IL SITO DELLA LETTERATURA

 Autore Luigi De Bellis   
     

Riassunto Promessi sposi

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MANZONI: Tutto sui "Promessi sposi" Riassunti

Capitolo III

Lucia racconta alla madre e a Renzo come, mentre tornava con le compagne dalla filanda, sia stata importunata da don Rodrigo, in compagnia di un altro signore. Per questo, secondo il consiglio del suo confessore, padre Cristoforo, frate nel vicino convento di Pescarenico, ha cercato di accelerare le nozze. Renzo si abbandona all'ira, mentre Lucia cerca di calmarlo e piange. Agnese gli consiglia di rivolgersi ad un avvocato e gli indica il dottor Azzecca-garbugli di Lecco.
Renzo vi si reca, portandogli quattro capponi. Il dottor Azzecca-garbugli lo riceve in uno studio disordinato, lo scambia per un «bravo» e gli mostra una «grida» che fa al caso suo ma, quando capisce che Renzo è la vittima della situazione e che l'antagonista è don Rodrigo, lo caccia in malo modo, restituendogli addirittura i capponi.
Nel frattempo a casa di Agnese e Lucia si è presentato fra Galdino, frate cercatore del convento dei cappuccini di Pescarenico, per la raccolta delle noci. Il frate intrattiene le due donne con il racconto del «miracolo delle noci».
Lucia, tramite suo, manda a chiamare padre Cristoforo. Arriva Renzo e, prima di rientrare a casa, racconta infuriato l'esito della propria spedizione.
Il capitolo, di struttura simmetrica, si apre e si chiude con un colloquio tra Renzo, Lucia e Agnese nella casetta e consta di due sequenze nettamente distinte. Nella prima Renzo si reca a Lecco, dove, di fronte all'Azzecca-garbugli, incorre nel primo degli equivoci sulla sua identità e sulle sue intenzioni che lo perseguiteranno per tutto il romanzo. La citazione del documento storico (la celebre «grida» da cui il Manzoni, secondo la testimonianza del figliastro, avrebbe addirittura preso spunto per ideare la vicenda) è, in questo caso, non avulsa dalla narrazione, ma di essa parte integrante.
Nella seconda parte la visita di fra Galdino è occasione per sottolineare l'intelligenza di Lucia e certe caratteristiche di comare ciarliera della madre, già adombrate all'inizio del capitolo; per stabilire un legame con padre Cristoforo; per un excursus storico-apologetico sui cappuccini.
Il capitolo si chiude con l'esclamazione di Renzo: «a questo mondo c'è giustizia, finalmente!», tanto più amara in quanto tutti i tentativi degli uomini di avere giustizia risultano e risulteranno vani.



Capitolo IV

Il capitolo quarto è interamente dedicato alla figura di padre Cristoforo (cappuccino, forse storicamente identificabile in Cristoforo Picenardi da Cremona) che, già nominato nel capitolo precedente, subito accompagnato dall'aggettivo «riverito», entra ora in scena. Lo vediamo uscire all'alba dal convento di Pescarenico, diretto alla casa di Lucia. Segnali della carestia incombente lo accompagnano nel suo cammino: uomini e animali denunciano sofferenza (è un preludio del grande quadro urbano del cap. XXVIII). Pochi tratti somatici, tra cui rimane impresso il paragone degli occhi con «due cavalli bizzarri», ne tratteggiano l'aspetto, e, contemporaneamente, l'indole risentita: da qui prende le mosse l'ampia disgressione per narrare la vicenda che ne ha formato il carattere e ne ha condizionato la scelta di vita.
Il suo nome di battesimo era Lodovico: figlio di un mercante che, arricchitosi, si era ritirato dal commercio, era stato educato come un nobile. Con i nobili arroganti della sua città era però presto entrato in contrasto, finché ne aveva ucciso uno in duello, a conclusione di una banale contesa per motivi di precedenza. Rifugiatosi in un convento, gravemente ferito, era maturata in lui, insieme al rimorso, la vocazione e si era fatto frate, prendendo il nome di Cristoforo, suo fedele servitore morto per difenderlo. Sul punto di partire per la sua prima destinazione aveva chiesto perdono al fratello dell'ucciso che gliel'aveva concesso, di fronte a tutta la famiglia, dandogli in pegno un pane. Da allora aveva condotto vita esemplare, pur mantenendo un'«indole focosa».
La storia di Lodovico è intessuta di richiami alla vita secentesca vista dagli occhi di chi, polemicamente, ne misura la vuota apparenza: la vergogna del mercante per essere stato mercante («non riflettendo mai che il vendere non è cosa più ridicola che il comprare»); l'educazione superficiale impartita ai giovani nobili; gli ossessivi rituali cavallereschi; l'ambiguo rapporto che lega il clero, pur deciso a difendere le sue prerogative, alla nobiltà.
Puntigliosa, anche in questo caso, la ricostruzione dell'ambiente: pranzi, strade marciapiedi, cortili, «durlindane pendenti», «gorgiere inamidate», «rabescate zimarre».
Solo la virtù dell'umiltà e il sentimento cristiano del perdono possono far breccia in questo mondo intriso di arroganza e violenza.

 

© 2009 - Luigi De Bellis