fiume giù per i pascoli
verdeggianti. |
76 |
Tosto che
l'acqua a correr mette co,
non più Benaco, ma Mencio si chiama
fino a Governol, dove cade in Po. |
|
76 |
Appena l’acqua ricomincia
a correre, non si chiama più Benaco, ma Mincio, fino a
Governolo, ove si getta nel Po. |
|
L’amore dell’autore delle Georgiche per la sua terra è
messo in rilievo attraverso alcuni brevi ma incisivi
cenni: è il Mincio, il fiume che bagna Mantova, quello
che raccoglie le acque del Garda e scorre tra verdi
pascoli. Nell’Eneide il Mincio viene rievocato quale
"figliuolo del Benaco" e descritto come "velato dalle
verdi canne" (X, 205), nelle Bucoliche (VII, 12-13) e
nelle Georgiche (111, 14-15) ricorre la stessa immagine
del Mincio che fluisce in pigre curve e riveste le sue
rive di tenere canne. |
79 |
Non molto ha
corso, ch'el trova una lama,
ne la qual si distende e la 'mpaluda;
e suol di state talor esser grama. |
|
79 |
Dopo un percorso non
lungo, esso trova un avvallamento, nel quale straripa
trasformandolo in palude; e talvolta durante l’estate
diventa malsano. |
82 |
Quindi
passando la vergine cruda
vide terra, nel mezzo del pantano,
sanza coltura e d'abitanti nuda. |
|
82 |
Passando di lì la vergine
crudele scorse della terra, in mezzo alla palude, non
coltivata e priva di abitanti. |
|
Dopo la minuta descrizione geografica Virgilio torna a
parlare di Manto, che definisce vergine cruda, "dove
cruda sarà da intendersi meglio come selvaggia,
solitaria, negata alla vita sociale, come aggettivo
quindi adatto al paesaggio che le sarà caro, piuttosto
che nel senso specifico di crudele, come colei che
porgeva aiuto al padre nei suoi sortilegi, libando il
sangue delle vittime e spargendone intorno le viscere
fumanti, secondo la tradizione di Stazio. Non è ella l’effera
Erichtho, la sua crudezza è una ripugnanza alla vita
civile da cui fu delusa, non è desiderio di male e di
sangue" (Caccia). |
85 |
Lì, per
fuggire ogne consorzio umano,
ristette con suoi servi a far sue arti,
e visse, e vi lasciò suo corpo vano. |
|
85 |
Lì, per evitare ogni contatto umano, si
fermò con i suoi servitori ad esercitare le sue pratiche
magiche, e lì visse, e vi lasciò il suo corpo esanime. |
|
Il racconto delle origini di Mantova fra i versi 79 e 87
richiama, come nota il Momigliano, "Ia suggestiva
intonazione mitica del principio dell’episodio del
Veglio di Creta, soprattutto per la desolazione e la
solitudine del paesaggio su cui si trova a vivere la
protagonista", solitudine "non arcanamente contemplativa
come quella di Arunte, ma gravida di selvaggio orrore" (Grabher). |
88 |
Li uomini
poi che 'ntorno erano sparti
s'accolsero a quel loco, ch'era forte
per lo pantan ch'avea da tutte parti. |
|
88 |
In seguito gli uomini che
erano sparsi nei dintorni si radunarono in quel luogo,
che era ben fortificato avendo da ogni lato la palude. |
91 |
Fer la città
sovra quell' ossa morte;
e per colei che 'l loco prima elesse,
Mantüa l'appellar sanz' altra sorte. |
|
91 |
Costruirono la città dove
erano sepolte le ossa di Manto; e in onore di colei che
per prima aveva scelto quel luogo, la chiamarono Mantova
senza bisogno di ricorrere ad alcun sortilegio. |
|
Qui Virgilio attribuisce la fondazione di Mantova non a
Ocno, figlio della maga, come è narrato nell’Eneide (X
198 sgg.), ma a genti di stirpe diversa, in modo che
nulla di magico vi sia nelle origini di questa città, la
quale, anzi, sorse senza che neppure si traessero gli
auspici come "anticamente si usava, quando si doveva
ponere nome ad alcuno luogo" (Lana). Questa è la
versione dei fatti che deve essere creduta da Dante e da
tutti. |
94 |
Già fuor le
genti sue dentro più spesse,
prima che la mattia da Casalodi
da Pinamonte inganno ricevesse. |
|
94 |
Un tempo i suoi abitanti furono più
numerosi nella cerchia delle sue mura, prima che la
stoltezza di Alberto da Casalodi fosse tratta in inganno
da Pinamonte. |
|
Alberto da Casalodi, signore guelfo di Mantova, si
lasciò convincere dal ghibellino Pinamonte dei
Bonaccolsi a esiliare molti nobili per placare il
malcontento dei popolo, privandosi così del principale
sostegno e attirandosi molte inimicizie, per cui in un
secondo tempo fu spodestato da Pinamonte che signoreggiò
Mantova dal 1272 al 1291. |
97 |
Però t'assenno
che, se tu mai odi
originar la mia terra altrimenti,
la verità nulla menzogna frodi». |
|
97 |
Perciò ti avverto che qualora tu udissi spiegare in modo
diverso l’origine della mia città, nessuna menzogna deve
alterare la verità". |
100 |
E io:
«Maestro, i tuoi ragionamenti
mi son sì certi e prendon sì mia fede,
che li altri mi sarien carboni spenti. |
|
100 |
Ed io:
"Maestro, i tuoi ragionamenti sono per me a tal punto
veritieri e conquistano talmente il mio assenso, che gli
altri (ragionamenti) sarebbero per me inefficaci
(tizzoni spenti, cioè privi di luce e di calore. |
|
Profondamente suggestivo è questo paragone dei carboni
spenti: ciò che è falso è inutile ed inefficace; il vero
irradia luce e calore. Con questa adesione senza riserve
alla versione dei fatti sostenuta dal maestro, Dante
liricamente ribadisce il suo amore per la verità, quell’amore
che lo guida e lo sorregge nel suo viaggio
nell’oltretomba, quell’amore in nome del quale non si
perita di condannare i grandi della terra. |
103 |
Ma dimmi, de
la gente che procede,
se tu ne vedi alcun degno di nota;
ché solo a ciò la mia mente rifiede». |
|
103 |
Ma dimmi. dei dannati che
camminano, se ne scorgi qualcuno degno di
considerazione; perché la mia mente si indirizza di
nuovo soltanto a ciò". |
106 |
Allor mi
disse: «Quel che da la gota
porge la barba in su le spalle brune,
fu - quando Grecia fu di maschi vòta, |
|
106 |
Allora mi disse: "Colui
che lascia scendere dalle guance la barba sulle spalle
abbronzate (invece che sul petto), fu, quando la Grecia
rimase priva di uomini |
|
Euripilo è l’indovino che insieme a Calcante interrogò
gli dei per sapere quando la flotta dei Greci, ferma in
Aulide per mancanza di venti favorevoli, avrebbe potuto
iniziare a navigare alla volta di Troia. La spedizione
militare dei Greci assume proporzioni gigantesche
attraverso il particolare così semplice e umile dei
bambini rimasti nelle culle. |
109 |
sì ch'a pena
rimaser per le cune -
augure, e diede 'l punto con Calcanta
in Aulide a tagliar la prima fune. |
|
109 |
in modo che ne restarono
soltanto nelle culle, un indovino, e in Aulide indicò
insieme con Calcante, il momento propizio per recidere
la prima gomena. |
112 |
Euripilo
ebbe nome, e così 'l canta
l'alta mia tragedìa in alcun loco:
ben lo sai tu che la sai tutta quanta. |
|
112 |
Si chiamò Euripilo, e
sotto questo nome lo celebra il mio sublime poema in un
suo passo: lo sai bene tu che lo conosci tutto. |
115 |
Quell' altro
che ne' fianchi è così poco,
Michele Scotto fu, che veramente
de le magiche frode seppe 'l gioco. |
|
115 |
Quell’altro che è così
magro nei fianchi, fu Michele Scotto, il quale fu
davvero abile nelle frodi della magia. |
118 |
Vedi Guido
Bonatti; vedi Asdente,
ch'avere inteso al cuoio e a lo spago
ora vorrebbe, ma tardi si pente. |
|
118 |
Vedi Guido Bonatti; vedi
Asdente, il quale adesso vorrebbe essersi occupato del
cuoio e dello spago, ma si pente troppo tardi. |
|
Michele Scotto fu un filosofo scozzese, astrologo alla
corte di Federico Il e "gran maestro in nigromantia"
(Boccaccio - Decamerone VIII, 9): ebbe infatti fama di
mago (si narra che preparasse banchetti con vivande
portate da spiriti da lui evocati) e indovino (predisse
la sorte di molte città italiane). |
121 |
Vedi le
triste che lasciaron l'ago,
la spuola e 'l fuso, e fecersi 'ndivine;
fecer malie con erbe e con imago. |
|
121 |
Vedi le sciagurate che abbandonarono
l’ago, la spola e il fuso, e si fecero indovine; fecero
incantesimi con erbe e con simulacri.
|
|
Il forlivese Guido Bonatti fu astrologo al servizio di
molti potenti come Federico II, Guido Novello da
Polenta, Ezzelino da Romano, Guido da Montefeltro.
Scrisse un trattato sugli astri che ebbe larga
diffusione.
Asclente era un calzolaio di Parma, che godette
grandissima fama come indovino. Fra’ Salimbene nella sua
cronaca ne parla come di un uomo "di intelletto molto
illuminato nell’interpretare le scritture di quelli che
avevano predetto il futuro". |
124 |
Ma vienne
omai, ché già tiene 'l confine
d'amendue li emisperi e tocca l'onda
sotto Sobilia Caino e le spine; |
|
124 |
Ma vieni via di qui ormai;
poiché già la luna occupa il confine dei due emisferi
(boreale e australe) e si immerge nel mare nelle
vicinanze di Siviglia; |
127 |
e già
iernotte fu la luna tonda:
ben ten de' ricordar, ché non ti nocque
alcuna volta per la selva fonda». |
|
127 |
e già ieri notte la luna
fu piena: te ne devi ben ricordare, poiché ti fu utile
una volta nella selva buia". |
|
Il canto della magía e della superstizione si chiude con
una evocazione della luna. Secondo un’antica credenza
popolare sulla superficie lunare è visibile l’immagine
di Caino oppresso da un fascio di spine. Il Momigliano
nota che questa immagine "fa un’arcana impressione in
fondo ad una bolgia, ed è in segreta armonia con quel
tanto di arcano che c’è nell’arte degli indovini. In
nessun altro canto questo cielo di luna piena adombrato
sullo sfondo di una selva folta avrebbe fatto
l’impressione che fa in questa bolgia di incantatori...
Dante che giudica quei peccatori, e Virgilio che li
rinnega, finiscono per camminare in uno scenario di
malia". |
130 |
Sì mi
parlava, e andavamo introcque. |
|
130 |
Così mi parlava, ed intanto camminavamo. |